THE CURE LIVE, NON CHIAMATELI (SOLO) DARK

Quanti di voi sono passati attraverso un periodo-Cure nella propria vita? Tanti, a giudicare dal gran parlare che si fa sui social network a proposito del nuovo tour di Robert Smith e soci. Questa eccitazione generale dimostra che il quintetto inglese ha rappresentato e rappresenta ancora qualcosa di importante nella vita e nella cultura di tanti di noi. Ma credo che questo clamore sia anche dettato e amplificato dai tempi: circondati come siamo da musica contemporanea spesso piatta e senza ispirazione, ci accorgiamo sempre più del valore di progetti musicali come quello dei Cure.

Un valore dato anche dal fatto che i loro brani sono così ricchi di sfumature da poter parlare a tante sensibilità diverse. Troppo spesso sento schematicamente relegare la musica dei Cure alla nicchia del dark. Ho sempre trovato questa attribuzione una semplificazione eccessiva perché, se è vero che il nero è il colore dominante della loro tavolozza, è altrettanto innegabile che nelle composizioni presenti nei loro album si trovano molte altre sfumature differenti. La loro musica passa da momenti di lenta pensosità a violente esplosioni di rabbia, profonde immersioni in paludi di malinconia si succedono a irrefrenabili danze di gioia isterica, inseguendo il lunatico saliscendi emozionale di Robert Smith, tormentato cuore pulsante della band.

Il concerto del primo novembre a cui ho assistito ha mostrato una band sicura delle proprie capacità e forte di un repertorio così vasto da permettere loro di cambiare scaletta ogni serata, rimanendo sul palco per due ore e quaranta minuti. La nuova formazione è in grado di rendere giustizia a tutti i  brani, provenienti da periodi creativi e line up differenti. Sorprendentemente la sezione ritmica è stata quella che ha dato maggiore spettacolo. Simon Gallup, il bassista carismatico per eccellenza, ha corso per il palco per tutto il tempo, scolpendo col suo plettro le monumentali frasi di basso che costituiscono ossatura e fondamenta dei brani della band. Il tanto discusso (anche dal sottoscritto) batterista Jason Cooper ha dimostrato di aver finalmente trovato il suono ed il drumming definitivo per il progetto, ritagliandosi momenti di notevole valore nell’intro di Burn (dalla soundtrack de Il Corvo) e nella chiusura di Close to me, dove ha trascinato il Palasport in un’ovazione semplicemente aprendo il charleston. Reeves Gabriels (già chitarrista di David Bowie) si è dimostrato funzionale agli arrangiamenti dei pezzi, dosando con gusto i suoi interventi: discreto nei momenti opportuni, ha liberato il suo acido sound anni ’70 nel solo di A night like this e in From the edge of the deep green sea. Stesso discorso per il tastierista Roger O’Donnel: tecnicamente molto preparato, ha lavorato di fino con i giusti e misurati contributi richiesti dagli arrangiamenti, per poi emergere in un inatteso e struggente assolo di pianoforte in Trust. Robert Smith ha suonato le chitarre con la solita, personalissima perizia e precisione, risparmiando invece qualche cartuccia con la voce. Gli anni passano per tutti e le due date consecutive (sommate alle oltre 70 del tour mondiale) richiedono qualche cautela. Dove, però, non ha risparmiato è stato nella espressività poetica delle sue interpretazioni, nel timbro inconfondibile e nell’indubbio carisma.

La scaletta della serata ha regalato diverse gioie al sottoscritto, presentando molti brani estratti da Wish (uno dei miei album preferiti) compresa la bellissima b-side This twilight garden, uno degli episodi più lirici e suggestivi della parte del loro repertorio meno conosciuta. Grandi classici come A forest e Pictures of you sono stati eseguiti con un ritmo più sostenuto, così come le già vivaci Just like heaven e In between days (che ha trascinato il pubblico in un coro che seguiva il tema delle tastiere). In generale l’approccio ai brani è stato molto potente, rock e vivace, conferendo maggiore agilità a pezzi cupi e cadenzati come End e Open. Le suggestive luci e i filmati proiettati sui cinque schermi alle spalle dei musicisti hanno fornito un notevole supporto emozionale alle potenti atmosfere evocate dai brani. I tre bis che hanno seguito il set principale sembrano essere stati pensati per generi: ai toni dark del primo (con le già citate Burn e A forest) hanno fatto seguito gli episodi rock del secondo (con la hendrixiana Never Enough e la trascinante Fascination street), chiudendo lo show con un terzo set dedicato all’anima più pop, bizzarra e folle della band. Il funky sbilenco di Hot, hot, hot!!!, il pop-punk di Boys don’t cry, i colorati fiati di Why can’t i be you? mostrano quelle molteplici anime dei Cure di cui parlavo all’inizio.

La sensazione che questo concerto lascia è quella di una band che dal vivo ha decisamente ritrovato la vena di un tempo. Se questa vena verrà sfruttata a dovere anche per un nuovo lavoro in studio, certamente uscirà un disco ricco e interessante. It Can Never Be the Same, l’inedito eseguito nella serata dell’1 novembre, è un incoraggiante indizio.

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