unabomber

Nel maggio 1978 viene trovato un pacco nel parcheggio della University of Illinois di Chicago. Siccome non reca un indirizzo preciso, viene rinviato al mittente, il professor Buckley Crist della Northwestern University.
Il professore, quando se lo trova davanti, lo esamina sospettoso, perché il mittente non è stato scritto con la sua calligrafia e, del resto, lui non aveva spedito alcun pacco. Chiamata la polizia, l’agente che lo apre viene investito da un’esplosione.

Per fortuna la bomba era rudimentale, un tubo contenente polvere da sparo sigillato con pezzi di legno. Per questo il poliziotto se la cava con ferite lievi. Anche il primitivo detonatore, un chiodo messo in tensione che avrebbe dovuto accendere sei micce per sfregamento, non ha funzionato alla perfezione.
Ma non è finita qui, come si scoprirà l’anno successivo.

Una taglia di un milione di dollari

Nel 1979, il pilota di un Boeing 727, decollato da Chicago, deve fare un atteraggio di emergenza perché dalla stiva dell’aereo fuoriesce un denso fumo nero. La causa è il timer difettoso di una bomba, stavolta più avanzata tecnologicamente della prima, avendo come innesco batterie e cavi elettrici.

Se fosse esplosa, per quanto poco potente, avrebbe potuto far saltare in aria il velivolo con tutti i passeggeri.
In America piazzare bombe sugli aerei è un reato federale, per questo, a occuparsi dell’anonimo bombarolo, non sarà la polizia locale ma l’Fbi.

Gli esperti della scientifica, analizzando il materiale scadente con il quale è stata costruita la bomba, capiscono che si tratta dello stesso autore dell’ordigno arrivato all’università.
Per questo lo chiamano Unabomb (UNiversity and Airline BOMber), poi i giornalisti allungheranno il nomignolo trasformandolo in “Unabomber”.

Un investigatore dell’Fbi, John Douglas, tenta di ricostruire il profilo dell’attentatore: per lui si tratta di un uomo molto intelligente collegato all’ambiente universitario.
I suoi superiori non gli danno retta, preferiscono pensare a un abile meccanico in grado di costruire ordigni con semplici ferri vecchi.

Viene organizzata una task force per catturare il pericoloso criminale e stabilita una ricompensa di un milione di dollari per chiunque abbia informazioni su di lui.
Le bombe cominciano a fare davvero male nel 1985. Una, esplodendo, fa perdere quattro dita e un occhio a un capitano dell’aviazione militare e un’altra, nascosta nel bagagliaio della macchina, uccide Hugh Scrutton, proprietario di un negozio di informatica in California.

UNABOMBER, GENIO ASSASSINO

Due anni dopo, nello Utah, la bomba in un altro negozio di computer ferisce Gary Wright.
Unabomber ritorna a colpire molto tempo dopo, nel 1993, ferendo gravemente David Gelernter, professore di Yale, con una bomba speditagli in un pacco. Negli stessi giorni un altro docente perde alcune dita di una mano nello stesso modo.
Ad altri professori arrivano delle lettere con scritto: “Tu sei il prossimo”.

In una lettera inviata al New York Times, viene dichiarato che a organizzare gli attacchi è il Freedom Club (“l’Associazione per la libertà”). Ma secondo l’Fbi si tratta sempre di un unico individuo: Unabomber.

Nel 1994 a saltare in aria è Thomas Mosser, dirigente di un’agenzia di pubbliche relazioni, che muore sul colpo. “L’abbiamo colpito perché ha aiutato la Exxon a ripulire la propria immagine dopo il disastro della Exxon Valdez.
Il riferimento è alla superpetroliera che si era incagliata sugli scogli dell’Alaska nel 1989, riversando in mare 40 milioni di litri di petrolio che hanno danneggiato l’ambiente naturale circostante.

L’ultimo omicidio avviene l’anno successivo, quando un pacco esplode nelle mani di Gilbert Murray, presidente della California Forestry Association, un’organizzazione che si occupa dello sfruttamento commerciale delle foreste.

Così siamo arrivati a 16 bombe, che hanno ferito 23 persone e ne hanno uccise tre.
Le vittime fanno tutte parte dell’ambiente universitario, dell’industria e della tecnologia in generale.
Anche se gli attentati hanno provocato il panico in America, il fatto che le bombe siano state inviate con la media di una all’anno, dal 1978 al 1995, ha fatto sì che pochi prendessero precauzioni prima di aprire i pacchi. Solo pochi plichi, considerati sospetti, sono stati disinnescati in tempo.

Il Manifesto di Unabomber

Le indagini della polizia ristagnano, sviate abilmente da falsi indizi lasciati sui pacchi e sulle bombe: impronte digitali che non appartengono al bombarolo e biglietti con parole prove di senso.
L’anno della svolta è il 1995. Unabomber chiede che i giornali più importanti pubblichino il suo “Manifesto”, un documento battuto a macchina lungo decine di pagine, intitolato “La società industriale e il suo futuro”, in cambio dell’interruzione degli attentati.

Dopo lunghe discussioni sull’opportunità di accettare, il ministro della Giustizia autorizza, anzi raccomanda, la pubblicazione del testo nella speranza che Unabomber sia di parola.
Il primo a offrirsi è il mensile erotico Penthouse, un concorrente più spinto di Playboy, ma quando il bombarolo invia una lettera in cui esprime il proprio dissenso, a pubblicarlo sono i due più autorevoli quotidiani americani: il New York Times e il Washington Post.

Ora la popolazione può leggere il documento in cui si spiega come l’età industriale sia disastrosa per la razza umana. Con il passare del tempo, secondo Unabomber, diventeremo tutti prigionieri della tecnologia. Occorre che ci ribelliamo prima che sia troppo tardi, tornando a vivere nella natura.
Il testo ha spessore filosofico e chi lo ha scritto è un intellettuale di primo piano.

A Chicago, da qualche tempo, la signora Linda Kaczynski fatica a dormire la notte. Da tanti piccoli particolari ha cominciato a sospettare che Ted, fratello di suo marito David, sia nientemeno che il famigerato Unabomber.

David Kaczynski non vuole credere alla moglie, ma quando legge il Manifesto sui giornali comincia ad avere dei dubbi. Un tempo ammirava il fratello per le sue idee rivoluzionarie, ma in seguito aveva cambiato opinione e ormai da cinque anni non lo vede più.

Frugando nei cassetti, David trova alcune lettere del fratello pubblicate dai giornali negli anni settanta, in cui si parla degli abusi della tecnologia.
I sospetti diventano più forti, ma David non telefona subito all’Fbi. Preferisce, invece, assumere un’investigatrice privata di Chicago, Susan Swanson, per fare delle indagini sul conto di Ted. Poi consegna le prove raccolte a Tony Bisceglie, un investigatore di Washington, perché le trasmetta all’Fbi.

Il confronto dei contenuti delle vecchie lettere con quelli del Manifesto convince gli investigatori che si tratta proprio della stessa persona.

Sì, ci sono pochi dubbi: Ted Kaczynski è Unabomber.

Un bambino geniale

Nato nel 1942 in una famiglia di origine polacca, Ted Kaczynski si distingue subito per le sue capacità di apprendimento: è talmente bravo che la scuola gli fa saltare un anno. Una decisione che si rivela catastrofica, perché il bambino rimane vittima del bullismo dei compagni di classe più grandi di lui.
Questo non fa che aumentare la sua paura innata verso gli altri, tanto che la mamma è costretto ad affidarlo alle cure di uno psicologo.

Alle superiori, Ted si dimostra un vero genio, soprattutto in matematica. Tanto che viene nuovamente spostato avanti di una classe, permettendosgli così di diplomarsi con due anni di anticipo.
A soli 16 anni, nel 1958, si iscrive alla prestigiosa università di Harvard, dove si erano laureati diversi presidenti americani, e dove, dopo di lui, si laureerà anche Barack Obama.

Ted Kaczynski frequenta in particolare le lezioni di Willard Quine, il famoso professore di filosofia e di logica, risultando il migliore del corso. Si laurea in Matematica nel 1962 (è il più giovane nella storia di Harvard) e successivamente si specializza risolvendo un problema mai risolto prima.
Secondo un docente, solo una decina di persone negli interi Stati Uniti è in grado di comprendere il pensiero di quel giovane promettente.

Nel 1967 viene assunto come ricercatore alla Berkeley, l’Università della California. Un ateneo che ha contribuito alla costruzione della bomba atomica, del laser e allo sviluppo dei computer. Sempre a Berkeley, tre anni prima dell’arrivo di Kaczynski, era scoppiata la contestazione studentesca, che solo nel 1968 arriverà in Europa.
Questa atmosfera politicamente effervescente e allo stesso tempo tecnologicamente avanzata influenza il giovane professore, che si dimette dopo due anni di insegnamento senza dare spiegazioni.

A 26 anni, Ted torna nella casa dei genitori. Lavora nella piccola azienda metalmeccanica del padre.

La capanna di Unabomber

Un paio di anni dopo si trasferisce nel Montana, uno stato semiselvaggio noto soprattutto per la presenza degli orsi.
Va ad abitare in una capanna priva di elettricità e di acqua corrente, anche durante i rigidissimi inverni.

Si procura il cibo andando a caccia nelle foreste circostanti e guadagna un po’ di spiccioli facendo lavoretti saltuari nel vicino villaggio di Lincoln, dove lo considerano un eremita, mentre altri soldi gli vengono mandati dalla famiglia.

I suoi non immaginano lontanamente l’utilizzo che ne fa: a Ted bastano pochi dollari per costruire ordigni sempre più perfezionati e mortali.
Gli anni passano, finché, il 3 aprile 1996, spinti dai sospetti del fratello David, in quella isolata capanna del Montana fanno irruzione gli uomini armati dell’Fbi. I quali trovano un sorpreso Ted Kaczynski sporco e con la lunga barba incolta.

Nella capanna ci sono i pezzi di una bomba inutilizzata e l’originale scritto a mano del Manifesto, elementi che bastano per inchiodarlo.
E dire che durante le indagini su Unabomber, le più lunghe e costose sostenute dall’Fbi, il nome di Kaczynski non era mai saltato fuori. Sono riusciti a individuarlo solo grazie al fratello David, che dona il milione di dollari avuto in premio alle famiglie delle vittime.

Al processo, che si svolge tra il 1997 e il 1998, Unabomber evita la condana a morte riconoscendosi colpevole di tutti i reati addebitati. Si prende così l’ergastolo.

Ted Kaczynski viene rinchiuso nel penitenziario di Florence, in Colorado. Scrive molto e alcuni giornali, di tanto in tanto, pubblicano i suoi articoli.
La sua capanna è stata portata via dal Montana e rimontata in un museo di Washington, mentre lo scritto originale del suo Manifesto è stato messo all’asta per dare il ricavato alle vittime.

Le sue idee filosofiche sono ormai studiate anche a livello accademico, ma nessuno arriva a perdonarlo per il dolore che ha provocato a tanti innocenti.

Muore in un carcere federale del North Carolina nel 2023.

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Di Sauro Pennacchioli

Contatto E-mail: info@giornale.pop

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