Sulla falsariga degli Esercizi di stile di Queneau, Voci di paese è il quarto racconto di quattro, scritti da punti di vista diversi.

L’inquilina, variazione 1 di 4
Lo specchio, variazione 2 di 4
Il pacco della spesa, variazione 3 di 4
Voci di paese, variazione 3 di 4

 

Voci di paese

variazione 4 di 4

 

Il ragazzo finì la consegna e chiuse lo sportello del camioncino, parcheggiato davanti al cancelletto. Trasalì, sentendosi sfiorato a una spalla: ogni volta che gli toccava portare la spesa in quella villa lo prendeva una strana agitazione.
«Nuovo lavoro, Joe?» disse un vecchio di passaggio, la voce calda e l’accento marcato del gallese d’altri tempi.
«Sì, da qualche mese, Carl» rispose il ragazzo, rilassandosi alla vista del sorriso familiare. Fece una pausa, si guardò un attimo la punta dei piedi, poi riprese: «Dimmi una cosa, Carl, ma tu sai chi abita in questa casa?»
L’amico si fece serio: «So che qualche tempo fa è stata comperata da un antiquario di Londra. Lo si è visto in paese i primi tempi, poi più niente.»
«Stai lontano da questo posto» aggiunse il vecchio, deciso.
«E perché?» Al ragazzo si drizzarono i capelli.
«Brutta storia. Tu non puoi ricordare perché successe che ero ancora ragazzino io. Ci abitava una famiglia di nome Green. Un giorno li trovarono tutti morti di consunzione, e al terzo piano – proprio là, vedi? dove la luce è accesa – c’era una delle figlie, di cui il paese non sapeva nulla, appesa a una corda e mezzo mummificata.»
«Di cui il paese non sapeva nulla?» gli fece eco il ragazzo.
«Sì. Più tardi si seppe che era stata rinchiusa perché sordomuta, ma la famiglia pensava fosse idiota e quindi l’avevano segregata per la vergogna.»
«Stupide mentalità di una volta» continuò il vecchio, allo sguardo sorpreso del giovane. «La casa fu poi comperata da un albergatore qualche anno dopo, e anche lui e la sua famiglia fecero una brutta fine.»

Il giovane, pensieroso, finì col ricordarsi di dover andare. Si allontanarono con un saluto veloce, incuranti della presenza invisibile che li aveva scrutati per tutto il tempo da sopra le loro teste. Piangeva e urlava, inascoltata: «Non sono un’idiota! Non sono un’idiota!»

 

Questo racconto è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved

 

 

Nel 1947 lo scrittore francese Raymond Queneau pubblicava Esercizi di stileseguiti da altre due edizioni successive aggiornate nel ’63 e nel ’73. In Italia furono pubblicati solo nel 1983, tradotti coraggiosamente da Umberto Eco e ultimamente, nel 2001, in una versione aggiornata. Parlo di coraggio perché gli Esercizi erano sempre stati considerati intraducibili per due motivi: il legame stretto con la lingua francese che rendeva impossibile la voltura in altra lingua e le caratteristiche stilistiche dello stesso autore. Eco risolse gli ostacoli con un processo di riscrittura.

Perché sono tanto particolari questi esercizi? Perché Queneau costruì un racconto iniziale brevissimo, dalla trama semplicissima, perfino poco interessante, e su questo racconto costruì altre 98 versioni diverse dello stesso racconto, tutte con un senso autoconclusivo, utilizzando registri linguistici e di stile differenti, da quelli enigmistici a quelli maccheronici, o trasformando il racconto iniziale in un testo teatrale piuttosto che poetico. Oppure in rielaborazioni da glottoteta, cioè chi si esprime con una lingua artificiale innestando neologismi. Oppure riscrivendoli da punti di vista diversi.

Tutto però non si risolve in un esercizio di forma paradossale e allucinatorio o in un gioco di parole impazzito e fine a se stesso, perché attraverso i suoi esercizi Queneau intrattiene il lettore e lo spinge a una lettura dinamica in cui lo stesso lettore diventa protagonista, spinto a colmare le infinite possibilità della parola e a inventare nuovi stili. Tutti quei nuovi stili che Queneau non ha scritto, tutti quei punti di vista che Queneau non ha detto.

Questo è il suo racconto iniziale.

Notazioni
Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. É con un amico che gli dice: “Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.

Questa, invece, è una delle sue tante variazioni, con il punto di vista di un personaggio…

Aspetto soggettivo I
Non ero proprio scontento del mio abbigliamento, oggi. Stavo inaugurando un cappello nuovo, proprio grazioso, e un soprabito di cui pensavo tutto il bene possibile. Incontro X davanti alla Gare Saint-Lazare che tenta di guastarmi la giornata provando a convincermi che il soprabito è troppo sciancrato e che dovrei aggiungervi un bottone in più. Cara grazia che non ha avuto il coraggio di prendersela col mio copricapo.
Non ne avevo proprio bisogno, perché poco prima ero stato strigliato da un villan rifatto che ce la metteva tutta per brutalizzarmi ogni qual volta i passeggeri scendevano o salivano. E questo in una di quelle immonde bagnarole che si riempiono di plebaglia proprio all’ora in cui debbo umiliarmi a servirmene.

… e una seconda variazione, con un altro punto di vista.

Altro aspetto soggettivo
C’era oggi sull’autobus, proprio accanto a me, sulla piattaforma, un mocciosetto come pochi – e per fortuna, che son pochi, altrimenti un giorno o l’altro ne strozzo qualcuno. Ti dico, un monellaccio di venticinque o trent’anni, e m’irritava non tanto per quel suo collo di tacchino spiumato, quanto per la natura del nastro del cappello, ridotto a una cordicella color singhiozzo di pesce. Il mascalzoncello gaglioffo!
Bene, c’era abbastanza gente a quell’ora, e ne ho approfittato: non appena la gente che scendeva e saliva faceva un po’ di confusione, io tac, gli rifilavo il gomito tra le costolette. Ha finito per darsela a gambe, il vigliacco, prima che mi decidessi a premere il pedale sui suoi fettoni e a ballargli il tip tap sugli allucini santi suoi! E se reagiva gli avrei detto, tanto per metterlo a disagio, che al suo soprabito troppo attillato mancava un bottoncino. Tiè!

 

3 pensiero su “VOCI DI PAESE – RACCONTO NOIR”

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