Domanda: il sentimento nostalgico su cui Stranger Things fa palesemente leva fa schifo? Se sì, di conseguenza anche Stranger Things dovrebbe far schifo. Altro punto interrogativo. Secondo la Legge dei titoli di Betteridge, che prevede un ricchissimo no come soluzione a ogni titolo che termina con un punto interrogativo, la risposta, appunto, è no. Fino a un certo punto, però. Dicevamo già nell’articolo su Ready Player One che il revivalismo rampante, il continuo lingua in bocca da innamorati persi della cultura pop degli anni ottanta ha leggermente rotto il… stufato. Ma, paradossalmente, proprio per questo motivo… … Stranger Things è la cosa migliore vista negli ultimi anni! Quando Netflix ha sganciato Stranger Things era il 2016 e, sinceramente, non me lo sono filato manco di striscio. Capirai che gran novità ‘sto Stranger Things, mi dicevo. Una serie non solo ambientata negli anni ottanta, ma che addirittura si rifà a molti film di quel periodo. In special modo ai classici del Señor Spielbergo. Eh… grazie, ma no. Mi pare fosse gennaio del 2018 o giù di lì, pochi mesi dopo l’uscita di Stranger Things 2 insomma, quando mi decisi a buttare un occhio alla serie. Più per curiosità che altro. Uno poteva pure cercare di capire cosa ci fosse di speciale in questa “lettera d’amore” agli anni ottanta di cui tutti parlavano. Alla fine, devo ammettere, anche a fronte della visione di Stranger Things 3 rilasciata recentemente, che erano anni, ma veramente anni, che non mi sentivo così felice di aver visto qualcosa. In virtù del fatto che Stranger Things è un pastiche della cultura pop anni ottanta, funziona. Funziona e pure benissimo. Ai tempi del pleistocene, a quindici anni già frequentavo ragazzi più grandi del quarto e del quinto anno del liceo. C’era un tipo, chiamiamolo Gioacchino, che più o meno un annetto e qualcosa dopo essersi diplomato venne a farsi un giro nel vecchio liceo. Che te lo dico a fare: un trionfo di baci e abbracci. Era tutto un Gioacchino qua e Gioacchino là. Bello. Dopo circa un mese Gioacchino è tornato di nuovo. Uno era pure contento di vederlo, sicuramente. Tuttavia non c’era più quell’euforia della prima volta. Alla fine, le improvvisate di Gioacchino so’ diventate un appuntamento fisso. Tanto che a un certo punto ci si chiedeva che diavolo venisse a fare. Ecco, attualmente l’entertainment di grande e piccolo schermo è qualcosa di simile. Fin quando è una tantum, tipo il segmento Raiders of the Lost Arcade dell’episodio Anthology of Interest II di Futurama, ci sta a palla. Fry che salva la Terra dagli invasori del pianeta Nintenduu 64 è un’elegantissima celebrazione del passato. Regalo a sorpresa che nessuno si aspettava e tutti hanno apprezzato. Anthology of Interest II andava in onda la prima volta nel 2002. Oggi, nell’anno Domini 2019, c’è giusto il leggerissimo sospetto che le cose siano sfuggite un poco di mano. Cosa danno al cinema in questo periodo? Se non sbaglio, Aladdin e Il re leone. Che strano… mi pareva di averli già visti entrambi quasi trent’anni fa. Così come mi pareva di aver già visto RoboCop, Ghostbusters, Predator e Jumanji. In compenso l’anno prossimo usciranno delle assolute novità, tipo Top Gun: Maverick. Ché giustamente, tutti sentivamo il bisogno di un seguito di Top Gun trentaquattro anni dopo. Se poi, magari, non hai voglia di vedere un film, puoi sempre attaccarti a una serie tv, no? Per dire, stanco della tua vita monotona? Tra spiagge esotiche e panorami da sogno il nuovo Magnum P.I. è lo show che fa per te. Incazzato perché sei troppo scimmia per montare i mobili di Ikea? Guarda il giovane MacGyver e forse impari qualcosa. Come la nostalgia per il liceo del vecchio Gioacchino. La nostalgia è una droga potente: sai bene che nulla resta immutato nel tempo. Sai bene che le cose non saranno mai più le stesse. Eppure, continui a bramare il confortevole, avvolgente calore dello sguazzare nei ricordi. Il problema non è fare o non fare remake, inneggiare ai bei vecchi tempi riprendendo, anche dopo anni, qualcosa che in passato ha funzionato. In alcuni casi questa può essere una scelta più che sensata. Semmai il punto è che la maggior parte di questi film, di questi spettacoli, non hanno una beata mazza di niente da dire. Il fatto è che noi siamo cresciuti. Questi spettacoli, no. Dal 2003, quando uscì La maledizione della prima luna, puntualmente sono andato al cinema a sciropparmi tutti i film della saga Pirati dei Caraibi. E mi viene da sorridere quando penso che ho visto ciascuno di quei film con una ragazza diversa. Ai tempi de La maledizione della prima luna stavo con ‘sta tipa, chiamiamola Hermione come la piccola scass… saputella di Harry Potter. Dopo diciassette anni certo non posso richiamarla così, all’improvviso, fingendo che nulla sia cambiato. Il tempo passa e le cose, appunto, cambiano. Non puoi far finta che tutto sia rimasto uguale, che il pubblico non sia cresciuto. Che tutti siano felici e contenti solo perché, venticinque anni dopo, gli metti davanti una nuova stagione di X-Files. L’equivalente di richiamare Hermione dopo quasi vent’anni e chiederle, tipo, “domani usciamo?”, come se ci fossimo visti l’ultima volta la sera prima. Sarebbe da pazzi. Quello che non va in questo tipo d’intrattenimento è il tentativo di trascinarci in un passato che, magari, a volte desideriamo. Ma di cui non abbiamo bisogno, in quanto totalmente slegato da cosette come logica e realtà. Questo non è celebrare il passato, è un elogio funebre. Poi però è arrivato Stranger Things. Come si diceva nell’articolo su Silent Hill, il confine che separa l’ispirazione dal ridicolo pastone ultraderivativo è molto sottile. Il motivo per cui Stranger Things funziona così bene è lo stesso per cui a distanza di vent’anni si continua a parlare di Silent Hill. Esattamente come Keiichiro Toyama e il Team Silent, i fratelli Matt e Ross Duffer, creatori di Stranger Things, hanno preso ispirazione da un fottiliardo di roba. Ma non si sono limitati a schiaffarla assieme pregando che il pubblico reagisse in qualche modo. No, con ‘sta roba hanno creato una storia. Solida, funzionale e, in certa misura, originale. Stranger Things comincia come un episodio di X-Files: c’è un laboratorio segreto, uno scienziato tenta di scappare solo per finire ucciso da qualcosa di misterioso acquattato nell’ombra. La scena si sposta poi in uno scantinato. Solo che, invece di essere l’ufficio dell’agente Mulder, quello è il seminterrato di casa di Mike. Dove fino a sera gioca a Dungeons & Dragons con gli amici. Succede che Will, uno dei ragazzi, tornando a casa viene aggredito da un essere misterioso e scompare nel nulla. Da lì in poi è un crescendo di “Cose Strane”. Tanto per dare un’idea, è un po’ come se i Goonies andassero a Twin Peaks insieme ai ragazzi di Monster Squad per scappare da Michael Myers. Nel frattempo, nessuno di quelli a cui si rivolgono vuole credere che nei pressi della spiaggia di Amity ci sia un gigantesco Squalo e, perciò, devono arrangiarsi da soli per salvare E.T. da Silent Hill. Questo però non è niente. Da Incontri ravvicinati del terzo tipo a L’incendiaria, fino a Stati di allucinazione passando per Scanners e Poltergeist, ci faccio notte a elencare le ispirazioni da cui l’intera trama di Stranger Things, nell’arco di tre stagioni, prende forma. Risvolti e avvenimenti dovrebbero essere familiari per chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il cinema degli anni ottanta. Qui sta il bello di Stranger Things: mai, neanche una volta, tenta di nascondere la sua straordinaria venerazione verso i blockbuster anni ottanta. E quella è solo la forma. La sostanza è una storia viva, coinvolgente. D’evasione, ma non vuota. Molti film del passato come quelli di Don Bluth, tipo L’asinello o Charlie – Anche i cani vanno in paradiso, al di là del fatto che siano emotivamente devastanti, funzionano ancora oggi per un semplice motivo. Anche rivolti a un pubblico infantile non trattavano gli spettatori come poveri rincoglioniti. Le emozioni che quei film comunicavano venivano sì esposte in modo semplice, ma per essere dirette. Non “filtrate”. In modo tale che chiunque, indipendentemente dall’età, avrebbe potuto goderne appieno. Per dire, quando Charlie, dopo aver dato la vita per salvare Anne-Marie, torna come fantasma per vederla un’ultima volta e dirle addio è la stessa pugnalata di trent’anni fa. Superficialmente, Stranger Things potrebbe sembrare una semplice giostra. Un carrozzone scintillante che ti attira con luci abbaglianti color nostalgia. Ma, appunto, quella è la facciata. Una facciata messa apposta, da cui filtra, lenta ma costante, quella goccia di dolore sfiziosamente traumatico. Che ha rispetto sia dell’amarezza degli adulti, sia per la sofferenza infantile. Come Charlie, Brisby e il segreto di Nimh, Stand by me, Alla ricerca della valle incantata, Lucas, La collina dei conigli e via dicendo. Mai Stranger Things cerca di nascondere queste ispirazioni. Al contrario le ingloba, le fa proprie. Per dire, le dinamiche del rapporto fra Mike e Undici sono quelle tra Elliot ed E.T.. Te lo urla praticamente in faccia. Visivamente (ed emotivamente) ti attira verso uno sviluppo familiare. Ma allo stesso tempo ne prende le distanze evolvendosi per conto proprio. Perciò non ti ricorda solo l’epoca a cui sono associati, ma la qualità di quegli stessi film. Oltretutto, vero che il running time di una serie offre uno spettro narrativo molto più ampio rispetto ai novanta-centoventi minuti specifici dei film. Ma è altrettanto vero è il muro di gomma contro cui, a un certo punto, si schianta il ritmo della narrazione. La dilatazione di una storia su una dozzina di ore quando ci starebbe in tre. Quattro ore, al massimo. Raggiunto il grande successo con la prima stagione, Stranger Things avrebbe potuto facilmente andare in vacca, diventando strutturalmente pigro. Invece no. Lo storytelling rimane incredibilmente efficace. Tanto che le otto ore scarse di ogni stagione scorrono via come niente. Il punto centrale resta Undici: il rischio che il personaggio, a lungo andare, si trasformasse in un semplice espediente su cui cucire di volta in volta quattro cazzate, era altissimo. Invece Undici è, molto semplicemente, il miglior personaggio mai creato negli ultimi dieci anni, dopo Imperator Furiosa di Mad Max: Fury Road. Millie Bobby Brown, una ragazzina di appena quindici anni che nei panni di Undici tira fuori una performance non voglio dire straordinaria, ma quasi. Con un’attrice così giovane nei panni di un personaggio simile era un attimo che tutto poteva trasformarsi in una ridicola baracconata. Come vedere ‘na specie di Yoda con la gonnella o roba del genere. Invece la Brown dà una caratterizzazione così forte al personaggio da renderlo molto, molto più che un semplice soggetto di fantasia. Soprattutto, se si tiene in considerazione un particolare. Breaking Bad è la mia serie preferita in assoluto per una serie di motivi che ora non sto a spiegare. C’è una sequenza in un episodio in cui Walter White, il protagonista interpretato da Bryan Cranston, lascia morire una ragazza davanti a lui senza muovere un dito. Durante la scena, la telecamera stringe man mano sul volto di Walter/Cranston e tutto quanto regge sulla sua mimica facciale. Il passaggio è molto importante, in quanto passa dallo sgomento alla confusione, fino al più totale, durissimo, indifferente cinismo che segna definitivamente il carattere del personaggio. Millie Bobby Brown fa esattamente la stessa cosa. In quanto Undici è un personaggio “muto”. Tutto regge sulla mimica facciale e fisica dell’attrice. Che riesce a piegare la storia verso di lei e non su di lei, attraverso una trasparenza emotiva eccezionale. Una cosa del genere te l’aspetti da gente come Bryan Cranston o Peter Dinklage, per dire. Certo, non da una ragazzina. Santo cielo. In definitiva Stranger Things vive del e nel passato, ma non è bloccato e non tenta di bloccarti lì. Ebbene, direi che con questo è tutto. Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro. Navigazione articoli CITY HUNTER: INIZIO, FINE E RITORNO CON OCCHI DI GATTO MIRIAM LEONE, LA NUOVA EVA KANT IN 18 SEQUENZE