Street Fighter – Sfida finale (1994), film ispirato all’omonimo videogioco, è l’esempio perfetto di ciò che di affascinante c’è nel seguire la storia del cinema. Il fatto interessante non è solo vedere come temi, archetipi e modelli siano cambiati nel corso del tempo, ma quanto e come siano cambiate le caratteristiche che li definivano.

Oggi i “cinecomics” sono arrivati a sviluppare una estetica e un linguaggio propri. C’è stata una codifica che ha portato questo tipo di produzioni a diventare un genere specifico, che nel bene e nel male ha ridefinito il concetto di blockbuster. È molto diverso dall’epoca in cui la maggior parte di questi film erano tenuti assieme da due semplici cose: sputi e preghiere. 

Tenendo presente questo, nonché il clamoroso disastro commerciale di Super Mario Bros (1993), uscito manco un anno e mezzo prima, si potrebbe pensare che a Hollywood ci sarebbero andati giusto un pochino più cauti prima di ributtarsi a pesce in una produzione simile.

STREET FIGHTER - SFIDA FINALE, BELLO DA QUANTO È BRUTTO



Chiaramente, i personaggi di qualsiasi beat’em up di ieri, oggi e pure di domani e dopodomani, hanno fattezze irreali. Tipo i Bronzi di Riace, per dire: esteticamente perfetti, ma anatomicamente irrealistici. Tuttavia questo non giustifica il direttore del casting, perché in Street Fighter – Sfida finale si va ben oltre il concetto di mancata estetica dei personaggi.

Street Fighter – Sfida finale inizia con l’inviata speciale Chun-Li Zang (Ming-Na Wen) che ci dà le ultime notizie dal fronte. Il Generale Bison (Raul Julia), arroccato sulla sua isola-fortezza Shadaloo, lancia un ultimatum alle Nazione Unite: vuole venti miliardi di dollari entro settantadue ore. In caso non gli venissero concessi ucciderà uno per uno i circa sessanta membri della missione umanitaria che tiene in ostaggio. Bene.

Trovandosi a passare di là, mentre casualmente Bison stava guardando proprio quel notiziario, il colonnello Guile (Jean-Claude Van Damme), si appropria di prepotenza del microfono e risponde direttamente a Bison. Fa questo come se non solo sapesse che Bison lo sta guardando in quel preciso momento, ma pure come se i due, in qualche modo, arrivassero a sentirsi. Perciò, Guile fa sapere che lui non ci sta ai ricatti.

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Con gesti offensivi, promette di fargli il culo a capanna e liberare gli ostaggi. Soprattutto, a un certo Charlie chiede di tenere duro fino al suo arrivo. Benissimo. Grazie alla sottilissima dialettica, proprietà di linguaggio e finissime doti da negoziatore di Guile, Bison ci mette poco a fare due più due controllando le medagliette del soldato a cui, casualmente, stava per spezzare il collo. Un certo Carlos “Charlie” Blanka.

Viste le brillantezze di Guile, la trama continua spostandosi in una stereotipata Thailandia dove Ryu (Byron Mann), chiamato Raiu senza un preciso perché, e Ken (Damian Chapa) sono due truffatori da quattro soldi. Esattamente come nel videogioco, uguale uguale. Comunque. Scopo del viaggio, cercare di piazzare una partita d’armi rubate a Sagat (Wes Studi), noto criminale e trafficante d’armi internazionale.

Alla fine viene fuori che era tutta una simpatica burla basata sulla birboneria e le super-futuristiche-letalissime armi, che Ryu detto Raiu e Ken volevano smollare a Sagat, altro non erano che semplici giocattoli. Quindi, visto che il film si chiama Street Fighter – Sfida finale, anziché freddarli sul posto a mitragliate come da tradizione, Sagat costringe Ryu detto Raiu e Ken a battersi con il suo braccio destro: Vega (Jay Tavare).

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Tuttavia il duello, emozionante quasi quanto gli anziani che si pigliano a bestemmie al circoletto della bocciofila, viene interrotto da una retata di Guile. Il quale casualmente si trovava a passare da quelle parti. Allora vengono presi tutti in una matassa e sbattuti in prigione. Solo che nella cagnara creatasi in carcere le simpatiche canaglie, Ryu detto Raiu e Ken, vengono notati da Guile. Sempre casualmente.

Quindi Guile, dimostrando ancora una volta le sue innate capacità di leadership e analisi omnicomprensiva delle situazioni, organizza una finta rivolta con relativa finta evasione per infiltrare Ryu detto Raiu e Ken nella banda di Sagat. Cioè, infiltrarli nella banda del tipo che da circa tre o quattro giorni sta provando a uccidere tutti e due per la storia delle armi finte. In realtà, un motivo a tutto questo c’è.

Perché Guile ha un piano, studiato nel dettaglio con il manuale delle Giovani Marmotte, definibile addirittura machiavellico nella sua ingegnosità: step 1, fingersi morto; step 2, infiltrare Ryu detto Raiu e Ken nella banda di Sagat, perché Sagat è in affari con Bison; step 3, attaccare Shadaloo sfruttando l’elemento sorpresa dato dalla sua finta morte.

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Attenzione perché ora c’è il bello: casualmente viene fuori che oltre essere una reporter, Chun-Li è pure una super-guerriera in cerca di vendetta contro Bison. Perciò, la sera dopo la finta morte di Guile, si intrufola nel quartier generale delle Nazioni Unite e va a frugare proprio nell’obitorio dove trova Guile. A quanto pare rimasto lì per ore e ore aspettando che qualcuno, casualmente, entrasse. Così, tanto per rendere più drammatica la sua rivelazione.

Seriamente, tutto questo ha un minimo senso? Cioè, tutto questo casino per fingersi morto, infiltrare i due compari nella banda di Sagat e via dicendo serve fondamentalmente per trovare il “nascondiglio segreto” di Bison. Un nascondiglio talmente segreto che l’entrata sta nella piazza del mercato e tutti sanno come arrivarci. Persino Chun-Li e la sua crew travestiti da artisti circensi per… motivi che uno non vuole manco provare a immaginare.

Finalmente, dunque, tutti i personaggi si ritrovano su Shadaloo chi per un motivo chi per l’altro e… niente. Tutto è una dolce discesa senza più freni sui pendii dello sclero purissimo. Così, tanto per capirci: quali sono le motivazioni che muovono i personaggi? Tipo Balrog e Honda, per esempio. Entrambi ce l’hanno con la Shadaloo, perché Bison ha fatto tutto il possibile per rovinare la loro reputazione e le loro carriere di boxe/sumo. 

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Cioè, come funziona? Uno dovrebbe presumere che rovinare le carriere di combattenti professionisti fosse parte di un qualche precedente piano di dominio mondiale andato all’aceto? Va be’, Street Fighter – Sfida finale poi migliora, eh. Roba che da rip-off di James Bond, all’improvviso, decide di essere il cugino scemo e povero di Star Wars. Appunto, Bison si aspetta proprio quello ed è preparato a respingere un assalto in massa alla sua fortezza.

Quello che non ha preso in considerazione è un semplice, piccolo, singolo veicolo che ha la possibilità di avvicinarsi abbastanza e colpire l’unico, piccolo punto scoperto della fortezza in modo da distruggere i sistemi di difesa. Naturalmente tutto è molto più semplice quando hai “Assassina”, la barca che risolve i crimini dalla sera alla mattina. No, perché solo così ti puoi permettere certi tocchi di classe altissimi.

Yi puoi permettere il fatto che sulla barca che dovrebbe infiltrarsi abusivamente a Shadaloo c’è scritto bello bello il nome di Guile sulla fiancata. In pratica stai indicando al nemico il punto più sensibile dello schieramento. Tanto valeva schiaffarci una bandiera a stelle e strisce sopra e scrivere “colpire qui che c’è il nostro comandante”.
A questo punto, chiaro si fa prima a dire ciò che di buono c’è in Street Fighter – Sfida finale, anziché il contrario, no? 

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Ecco, l’unica cosa buona di questo film, effettivamente è Raul Julia. Paradossalmente, Street Fighter – Sfida finale, nella sua assurdità mette ancora di più in risalto la perdita per il mondo dello spettacolo di uno come lui. Senza farla più lunga del necessario, Street Fighter è assolutamente ridicolo: i dialoghi sono ai limiti del grottesco. La storia è un delirio. La trama è via via sempre più assurda e farneticante. I personaggi sono stati comprati alla fiera del cliché un tanto al kg. 

Eppure, nonostante questo, Raul Julia ha dato il massimo trattando il suo ruolo con più rispetto, non solo di quanto facessero i suoi colleghi all’epoca, ma della maggior parte degli attori in questo tipo di produzioni in generale. Una performance memorabile che ha reso Street Fighter – Sfida finale un film citabile ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni.

“Mi dispiace… non ricordo assolutamente niente. Per te, il giorno in cui Bison graziò il tuo villaggio, fu il giorno più importante della tua vita. Ma per me… era solo un martedì”.



Raul Julia è così trasportato dal ruolo che ogni battuta, per esempio quando parla del suo sogno, l’utopica città di Bisonopoli, pare che ci creda sul serio. In altre parole, il suo Bison non è un cattivo, no: lui è IL cattivo degli anni novanta. Fondamentalmente e in estremissima sintesi, Street Fighter – Sfida finale è un prodotto estremamente campy che andrebbe visto solo per questo motivo.

Tuttavia, volendo mettere da parte tutto quanto, ci sarebbe da spezzare, strano ma vero, una lancia a favore non tanto del film in sé, bensì, per chi lo ha realizzato: lo sceneggiatore e regista Steven E. de Souza. La questione riguarda principalmente il cast perché, chiaramente, tutti sono consapevoli dei limiti nelle trasposizioni in carne e ossa di personaggi fittizi, giusto?

Un conto è non riuscire a rappresentare fedelmente determinati personaggi, altro paio di maniche è prendere gente alla cazzomannaggia. Il problema, qui, sta nel fatto che qualunque lecito dubbio possa mai essere stato sollevato, fu del tutto irrilevante: la produzione sfanculò tutto pur di avere Jean-Claude Van Damme protagonista.



La scelta di Van Damme va contro ogni limite imposto dal buon senso e diventa ancora peggio nel momento in cui si prendono in considerazione tre cose: innanzitutto, Guile non è e non è mai stato il protagonista del gioco. In secondo luogo, per questa parte Van Damme rifiutò il ruolo di Johnny Cage in Mortal Kombat. Ovvero un personaggio interamente e dichiaratamente basato su di lui.

Terzo e non per questo meno importante, stiamo parlando pur sempre di un film basato su un videogioco, dell’adattamento di un beat’em up. Il genere è famoso per tutto tranne che per la complessità delle trame, che di solito, anzi, quasi sempre, si riducono a semplici pretesti per far menare le mani ai personaggi. Questo è il punto: Steven de Souza è il tizio che ha scritto alcuni fra i film action di maggior successo degli anni ottanta.

Sono suoi: 48 ore e ancora 48 ore con Eddie Murphy e Nick Nolte. I primi due Die Hard. Commando e L’implacabile con Arnold Schwarzenegger. Se c’era qualcuno che ne capiva di action movie, quello era de Souza, insomma. Grazie ai suoi meriti, era riuscito là dove molti sceneggiatori sognano soltanto: diventare un regista. E quando gli proposero il contratto per dirigere Street Fighter – Sfida finale, firmò a occhi chiusi.



A dargli questa opportunità fu Edward Pressman, un grosso produttore che aveva svolto un ruolo formativo nelle carriere di registi di successo come Wolfgang Peterson e Terrence Malick. Pressman aveva sentito alcune voci riguardo un’importante azienda giapponese, la Capcom, che voleva adattare il suo famoso gioco Street Fighter in una costosa serie di film d’azione americani.

Così, dopo aver fatto il suo nome perché intravisto il potenziale, tra Pressman e Capcom, a de Souza vennero sganciati trentacinque milioni di petrodollari sonanti per realizzare Street Fighter – Sfida finale. Era una cifra faraonica tenendo presente che il più grosso investimento di quei tempi era stato Batman di Tim Burton, per il quale la Warner aveva cacciato trenta milioni appena quattro anni prima.

Quindi a de Souza venne consegnato un grosso plico di materiale da Capcom, al cui interno c’era una serie di documenti sul futuro del franchise a quel momento non ancora definito con precisione. In uno dei possibili scenari per il gioco pensati all’epoca veniva avanzata l’ipotesi che Bison fosse l’ultimo dittatore del pianeta e la minaccia che rappresentava su scala globale avrebbe di conseguenza coinvolto anche gli altri personaggi del roster.



Apprezzando questa linea, de Souza si impegnò a tirar giù uno script con l’idea di creare un film d’azione in stile James Bond. A lui piaceva, a Capcom pure e qui sono nati i problemi. I dirigenti di Capcom avevano il pepe al culo: presi accordi con Hasbro per una linea di giocattoli dedicata, Street Fighter – Sfida finale doveva essere pronto e proiettato nelle sale per il dicembre del 1994. Cioè, a meno di un anno dall’inizio della produzione.

Inoltre, vennero imposta de Souza tre clausole imprescindibili da rispettare: il protagonista doveva essere per forza Van Damme. Per forza, senza ma e senza se. Poi, Street Fighter non avrebbe dovuto assolutamente essere un film in stile torneo di arti marziali, siccome da lì a poco sarebbe entrato in produzione il film di Mortal Kombat e bisognava distinguersi. Dulcis in fundo, dovevano assolutamente essere presenti tutti e sedici i personaggi del roster

Cosa che si traduce, se la matematica non è ancora diventata un’opinione, nel fatto che in un film di un’ora e mezza ogni personaggio avrebbe avuto un tempo a schermo di poco più di cinque minuti. De Souza aveva pure provato a destreggiarsi, cercare di spiegare e a far capire che al massimo ci si poteva concentrare giusto su quattro-cinque personaggi.



De Souza voleva concentrarsi su quattro o cinque personaggi in modo tale da poter avere lo spazio necessario per approfondirli e svilupparli almeno quel minimo sindacale e riuscire a farli effettivamente funzionare, ma niente, oh. Se ti abbiamo detto tutti significa che in un modo o nell’altro ci devi ficcare tutti quanti, eh. A fronte di tutto questo è chiaro che Street Fighter – Sfida finale sia un film ridicolo che fa acqua da tutte le parti. 

Nulla di ciò che si vede ha un particolare senso. Troppi personaggi e troppo inconsistenti.
La maggior parte dei (pochi) combattimenti sono straordinariamente noiosi, annegati in un mare di sottotrame che nascono e muoiono lì per lì senza andare da nessuna parte. Certo, qualche battuta carina (come Zangief che urla “Presto! Cambiate canale!”) c’è anche, per carità.

Per il resto, però… Street Fighter – Sfida finale collassa letteralmente su se stesso.

Inutile mettersi a pontificare: alla fin fine, il film così è e così resterà per sempre. Eppure, al netto delle pressioni che ha dovuto subire de Souza e per ciò che in effetti è il risultato, in fondo (molto in fondo) Street Fighter – Sfida finale, con il suo design accattivante, personaggi di tanto così sopra le righe e un’atmosfera completamente assurda, è il classico caso di brutto a cui non puoi non volergli bene, fargli fare il giro e farlo diventare bello. 

Ebbene, detto questo anche per stavolta è tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.



(Da Il sotterraneo del Retronauta).



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