In questi tempi di omologazione, di livellamento dell’apparire, di uniformità dell’essere, in cui tutti rassomigliano a tutti e spariscono i segni distintivi delle età e delle professioni, è ancora possibile trovare una categoria che riesca a resistere all’erosione generale? Probabilmente quella degli insegnanti.

Fuori dal loro elemento naturale (la scuola) non è facile distinguerli perché pure loro partecipano all’omogeneizzazione, ma lo fanno con calma, conservando, anche se sempre più diluite, le caratteristiche della loro professione.
Come smascherarli, dunque?

Certo, a scuola è ancora facile. L’insegnante è quello col libro, il registro e la borsa. Coerente con i suoi principi salutistici, viene a piedi o in bicicletta, mentre i bidelli, il personale amministrativo e il dirigente scolastico prediligono l’auto.

Nei supermercati distinguerli è più arduo. Solo un occhio esperto può scorgere l’insegnante dietro la sua andatura compassata e lo sguardo che si posa sugli articoli esposti come se sorvegliasse un compito in classe. Quando, invece, entra in un negozio d’informatica, diventa facilmente individuabile perché è l’unico che sembra fuori luogo. Il mondo dei Pc e degli smartphone non è il suo. Si trova più a suo agio con una penna che con una tastiera, non è entrato in quel negozio perché è interessato all’ultimo modello del Mac Air Pro o del Samsung Galaxy. Non compra per se stesso ma per i figli, se ne ha.

L’insegnante ha un senso dell’umorismo particolare: ride solo quando gli raccontano delle barzellette da insegnanti. Queste circolano in ambienti ristretti della scuola: in sala professori, nei corridoi e, qualche volta, in presidenza.

L’insegnante sorveglia sempre il suo linguaggio. Non dice mai parolacce, neanche davanti all’alunno più indisciplinato. Tutt’al più fa una citazione in latino, perché è prima di tutto un educatore.

Esiste un test infallibile, a uso delle sole donne, per sapere se la persona a cui vi state presentando è un insegnante. Quando vi chiederà il nome rispondete “Silvia” e osservatelo. Sorriderà, chiuderà gli occhi dandovi l’impressione di cercare nei suoi ricordi, e scatteranno, irrefrenabili, i versi:

“Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?”

A Silvia, il manoscritto di Giacomo Leopardi

 

Il regista Marcel Pagnol, figlio di insegnante, diceva che è una professione che si “attacca alla pelle”. Si è insegnante a vita, così come si è prete per sempre. Il padre spiegava le cose ovunque. Che si trovasse in famiglia, per strada o al mercato, impartiva delle lezioni (Ricordi d’infanzia: la gloria di mio padre) come se fosse a scuola. Le persone che incontrava erano per lui degli alunni, il mondo la sua classe.
Sì, direte, un tempo gli insegnanti erano così, ma ai nostri giorni? Oggi come ieri, quando un insegnante percorre in compagnia qualche strada di campagna, partono i rosari dei nomi delle piante e degli insetti. Quando, di notte, il cielo stellato invita a un religioso silenzio, scattano i nomi dei pianeti e delle costellazioni.

La famiglia Pagnol

 

L’insegnante ha sempre compiti da correggere. Che egli sia ancora in servizio o ormai in pensione, corregge tutto, dalle pubblicità sui muri ai graffiti più insolenti. Dategli un volantino, un dépliant, un giornale, un qualunque documento scritto, egli tirerà fuori dalla tasca o dal borsello la sua immancabile penna rossa e, aggrottando la fronte, ne sottolineerà gli errori. Rimarrà poi un attimo pensoso e, tra mille sofferenze, assegnerà un voto al compito.

Con pochi tratti di penna avrà reso il mondo migliore.

 

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