Prima del Seicento l’isola di Taiwan, pur distando dalle sponde cinesi del Fujian meno di 160 km nel punto più vicino, era ancora in gran parte sconosciuta agli stranieri: forti correnti, tifoni e banchi di sabbia ne proteggevano le coste mentre le pianure infestate dalla malaria nella parte occidentale e le catene montuose in quella orientale (con picchi che sfiorano i 4000 metri) ne garantivano l’isolamento.
Per giunta la popolazione aborigena, appartenente al gruppo linguistico austronesiano e da migliaia di anni sull’isola, non era amichevole, scoraggiando ulteriormente l’esplorazione e l’insediamento da parte dei forestieri.

TAIWAN DAGLI INSEDIAMENTI CINESI ALL'INVASIONE GIAPPONESE
Fort Zeelandia, avamposto olandese sull’isola di Taiwan (Formosa) nel Seicento

 

A parte alcuni cenni a Taiwan nelle cronache dinastiche a partire dal periodo dei Tre Regni (220-280 dopo Cristo), la più antica fonte cinese in nostro possesso che accenni a un passaggio in vista dell’isola è il Daoyi zhilüe (“Breve resoconto delle isole dei barbari”) scritto nel 1339 da Wang Dayuan (1311-1350), un viaggiatore originario di Nanchang (Jiangxi).
Nei suoi viaggi che lo portarono nel Sudest asiatico e nell’Oceano Indiano, anticipando le imprese dell’ammiraglio Zheng He, Wang visitò le isole Penghu (o Pescadores, a pochi km dalla costa occidentale di Taiwan), dove prosperava sin dal IX o X secolo un insediamento di pescatori e commercianti cinesi. Mentre questo piccolo arcipelago già dal 1170 circa era stato inquadrato nell’amministrazione regolare e ospitava funzionari imperiali, nessuna menzione viene fatta da Wang di una presenza cinese a Taiwan.
L’abitato delle Penghu fu poi abbandonato dopo il 1433, in seguito alla chiusura delle frontiere da parte della dinastia Ming (1368-1644).

Con l’allentarsi delle restrizioni al commercio marittimo nella seconda metà del Cinquecento, mercanti provenienti dal Fujian e dal Guangdong si avventurarono sulle coste di Taiwan per commerciare con gli aborigeni, attratti soprattutto dalle corna di cervo che, una volta macinate, erano il principale elemento di un potente afrodisiaco della medicina tradizionale. Alcuni piccoli empori furono così fondati nella parte sudoccidentale. L’isola, inoltre, forniva riparo ai numerosi vascelli pirati, giapponesi e cinesi, che infestarono i mari orientali per tutta la dinastia Ming.

TAIWAN DAGLI INSEDIAMENTI CINESI ALL'INVASIONE GIAPPONESE
Mappa inglese di Taiwan (Formosa) del 1896; l’isola si sviluppa da nord a sud per circa 300 km, con una superficie di 36193 kmq (pari a quella di Sicilia e Cipro messe assieme)

 

Questa condizione di parziale isolamento cambiò drasticamente negli anni Venti del Seicento. I portoghesi, in rotta verso il Giappone, ne avevano esplorato le coste nel 1542, dando all’isola il nome di Formosa (“Bella”), ma favorirono Macao, loro colonia dal 1552, come principale base operativa in Estremo Oriente.
Atteggiamento diverso fu assunto dagli spagnoli i quali, giungendo dalle Filippine, stabilirono nel 1624 un avamposto a Keelung (Jilong), “San Salvador de Quelung”, strappando alla tribù dei ketagalen una piccola striscia di terra. Nello stesso periodo anche gli olandesi fondarono un forte, dal nome Zelandia, nei pressi dell’attuale Tainan, sulla costa sudoccidentale; pure in questa zona gli scontri con le popolazioni indigene, i siraya, non tardarono a verificarsi.
Nel 1642 gli olandesi, che nel frattempo si erano inseriti nel lucroso commercio delle corna di cervo e avevano stretto alleanza con alcuni capi locali, scacciarono gli spagnoli e negli anni successivi resero sicure le acque limitrofe, eliminando la presenza dei pirati sino-giapponesi.
Attirati dalla disponibilità di terre, in questi anni iniziò l’insediamento dei primi agricoltori cinesi nei pressi delle enclavi olandesi, che fornivano protezione contro l’aggressività degli aborigeni.

Negli anni turbolenti che videro il collasso del governo Ming e l’ascesa della dinastia Qing (1644-1911) gli olandesi preferirono tenersi in disparte, ma, con l’estendersi del conflitto alle coste della Cina meridionale, non gli fu possibile rimanere neutrali.

Nel 1646 il capo pirata Zheng Chenggong, più noto con il nome occidentalizzato di Coxinga, rifiutò di sottomettersi alla dinastia mancese e mise al servizio degli ultimi lealisti Ming la sua potente flotta che controllava le acque tra Fujian, Taiwan e le isole Liuqiu (Ryukyu).

Nato nel 1624 da un avventuriero cinese e una donna giapponese, Coxinga è ancora oggi uno dei pirati più famosi dei mari orientali: attratto spiritualmente sia dal Buddismo sia dal Cristianesimo, aveva ereditato dal padre il porto fortificato di Amoy (Xiamen) e si era circondato di una fedelissima guardia personale, composta in prevalenza da schiavi africani fuggiti dalla Macao portoghese.
La flotta di Coxinga combatté la dinastia Qing per tutti gli anni Cinquanta del Seicento mentre Amoy diventava un fiorente centro commerciale, attirando mercanti europei e del Sudest asiatico; i proventi servirono a foraggiare la guerra contro gli invasori mancesi.

Fu solo nel 1659 che Coxinga, durante un audace tentativo di conquistare Nanchino, fu duramente sconfitto. Incapace di difendere Amoy, il capo pirata prese la decisione di attaccare la fortezza olandese di Zelandia. Nel febbraio 1662, dopo un assedio lungo nove mesi, il porto cadde nelle mani di Coxinga, che comunque permise agli europei superstiti di salpare per Batavia (oggi Giacarta), capitale delle Indie Orientali olandesi.
Il successo fu però di breve durata per Coxinga, che morì alla fine dello stesso anno, sconvolto e demoralizzato non solo per gli insuccessi patiti sul continente ma anche per la notizia che le autorità Qing avevano ordinato l’esecuzione dei membri della sua famiglia (padre compreso) caduti in mano mancese.

Negli anni successivi, l’inesperienza della nuova dinastia nelle questioni navali permise agli eredi di Coxinga (prima un figlio e poi un nipote) di mantenere i propri baluardi a Taiwan, passati alla storia come regno di Yanping (primo Stato han a Taiwan).
A lavorare a favore della famiglia Zheng, irriducibile sostenitrice della decaduta dinastia Ming, ci fu anche la grande rivolta dei Tre Feudatari che monopolizzò l’attenzione Qing dal 1673 al 1681. In questo periodo burrascoso migliaia di profughi lasciarono il Fujian, uno dei principali scenari della guerra civile, alla volta di Taiwan.
Il regime Zheng si trovò a disposizione più di centomila persone le quali, impegnate soprattutto nella coltivazione di riso e canna da zucchero, consentirono un considerevole commercio tra l’isola e la Cina continentale, affamata dalla rivolta. Sempre più terre furono disboscate e messe a coltura mentre per gli aborigeni iniziò la lenta ma inesorabile ritirata verso le montagne.

Dopo la fine della rivolta dei Tre Feudatari, l’imperatore Kangxi (anni di regno 1661-1722) decise di risolvere la questione taiwanese nominando Shi Lang comandante in capo di un corpo di spedizione destinato alla sottomissione del regno di Yanping.
La scelta fu oculata non solo perché Shi Lang era stato uno dei capitani al servizio del padre di Coxinga, ma anche perché la sua intera famiglia era stata massacrata dal capo pirata quando si era arreso ai Qing negli anni Cinquanta.
Shi Lang pianificò minuziosamente la spedizione sostenuto dal governo Qing, le cui risorse permisero l’allestimento di una forza di oltre trecento giunche da guerra. Guidando personalmente la flotta, salpata dai porti del Fujian nel luglio 1683, Shi Lang sconfisse le navi nemiche al largo delle isole Penghu.
Nel giro di tre mesi tutte le piazzeforti in mano alla famiglia Zheng si erano arrese. Kangxi mostrò clemenza verso i membri della famiglia Zheng, conferendo loro titoli nobiliari e trasferendoli a Pechino, mentre la maggior parte delle truppe che erano state al loro servizio fu distaccata a nord, nelle guarnigioni sul confine con la Russia.

Aborigeni taiwanesi a caccia di cervi (dipinto cinese, metà del Settecento)

 

Resistendo a coloro che consigliavano di abbandonare l’isola, Kangxi decise di incorporare Taiwan nell’impero, anche per evitare un ritorno degli olandesi o una intromissione degli inglesi che con la famiglia Zheng avevano stabilito una lucrosa relazione commerciale.
Taiwan divenne così una prefettura della provincia del Fujian, con capoluogo Tainan, e fu divisa in tre distretti retti ciascuno da un magistrato. Una guarnigione di 8000 soldati fu stanziata sull’isola ma, al contempo, fu ordinato che i territori tribali degli aborigeni fossero rispettati.
Per salvaguardare l’ordine appena costituito fu posto un freno all’immigrazione dal continente, consentendola solo ai lavoratori stagionali maschi e proibendo alle famiglie di seguirli. Ciononostante gli arrivi clandestini dalle province costiere continuarono, così come gli espropri illegali di terre a danno degli aborigeni, specie nella parte occidentale dell’isola. Continuò, inoltre, per molti immigrati la pratica di trovarsi una sposa indigena, fenomeno che, iniziato già ai tempi del dominio olandese, agevolò la nascita di una identità specificatamente taiwanese.

Nel 1720 Zhu Yigui, un piccolo funzionario originario del Fujian, si mise a capo di una sollevazione di tutti gli insoddisfatti del governo mancese sull’isola. Approfittando anche del suo cognome (Zhu, come quello della precedente dinastia Ming), si proclamò re di Taiwan.
Il suo regno durò solo pochi mesi e la rivolta fu soffocata da uno dei figli dello stesso ammiraglio Shi Lang che aveva assicurato Taiwan al controllo Qing, quasi quaranta anni prima.

Dopo questa ribellione, il nuovo imperatore Yongzheng (r. 1723-1735) decise di rafforzare il controllo sull’isola istituendo un maggior numero di distretti, permettendo finalmente ai cinesi del continente di trasferirsi sull’isola con famiglie al seguito e incentivando i notabili aborigeni ad affittare le proprie terre.
Questa situazione spinse un numero sempre maggiore di nativi a integrarsi nella società cinese, spronando il processo di sinizzazione. Il risultato principale di questi eventi fu la nascita di una classe taiwanese di proprietari terrieri che si radicò sull’isola con il passare delle generazioni.
Le turbolenze non furono però sedate e, tra il 1786 e il 1788, Taiwan fu sconvolta da una grossa ribellione scatenata dalla società segreta Tiandihui. Il conflitto vide scontri sanguinosi anche tra cinesi originari di Quanzhou (Fujian) legati alla setta, e cinesi di etnia hakka, provenienti dal Guandong e sostenitori della dinastia Qing.
Solo l’intervento di un nutrito contingente dell’esercito imperiale, sotto la guida del generale mancese Fuk’anggan (1753-1796), mise fine a questo ennesimo episodio di rivolta.

Nei decenni seguenti il flusso di immigrati non solo non si arrestò ma conobbe un aumento, specialmente durante la rivoluzione Taiping (1851-1864), che sconvolse gran parte della Cina provocando decine di milioni di vittime. Solo le zone più impervie delle montagne orientali rimasero al di fuori dell’amministrazione imperiale, di fatto sotto il controllo delle tribù indigene più gelose della propria autonomia.

Nella seconda metà dell’Ottocento la già fiorente economia dell’isola si staccò dalla dipendenza dalla madrepatria e s’integrò con quella internazionale: le esportazioni verso l’Occidente (specialmente di tè, canna da zucchero e canfora) conobbero un vertiginoso incremento, conseguenza diretta delle aperture dei mercati che inglesi e francesi avevano imposto al governo di Pechino, con i trattati seguiti alla conclusione della cosiddetta Seconda guerra dell’oppio (1856-1860).

Come reazione alla penetrazione occidentale e al progressivo disfacimento delle strutture amministrative e sociali a causa delle numerose rivolte interne, il governo Qing, con il sostegno di parte della burocrazia, intraprese una serie di riforme sia in campo politico sia in campo economico.
Questi sforzi, iniziati durante il regno del giovane imperatore Tongzhi (r. 1862-1874) proprio quando la situazione dell’impero Qing sembrava più disperata, miravano all’auto-rafforzamento della nazione, utilizzando “il sapere occidentale come mezzo e il sapere cinese come fondamento”.
Furono creati uffici di traduzione, arsenali moderni, cantieri navali e impianti industriali all’avanguardia. Nello stesso tempo letterati e funzionari, pur rispettando il confucianesimo come ideologia dello Stato, iniziarono a collaborare con i privati o a diventare imprenditori essi stessi.
Sebbene questo movimento di riforme, conosciuto come yangwu (“delle cose d’oltremare”), non sortisse gli effetti sperati quando l’impero dovette affrontare nuove minacce, innanzitutto quella giapponese, ebbe il merito di reinserire nell’economia agraria le enormi masse di sbandati che si erano formate dopo la fine della fallita rivoluzione Taiping. Anche Taiwan fu interessata dalle politiche riformiste.

Il governo Qing era consapevole della vulnerabilità di Taiwan, che divenne dal 1860 un punto centrale nella questione della sicurezza nazionale.
L’espansione economica legata al mercato globale, la rapida crescita demografica che portò l’isola ad avere due milioni e mezzo di abitanti di nazionalità han, lo sfruttamento sempre più intensivo delle zone montuose che esacerbò ulteriormente i rapporti tra cinesi e aborigeni, l’introduzione del cristianesimo da parte dei missionari europei e con esso della cultura e della medicina occidentale, furono tutti elementi che spinsero le autorità imperiali a varare una serie di riforme a tutto campo che sarebbero culminate nel 1885 con l’elevazione dello status di Taiwan da prefettura a provincia, con capoluogo Taipei.
Una serie di capaci amministratori furono, tra il 1874 e il 1894, i protagonisti del periodo più dinamico dell’intera storia taiwanese nel periodo Qing. Non solo fu varata una razionalizzazione fiscale, ma si cercò di dotare l’isola di moderne infrastrutture: una ferrovia, una linea di battelli a vapore e un servizio telegrafico che collegassero rapidamente con il continente, un servizio postale efficiente.
Purtroppo per i volenterosi governatori, il destino di Taiwan non era più esclusivamente in mano cinese.

Nel novembre 1871, quattro vascelli con a bordo 66 marinai provenienti dalle isole Liuqiu (Ryukyu), fecero naufragio sulla costa sudorientale di Taiwan a causa di un tifone. L’area era abitata dalla tribù dei paiwan, i quali trucidarono e decapitarono 54 naufraghi.
Questo tragico incidente ebbe conseguenze importanti sulle relazioni sino-giapponesi: di quale nazionalità dovevano essere considerate le vittime (entrambe la potenze rivendicavano infatti le isole Liuqiu)? I paiwan, responsabili del massacro, erano o meno sudditi Qing?

Liu Mingchu (1836-1896), primo governatore Qing della provincia di Taiwan e promotore della modernizzazione dell’isola

 

La disputa diplomatica nei tre anni successivi si fece sempre più accesa finché, nella primavera 1874, il governo giapponese lanciò una spedizione punitiva contro i paiwan. Tre navi e 3600 soldati, al comando del marchese Saigo Tsugumichi e con l’ausilio di alcuni consiglieri statunitensi, ebbero facilmente ragione della resistenza indigena.
Già a novembre il contingente giapponese, drasticamente ridotto a causa della malaria, si ritirò mentre le autorità Qing accettarono di pagare un’indennità e promisero di pacificare gli aborigeni più turbolenti.

L’isola fu poi interessata dalle operazioni militari conseguenti allo scoppio della guerra franco-cinese (1884-1885). Nonostante l’occupazione di Keelung e il blocco navale dell’isola, l’esercito francese ebbe difficoltà a piegare la resistenza delle forze cinesi, guidate dal governatore locale Liu Mingchu (1836-1896).
Dopo gli accordi di pace, umilianti per lo Stato Qing sebbene sul campo avesse fronteggiato con successo la potenza europea, Liu Mingchu e gli amministratori che lo seguirono si adoperarono per rafforzare le fortificazioni militari.

Tali sforzi difensivi si rivelarono però inutili e non poterono evitare l’occupazione dell’isola nelle fasi finali della guerra che vide coinvolti, tra l’agosto 1894 e l’aprile 1895, l’impero Qing e quello giapponese. Con il trattato di Shimonoseki, siglato il 17 aprile 1895, Taiwan e le isole Penghu furono cedute a titolo definitivo al Giappone.
La guerriglia da parte cinese proseguì sino al 1902, mentre le sollevazioni degli aborigeni, in particolare delle tribù degli atayal, continuarono addirittura oltre il 1930. In ogni caso il controllo giapponese sull’isola rimase saldo e si protrasse sino al 25 ottobre 1945, giorno del passaggio ufficiale di poteri dall’ultimo governatore nipponico, il generale Ando Rikichi, al delegato della Repubblica di Cina, Chen Yi.

 

(Qui la seconda parte: https://www.giornalepop.com/taiwan-e-il-richiamo-della-grande-cina/).

 

 

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