Per cinquant’anni, dal 1895 al 1945, Taiwan aveva prosperato economicamente sotto la rapace, ma efficiente, amministrazione giapponese. Mentre la popolazione di origine aborigena si era mostrata in generale restia ad accettare i nuovi dominatori (subendone le conseguenze), la maggior parte dei taiwanesi di nazionalità han, dopo le iniziali resistenze, si era adattata alla situazione e aveva tratto beneficio dalla crescita economica, non solo nel tradizionale settore agricolo ma anche in quello industriale.

L’isola era stata dotata di importanti infrastrutture come ferrovie, porti e strade moderne, che i governatori nipponici avevano pianificato e realizzato. Sfruttando un allentamento delle rigide misure imposte dagli occupanti, negli anni Venti e Trenta in alcuni circoli si era fatta avanti l’idea secondo cui Taiwan dovesse sviluppare una propria identità nazionale, distinta da quella giapponese e da quella cinese del continente. Tale coscienza emerse per la prima volta anche nella produzione letteraria dell’epoca.

TAIWAN E IL RICHIAMO DELLA GRANDE CINA
Il rappresentante del Guomindang Chen Yi (a destra) mentre accetta la resa da parte dell’ultimo governatore giapponese Ando Rikichi (a sinistra), il 25 ottobre 1945 (il cosiddetto Giorno del Ritorno)

 

Con la sconfitta del Giappone, il governo nazionalista guidato da Chiang Kai-shek (Jiang Jieshi, 1887-1975) sconfessò il vecchio trattato di Shimonoseki del 1895 e rivendicò l’isola, incluso il vicino arcipelago delle Penghu (o Pescadores). Le pretese cinesi, che oltre a Taiwan includevano anche la Manciuria, erano state riconosciute dagli Stati Uniti e dal Regno Unito durante la Conferenza del Cairo tenutasi nel novembre 1943.

Dopo il trasferimento ufficiale dei poteri, il 25 ottobre 1945, Chen Yi (1883-1950), già governatore del Fujian, fu messo a capo dell’amministrazione della provincia taiwanese, ma si trovò ben presto a fronteggiare una forte opposizione causata dal pessimo comportamento dei propri subalterni.
Infatti i funzionari del Partito Nazionalista (Guomindang), in gran parte corrotti e inefficienti, si inimicarono l’opinione pubblica locale con il loro malgoverno e i pregiudizi nei confronti degli isolani, facendo rimpiangere la precedente amministrazione giapponese.

Quando la rabbia dei taiwanesi esplose in una serie di manifestazioni il 28 febbraio 1947, l’esercito nazionalista (composto da soldati del Fujian, leali al nuovo governatore) aprì il fuoco sulla folla uccidendo numerosi dimostranti. Nelle settimane che seguirono Chen Yi cercò di spezzare la resistenza locale ordinando l’arresto e l’esecuzione di migliaia di intellettuali, studenti e personalità dell’isola.

Insoddisfatto degli eventi, Chiang Kai-shek nell’aprile 1948 sostituì Chen Yi con un amministratore più moderato e, consapevole che la guerra civile contro i comunisti cominciava a prendere una piega negativa, iniziò a organizzare l’isola come un eventuale ultimo rifugio, ove trincerarsi e resistere alla marea rossa.
Nei mesi che precedettero la presa di Pechino (conquistata senza combattimenti il 31 gennaio 1949), migliaia di casse contenenti gli archivi della dinastia Qing (1644-1911) furono spedite a Taiwan, assieme ai pezzi più preziosi delle collezioni imperiali: oculata mossa propagandistica che mirava a mostrare il Guomindang come l’unico, vero difensore dell’eredità nazionale cinese.
Contemporaneamente un esercito di 300.000 soldati fedeli al Partito Nazionalista fu stanziato sull’isola, sostenuto dalla quasi totalità della flotta e da una cospicua forza aerea. A metà del 1949 tutto era pronto per un’eventuale ritirata di Chiang Kai-shek a Taiwan.

Con una velocità sorprendente, paragonabile solo a quella dell’avanzata delle armate mancesi nel XVII secolo, le forze comuniste (organizzate nell’Esercito popolare di liberazione o Epl) dilagarono nelle regioni a sud dello Yangzi. Superata la forte resistenza nel Sudest, le truppe del generale Lin Biao (1907-1971) presero Guangzhou (Canton) a metà ottobre, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese.
Ai primi di novembre a cadere fu la volta di Xiamen (Amoy), dove l’opposizione nazionalista fu particolarmente accanita. Il 7 dicembre Chiang Kai-shek, che si era precipitosamente rifugiato da Chongqing a Taiwan, proclamò Taipei capitale provvisoria della Repubblica di Cina. Oltre a quello che rimaneva dell’esercito nazionalista, circa due milioni di civili si trasferirono sull’isola nel periodo confuso e drammatico che va dal 1946 fino al 1952.

Se la lunga guerra contro il Giappone aveva portato all’unificazione della Cina, la successiva guerra di Corea (1950-1953) fu decisiva nel far rimanere Taiwan divisa dal resto nella nazione. Gli Stati Uniti non solo intervennero nella penisola coreana per fermare l’avanzata nordcoreana ma, nell’ambito della strategia di contenimento del blocco comunista, schierarono la VII flotta del Pacifico nello stretto di Taiwan, impedendo all’Epl l’assalto finale a quello che l’Occidente democratico considerava l’ultimo baluardo della “Cina libera”.
Grazie al sostegno statunitense fu anche possibile per la Repubblica di Cina conservare il seggio nel consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a scapito della Repubblica Popolare.

TAIWAN E IL RICHIAMO DELLA GRANDE CINA
Il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower al fianco del “Generalissimo” Chiang Kai-shek durante la visita a Taipei nel giugno 1960

 

Le due decadi successive furono uno dei momenti più difficili e contraddittori dell’intera storia di Taiwan: durante questo periodo il governo nazionalista tentò di ricostruire la propria forza e soprattutto la propria credibilità, gettando le basi di quello che sarebbe stato il miracolo economico taiwanese.
Imponendo la legge marziale (che ufficialmente sarebbe stata abolita solo nel 1987), Chiang Kai-shek eliminò dall’isola ogni traccia di dissenso e congelò il parlamento, i cui seggi furono occupati sino al 1991 dagli stessi deputati che erano stati scelti nel 1947 durante le ultime elezioni sul continente. Solo nel caso di decesso di un rappresentante erano tenute elezioni straordinarie suppletive.
Agli studenti fu imposto l’insegnamento della storia e della letteratura cinesi, mentre quelle dell’isola furono ignorate. Il dialetto locale e di altri gruppi cinesi, come gli hakka, furono proibiti a favore del mandarino mentre le nazioni aborigene vennero sottoposte a un programma di assimilazione forzata, costringendole ad adottare lingua e usanze han. Inoltre fu incentivata la pratica (vecchia di secoli) di far sposare ai soldati donne indigene, strappandole dal proprio contesto culturale.

Le riforme imposte da Chiang interessarono anche l’esercito e l’apparato di sicurezza: al fine di epurare gli incompetenti che erano stati responsabili della sconfitta contro i comunisti, centinaia di alti ufficiali furono costretti a rassegnare le dimissioni e si decise di adottare un sistema di selezione e addestramento modellato su quello statunitense.
Al fine di migliorare la qualità della burocrazia, nel 1952 fu fondata un’accademia preposta alla formazione dei funzionari. Inoltre un’attenzione particolare fu prestata all’educazione giovanile, in chiave anticomunista e patriottica, con la creazione di organizzazioni al cui interno le nuove generazioni (specie quella maschile) erano addestrate alle armi e indottrinate al pensiero dell’ideologo e fondatore repubblicano Sun Yat-sen (Sun Yixian, 1866-1925). Sempre e ovunque lo slogan era “Riconquisteremo il continente!”.

Un ruolo cruciale nel garantire stabilità sociale lo ebbe il supporto statunitense che, sancito nel 1954 da un trattato di mutua difesa, permise al governo nazionalista di usufruire di ingenti aiuti finanziari e militari, soprattutto di concentrarsi sui problemi interni, essendo tutelato dalla minaccia comunista.
Un pericolo sempre presente come dimostrato dalle periodiche “crisi dello Stretto di Formosa”. Particolarmente acuta quella dell’agosto-settembre 1958, che vide un pesante bombardamento da parte comunista dell’isola di Quemoy (Kinmen). La quale, nonostante la vicinanza alla costa del Fujian, era rimasta in mano nazionalista.

In questo contesto non mancò una rinascita degli studi sulla cultura classica, esemplificata dallo splendido National Palace Museum di Taipei, ma fu soprattutto la riforma agraria, varata agli inizi degli anni Cinquanta, che introdusse un reale cambiamento nella società taiwanese, favorendo la piccola e media proprietà.
Le esportazioni di prodotti agricoli (dal tè alle banane, dagli asparagi ai fiori) spronarono altri settori, in primis quello industriale, e permisero all’economia dell’isola di crescere a tassi elevati sino a tutti gli anni settanta.
L’affermarsi del ceto medio ebbe come conseguenza la richiesta di maggiori libertà politiche: con la scomparsa del “Generalissimo” e della vecchia guardia nazionalista questa spinta si fece più decisa. Anche gli eventi internazionali contribuirono all’evoluzione della realtà taiwanese.

Il disgelo nei rapporti tra Repubblica Popolare e Stati Uniti portò alla rinuncia da parte di Washington a porre il veto all’ingresso di Pechino nelle Nazioni Unite, in qualità di membro permanente al posto di Taipei. Con questo passaggio, che avvenne ufficialmente il 25 ottobre 1971, e soprattutto con l’allacciarsi di relazioni diplomatiche ufficiali tra Stati Uniti e Repubblica Popolare nel 1978, i paesi occidentali e neutrali che avevano ancora ambasciate sull’isola, tranne poche eccezioni, le chiusero e ne aprirono di nuove a Pechino.
Gli Stati Uniti, al fine di spingere la Cina comunista su posizioni sempre più anti-sovietiche, già nel 1972 con il comunicato di Shanghai avevano riconosciuto l’esistenza di una sola Cina, auspicando una soluzione pacifica del contenzioso.
Il parziale e momentaneo disimpegno statunitense ebbe un peso rilevante nel far maturare nell’opinione pubblica taiwanese l’idea di un futuro diverso da quello auspicato dal Guomindang per decenni. Allo stesso tempo Chiang Ching-guo (Jiang Jingguo, 1910-1988), che aveva assunto l’eredità del padre Chiang Kai-shek già alcuni anni prima della sua scomparsa nel 1975, cominciò ad attenuare le misure più repressive del governo nazionalista, preparando così la strada per le successive riforme democratiche.

Negli anni Ottanta l’economia taiwanese affrontò il minore sostegno finanziario statunitense e la crescita globale del costo del lavoro puntando sull’innovazione tecnologica nel campo dell’elettronica e della chimica, trascurando settori tradizionali come quello tessile o degli articoli in legno e carta.

L’isola di Taiwan

 

Nel gennaio 1988 per la prima volta fu scelto un presidente nato sull’isola, Lee Teng-hui (Li Denghui, 1923-2020), e finalmente nel dicembre 1991, dopo che a maggio le ultime restrizioni alle libertà democratiche erano state abolite, si tennero elezioni legislative.
Da allora la classe politica locale è diventata sempre più taiwanese, sia per origine sia per interessi, e per l’isola si è aperta l’era dell’alternanza di governo, agevolata dalla riforma costituzionale del 1994. Nel marzo 2000 il Partito Nazionalista ha perso le elezioni a favore del Partito Progressista Democratico (fondato nel 1986), all’interno del quale le istanze indipendentiste si sono fatte progressivamente più forti.
Come risposta a questa tendenza della società civile di Taiwan verso un’identità separata da quella della Cina continentale, la Repubblica Popolare ha varato nel marzo 2005 una legge antisecessione che prevede l’uso della forza per preservare l’unità della nazione.
Che la stessa popolazione taiwanese sia divisa su questo delicato argomento è confermato dal fatto che nel 2008 il Partito Nazionalista ha riconquistato la maggioranza in Parlamento. Il suo leader Ma Ying-jeou (Ma Yingjiu), personalità che rifiuta l’indipendenza, è stato il primo presidente di Taiwan a incontrare, il 7 novembre 2015 a Singapore, il presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping, con un gesto di distensione senza precedenti tra i due storici partiti cinesi.

Ma il pendolo politico ha oscillato ancora nel gennaio 2016, con una nuova vittoria del Partito Progressista Democratico e l’elezione di Tsai Ing-wen (Cai Yingwen) alla massima carica taiwanese, prima donna nel mondo cinese ad affermarsi in libere elezioni.
Nel gennaio 2020 la Tsai si è confermata con l’elezione a un secondo mandato, con oltre otto milioni di preferenze (prima volta che un candidato raggiunge un simile risultato). Queste vittorie di una forza che, contrariamente al Guomindang, mira apertamente all’autonomia da Pechino ha riacceso tensioni mai sopite, alimentate anche dalle prese di posizione delle ultime amministrazioni statunitensi.
Il resto è attualità di questi giorni.

Da segnalare che anche i popoli aborigeni hanno usufruito, specie con il nuovo millennio, di una serie di libertà e di riconoscimenti prima negati e, pur rappresentando solo il 4% dei circa 25 milioni di abitanti dell’isola, sono impegnati nel far sopravvivere le proprie tradizioni e le proprie lingue (a oggi ne sono state censite sedici).

Paradossalmente, mentre i rapporti politici tra i due lati dello Stretto continuano a rimanere tesi, i legami economici e culturali diventano sempre più stretti: non solo l’interscambio commerciale è in costante aumento, ma il dialogo, a livello di istituzioni e associazioni di varia natura, laiche e religiose, prosegue senza interruzioni.

 

(Qui la prima parte: https://www.giornalepop.com/taiwan-dagli-insediamenti-cinesi-allinvasione-giapponese/)

 

Nota bibliografica. Purtroppo i principali testi sulla storia di Taiwan prima del XX secolo non sono in italiano: fra questi si distingue per accuratezza il corposo “Taiwan. A New History”, a cura di Murray A. Rubistein (M. E. Sharpe, 1999). Per chi fosse interessato ad approfondire la vita e le imprese del pirata Coxinga è disponibile l’ottimo “Zheng Chenggong”, di Patrizia Carioti (Istituto Universitario Orientale, 1995).
Per il periodo che va dal 1949 in poi il materiale in italiano, cartaceo o digitale, è abbondante: articoli, saggi, monografie; praticamente in ogni manuale di storia cinese è presente almeno un capitolo dedicato all’isola “ribelle”; particolarmente accurato quello in “La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi”, di Guido Samarani (Einaudi, 2004).

 

 

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