29 luglio 2020. Con i test di ammissione alla Cattolica di Roma è iniziata la stagione delle selezioni alle facoltà a numero chiuso. Visi mascherati, distanziamento sociale, lunghe file all’ingresso nord della Fiera di Roma, 40 gradi all’ombra, tensione. Anche tra i genitori e gli accompagnatori vari non ammessi ai locali della Fiera.
L’unica possibilità per ripararsi dagli ardori del sole è, oltre al cappellino, l’ombra proiettata dal lungo tunnel di accesso sopraelevato su un suolo invaso dalle formiche. Ci si siede comunque e si comincia a parlare.

“Lei da dove viene?”.

“Io dalla Sicilia”.

“Bella la Sicilia…”.

Il ghiaccio è rotto. Si parla dell’accoglienza dei siciliani, della bellezza di Palermo, di Catania e, inevitabilmente, dei figli.

“Speriamo che ci sia l’aria condizionata”, dice una mamma. “Mio figlio”, le fa eco un papà, “non riesce a respirare con la mascherina”.

“Il mio”, dice un’altra mamma, “quando respira gli viene il vapore sugli occhiali e non vede più niente”.

Mesi e mesi di studio, di sogni, in alcuni casi anni, che rischiano di essere buttati via dal caldo, da problemi di respirazione, da un po’ di vapore negli occhiali…
Solo 300 candidati coroneranno i loro sogni, gli altri 8000 e passa dovranno provare con il test delle altre università.
300 su 8000: poco più del 3%.

C’è una una serie Netflix che si chiama proprio così, 3%. Nella serie siamo in un lontano futuro distopico dove la gente vive nell’estrema povertà. I ventenni sono chiamati ogni anno a sottoporsi al “processo” e cioè a un certo numero di test per poter essere ammessi in una comunità di privilegiati, ma solo il 3% di loro ce la farà.
“In un orribile futuro prossimo, i ventenni accorrono in massa per contendersi un posto in una terra idilliaca nota come Offshore”, recita la presentazione della serie brasiliana. Per chi non l’avesse vista diciamo che i test sono di quelli che fanno selezione, anche fisica.

Torniamo ai nostri accompagnatori. La preoccupazione è nell’aria. Chissà come saranno le domande… Intanto il tempo passa e, circa due ore dopo aver dato l’ultimo consiglio, l’ultimo augurio al figlio, al fratello o all’amico, si sentono i primi passi nel tunnel. Sono passi di poche persone. Forse due. Non ci fosse il Covid avremmo sicuramente la mandria.
Ci si precipita all’ingresso. Ecco il primo. Lo sguardo non dice niente di buono. Fila dritto. Nessuno l’aspetta e nessuno ha il coraggio di fargli delle domande. Ecco ora una ragazza. Va incontro a quella che sembra essere la madre.

“Beh, com’è andata?”. Alla domanda risponde un pianto irrefrenabile e ininterrotto. Arrivano altri candidati. Non sembrano molto soddisfatti. “Anche quest’anno”, dice uno, “è stato un disastro…”  Da come parla sembrerebbe che abbia tentato il test almeno un’altra volta e che probabilmente ce ne sarà un’altra.

“C’era l’aria condizionata?”, chiede uno.

“No! Abbiamo anche camminato un bel po’ prima di raggiungere il nostro padiglione…”.

“Coraggio”, dice un accompagnatore non si sa bene a chi. “Ho sentito di uno che l’ha tentato per dodici anni consecutivi ma alla fine ce l’ha fatta. Oggi lavora ed è un buon medico. Si tratta solo di crederci”.

Crederci. Questo avevano detto ai ragazzi del Três por cento. Il 3% ce l’aveva fatta ma per la maggior parte i ragazzi, colmi di speranza, di fiducia in se stessi, erano ritornati nel loro mondo senza un futuro, un sogno, una illusione; colmi di rabbia e di frustrazione.
Con quelle ferite che non si vedono, ma che fanno male come una coltellata.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *