Succede una volta ogni vent’anni anni circa.
   Accendi la tv, vedi delle immagini, guardi e ascolti con inconsapevole e inaspettata attenzione, ti stupisci.
   Senza rendertene immediatamente conto osservi i personaggi e il loro ambiente, ascolti i dialoghi e… non puoi più fare a meno di conoscere meglio e sempre meglio tutto questo.

   Accadde, nel 2008, per puro caso, sul canale satellitare Axn  (che in Italia non esiste più), e t’imbatti in Breaking Bad.

   Ti informi per quel che puoi e scopri che nessuno ne sa qualcosa perché, per ragioni di censura e autocensura delle emittenti e per ragioni di inetta attenzione al pubblico italiano, hanno infilato questa serie dove pochi possano rintracciarla.

   Ma tu registri, ne parli – sei ancora un cinematografaro che lavora e mantieni rapporti col mondo della critica e della storiografia dell’audiovisivo – e, a un certo punto, ti rendi conto di essere incappato in qualcosa che sta diventando un ipersuccesso internazionale e sarà valutato e strapremiato quale opera di massimo prestigio.

   E così, nella intricatissima foresta di offerte della tv mondiale, Breaking Bad, a sedici anni dal suo primo Emmy, alla faccia del silenzio con cui venne accolto nella nostra deflagrazione quotidiana, svetta ancora come gli alberi di sequoia che superano i cento metri d’altezza nel parco di Yosemite dove vivono da secoli e se ne sbattono imperterriti dei disastri climatici che distruggono mirti e corbezzoli sradicati sotto tutte le ignobili vergogne edilizie italiote comprese quelle sulle pendici panoramiche dei vulcani attivi.

    Anche in America, sua patria d’origine, all’inizio non era andata tanto diversamente.

   L’ideatore Vince Gilligan si era adattato a restringere il suo progetto originale a soli 7 episodi sulla tv via cavo Amc.  

   Poi divennero 13 la stagione successiva, poi di nuovo 13, poi di nuovo 13, fino ai 16 con la storia di Breaking Bad che si conclude tra l’attesa di milioni di spettatori di tutto il pianeta.

   E oggi la versione in dvd è ancora in testa alle classifiche dove, con velocità travolgente, s’impiantano i primi ripetitori, antenne e parabole, segni che il “Terzo Mondo” esiste ancora, esistono ancora le sue baracche e le sue guerre e la sua fame, ma la tv oggi arriva anche lì dove nemmeno il cinema giunse nella sua età dorata del ventesimo secolo.

   Ma, per il videoascoltatore “normale”, l’uomo a una dimensione, lo spettatore-consumatore, il tempo passa e sovrasta la memoria delle suggestioni migliori.
   Nella Penisola continuano a indagare i preti in bicicletta, i commissari e gli ispettori che esercitano nella provincia più irreale e falsificata a uso delle aziende del turismo; impazzano le repliche e controrepliche del peggiore cinema e della peggiore tv della nostra vita;  ed è la televisione stessa a imporre che le memorie si sovrappongano, i ricordi si assommino, perché, più esistono schermi e più esiste nuova o rielaborata produzione sia essa peninsulare o globalista.  
E perciò, ogni settimana, su quel che resta dei rotocalchi di un Paese dove il 76% degli abitanti non ha mai letto un libro, appaiono rubriche che annunciano decine di nuove serie a settimana sui palinsesti generalisti, digitali, satellitari, e le piattaforme le quali, pur di proporre cose nuove (poi magari non sempre fresche come ci raccontano) alimentano pure la produzione indigena per cui non pagheranno tasse in loco e non subiranno alcun controllo culturale e analitico così come sociale e fiscale.

   Le notizie arrivano al consumatore dai comunicati stampa scritti apposta per generare quel minimo di attenzione che, sette giorni dopo sette giorni, ha anche (tra i tanti scopi su cui un tempo si esercitava una sperimentata antropologia che si studiava anche nelle medie superiori ed oggi è sconosciuta ai più) ha il compito di sistemare nei cervelli i depositi dei ricordi privilegiati.
   Per cui, senza illusioni, nelle stanze delle reminiscenze del comune spettatore-consumatore, anche Breaking Bad  finisce nell’angolo più oscuro e polveroso dove (sottoposto inoltre alle raffiche di notizie sciocche, serie o letali, false e quasi vere) può essere dimenticato per sempre.

SHAMELESS, IL SESSO AMERICANO



   Ciò nonostante, nell’autunno tropicale del 2023, alle 5.00 del mattino circa, quando accendi la tv giusto nell’intento di sapere per un istante cos’è successo di schifoso il giorno prima – e fai pure lo zapping per svegliarti dal sonno del giusto e riaprire la vita alla veglia del dropout intellettuale – ecco che ti appaiono Fiona e Lip, Kev e Vic, Ian e Mickey. Ma chi sono?

   Fiona è bellissima, dentro e fuori, lo noti subito, ma in quale pianeta vive? Dov’è che ragazze e ragazzi vanno a letto tra loro con tanto di corpi nudi in vista e il linguaggio più vivace e verace che mai si sia sentito su teleschermi, videoschermi, display, monitor, screen windows ?
   Si discute di coca e anfetamine, di droghe che uccidono i bambini e fanno felici gli annientati, di bibite alcoliche che ustionano lo stomaco, di ogni sostanza bruci la materia grigia e stimoli comportamenti iperbolici.
   Si suda e si puzza di carne, di liquidi maschili e secrezioni vaginali,  per il caldo che soffoca e il freddo da cui non c’è altro riparo che giubbotti in finta pelle logorati dagli schianti al suolo di donne e uomini che si ubriacano o si intossicano, oppure hanno perso la casa, e dormono dove cadono, dove possono, dove credono di aver fregato il più arzigogolato sistema di sussistenza ai poveri e ai malati del mondo occidentale.
   Si conversa soprattutto di sesso, si pratica soprattutto sesso, ogni forma di sesso: in senso orizzontale e verticale, sovrapposto e ribaltato; in senso andrologico e amoroso, infettivo e bucolico, stravolto e idilliaco.

   Siamo arrivati nel mondo di Shameless e, per la precisione, in casa o nei dintorni della casa della famiglia Gallagher, e nel bar Alibi – deteriorato e unico punto di ritrovo alcolico e prostitutivo  dei derelitti – sull’Homan Avenue del ghetto di Cannary Road, nel South Side a Cichagoland cioè nell’immensa area metropolitana fuori  (fuori in tutti i sensi e i modi) dal centro di Chicago, metropoli dell’Illinois, a poca distanza dal lago Michigan, un “mare” di 57.570 metri quadrati che separa dal Canada, l’unica vera Europa americana, invidiata e desiderata, disprezzata e ricercata, perché lì esistono tutele che l’americano medio-povero non può che immaginare, magari diverse e migliori da come sono.

I luoghi di Shameles sono stati, nel precedente “secolo dell’immagine”, teatro di tante opere che ci hanno narrato tutto o di tutto, vicende indimenticabili per numerose ragioni,  ma non ci hanno mai raccontato  di dove stanno i Gallagher: questo buco del culo dell’America depressa e avvilita, confusa e mortificata, eppure viva e vitale quanto le sue più atroci malattie e la sua poesia stordita, liricamente suggestiva e prosaica.

SHAMELESS, IL SESSO AMERICANO




    La mia personale visione di Shameless è andata avanti grazie a certi sistemi tecnici che mi hanno permesso, dopo il primo stupore occasionale, di assistere alla serie dall’inizio e godermela fino alla fine, più o meno a Natale.
    Non è Breaking Bad e non ha quel fattore di misteriosa attesa che si imparenta con il thrilling.
    Shameless è una commedia drammatica o un dramma in forma di prosa esercitata in tanti stili narrativi che combinano tra loro e creano la musica di una realtà mai troppo lontana.

    In questo Paese dove spesso si vive, ma non si esiste anche come spettatori, Shameless è andata in onda su Mediaset Premium (quindi a pagamento) dal 10 ottobre 2011, poi su altre reti dello stesso network dal 2013; nel 2023 è approdata, negli orari in cui il sole inizia a spuntare,  sul canale Twentyseven in cui, in quella fascia postnotturna, non si affollano nemmeno gli spot perché, come previsto dai programmatori e come nei palinsesti precedenti, questa serie non l’ha vista quasi nessuno.
    Si tratta di 11 stagioni, dal gennaio 2011 all’aprile 2021, di cui l’ultima realizzata quando il Covid iniziava forte a mietere vittime anche nel South Side di Chicago, per cui si noterà che non si tratta esattamente di una cadenza periodica annuale poiché, tra il 2019 e il 2020, due produzioni sono state messe in piedi parallelamente per l’incedere della pandemia.

   A rifletterci sono passati a oggi quasi tre anni da quando è finita la prima programmazione statunitense e dieci da quando è terminata la prima italiana in chiaro.
   Eppure si sta davvero riscoprendo solo ora.
   Possiamo capire l’imbarazzo di chi l’ha nascosta sotto il tappeto degli insuccessi previsti a tavolino.    

   Possiamo capire che chi è cresciuto con Happy Days e ora ha la sprezzante presunzione di dirigere i gusti degli italiani da viale Mazzini o Cologno Monzese, ammettendo l’abbia vista, sia rimasto annichilito di fronte alla franchezza svergognata e alle situazioni esplicite di Shameless, il suo umorismo impudico, la sua drammaticità grottesca e realistica.
   Ma è bene chiarire – cosa risaputa nel settore ma non a chi legge –  come certe serie non si comprano perché siano viste ma perché fanno parte di “pacchetti” di opere che contengono prodotti “di punta” e tanta roba considerata di scarto (buona o meno buona, bella o orribile, non importa), ma se non compri tutto il pacchetto non hai nemmeno ciò che può rendere di più agli investitori pubblicitari, i veri padroni delle tendenze.
   E Shameless era finita in questo limbo bislacco e kafkiano, dove (al contrario di quanto ci si vuol far credere) i soldi pubblici escono ed entrano nel gioco della finta concorrenza tanto quanto le finanze private e immuni a qualsiasi brexit.
   Infine sembra che, caso del destino, già poco prima del citato autunno 2023, su Netfilix, potendosi vedere integralmente e senza tempi imposti, un nuovo pubblico si sia interessato alla serie e ne stia partecipando i valori, specialmente tra i giovani o persone genericamente immuni da prevenzioni di gusto o generazione.
   Infatti è certo che, da noi, Shameless è e sarà un prodotto di margine, come invece non è accaduto in altri paesi dove esiste una cultura televisiva più elitaria forse ma certo più anticonformista e da decenni formativa delle passioni di chi non si piega alla morale inquadrata per il rimbecillimento interclassista.

    Prodotto di margine ma di punta.
    Non perché farà mai sfracelli alla corte dell’Auditel, ma perché punta al cuore e al cervello di una minoranza che, con il tempo, potrebbe allargarsi e diffondersi, scavarsi un tunnel nella produzione di repliche che, a quanto pare, hanno già attecchito persino in Turchia e in Russia, generando adattamenti indigeni del format, mentre in Italia potrebbe giovarsi di un notevole riverbero sul mercato dei dvd e dei file scaricati dalle piattaforme autorizzate su internet.
   Non è ancora accaduto, ma potrebbe….

   Viene da chiedersi come sarà il Shameless che qualcuno definirebbe putiniano, giacché è chiaro che per ogni paese cambiano i fattori della versione. Come sarà la famiglia Gallagherovic di Machačkala sul Mar Caspio ?
  E, poiché tutti i problemi razziali e sociali tra gruppi etnici di ogni genere ed entità sono ampiamente trattati da vicino sul Shameless originale, quali saranno le contraddizioni e le incongruenze che ne sorgeranno nell’autocratica tv di Erdogan ?

   Ma, lasciando da parte interrogativi che difficilmente avranno subitanea risposta, chiariamo che la serie originale non è quella statunitense di cui abbiamo trattato sino ad ora.
   La prima serie Shameless, creata e realizzata dal vulcanico Paul Abott per Channel Four, appare, per la prima volta, nel Regno Unito in prima visione su tutte le reti nazionali e in prima serata (!), il 13 gennaio 2004.

   Questa versione primaria in parte è apparsa, ignorata, anche da noi, su Jimmy (altro canale che non esiste più) nel 2004, solo le prime tre stagioni.

   Composta anch’essa di undici arriva al 2012, un anno dopo che l’opera è stata riadattata in Usa.
   È ancora notissima per il pubblico britannico, ha superato notevoli cambiamenti politici e sociali, ha raccontato dell’Isola dai tempi del thatcherismo a quelli di Tony Blair circumnavigando intorno agli entusiasmi per il laburismo arrabbiato di Jeremy Corbyn prima di precipitare nella brexit filoamericana di Boris Johnson.

   Elogiata e analizzata a fondo dai maggiori esperti, premiata col premio Bafta Tv e al Bcc (rispettivamente il riconoscimento del British Film Institute per la televisione e il British Comedy Awards) è ancora oggi considerata, come la sua ricostruzione americana, una pietra miliare nella commedia sociale e un punto ragguardevole per l’assoluta indipendenza dal potere politico ed economico con cui è stata concepita, realizzata, revisionata in corso d’opera, adattata ai tempi cangianti, senza mai cedere un’unghia alle bizze di governanti e tycoon con base londinese.
   Una tradizione di autonomia e contemporaneamente di qualità che, in tempi ormai remotissimi e inimmaginabili, la Rai cercava di condividere con la Bbc, il cui canale Bbc 2 ha poi ritrasmesso Shameless senza porsi problemi per proteste – che pur ci sono state, ma è naturale – dovute ai nudi frontali, al turpiloquio incessante, all’evidenza dell’alcol e di ogni tipo di droga a Chatsworth, un non proprio immaginario se non nel nome, South Side di Manchester.
   Da segnalare che, nell’ancor agguerrito settore di sinistra del sindacalismo britannico e nel Partito Laburista (dalla minoranza trotskista ai moderati atlantici), Shameless ha ricevuto un’accoglienza ricca di visioni e agnizioni particolari dedicate alla “migliore e meno edulcorata narrazione della classe operaia inglese di sempre” come ufficialmente riconosciuto dagli stessi Keith Starmen e Lisa Landy i leader socialisti che  di attività nelle periferie se ne intendono venendo proprio da lì.

   Sta di fatto che, nel 2010, il produttore e creatore di serie virginiano John Wells, scommettendo su un nuovo tipo di commedia che poi tanto commedia non era, ha acquistato il format di Paul Abbott e l’ha adattato alla realtà americana che abbiamo sopra citato.
   Wells non era allora e non è poi mai diventato il titolare di serial di rottura. Si può anzi dire che Shameless
sia l’unico esperimento del genere a cui si sia dedicato e che il successo americano lo abbia poi spronato a tornare ad altri prodotti “normali” e di sicuro successo.
   Ma è pur vero che l’indipendenza, pur corrotta dalle interferenze degli inserzionisti, se c’è un autentico richiamo, anche in Usa è riconosciuta quanto il talento, per cui la produzione ShowTime non ha mai interferito nella trasposizione dal prototipo inglese a quello statunitense che poi si è diffuso nel mondo bloccando necessariamente le possibilità di esportazione dell’originale britannico.

   La serie inglese ha lasciato il campo a quella americana non per il solito potere di diffusione statunitense, che, in questo caso, è un dato ma marginale.
   Il fatto sta che nel Regno Unito non esiste un livello strabordante di incongruenze nel welfare come in Usa, la disilludente condizione della miseria pratica e morale non tocca i versanti abissali della gestione statale-federale soggetta sotto le presidenze di Bush Jr, Obama e Trump il cui mandato s’è chiuso mentre Shameless giungeva alla ventunesima stagione, con l’incremento del 30% ai 36 milioni di esseri umani sotto il livello di povertà ereditati all’inizio dell’esercizio.
   Ne in Europa era ancora mai stato sentito, come in Shameless è dato di fatto, il problema dell’assorbimento, dell’incontro-scontro con le etnie diversificate già presenti (afroamericani, nativi americani, latinoamericani) con l’emigrazione più recente (dall’Asia, dall’Africa, e soprattutto dai paesi dell’Est Europa e Russia da cui proviene Svetlana, un personaggio fatale ed essenziale della serie) mentre è possibile solo nel crogiuolo Usa, dov’è cosa normale la presenza di nativisti con il culto delle armi nella casa accanto al funzionario statale impoverito accanto al bordello improvvisato accanto, tanto per tornare al punto base, alla famiglia Gallagher dove un padre disfunzionale – drogato e alcolizzato cronico – condiziona l’esistenza di cinque figli tra i tre e i venticinque anni i quali, all’inizio della storia, l’hanno ormai sgamato e rinnegato.

   Quindi John Wells, evidentemente tutt’altro che un artefice accodato ai gusti dolciastri del neoromanticismo del suo e nostro Paese, ha ricevuto stimoli appassionati dalla serie inglese prima e dall’innesto della sua situazione narrativa sul suolo americano.
  Ma deve per lo meno aver pensato che, se proprio ci si voleva provare con Shameless,  le ragazze emancipate newyorchesi di Sex and the City e prodotti similari, erano divenute delle privilegiate educande i cui gusti non erano più recepiti da un pubblico che, in casa Gallagher, rispecchia se stesso e le sue problematiche e di sesso non discute per vezzo.
  Fare ulteriori confronti, a questo punto, diventa un esercizio inutile.



   Non vogliamo raccontare la storia base e le sue innumerevoli ramificazioni perché toglieremmo,  a chi si accosterà a Shameless con le migliori intenzioni, il piacere di scoprire tutti i numerosi aspetti di un serial che non è comico ma fa anche ridere, e parecchio a seconda dei casi; in altri casi fa sorridere con l’amaro o amareggia con un materialismo poetico che è stato la scoperta più sorprendente e sconcertante in un’opera  giunta pur sempre da un contesto produttivamente industriale e marcato da sistemi organizzativi ineludibili.
   Però vi parleremo lo stesso di quello che accade in Shameless, di chi sono i protagonisti e le personalità minori e saltuarie, all’unico fine di spingervi ad andare a verificare da voi se siete pronti a digerire piacevolmente ciò che, per un certo tipo di pubblico, non è nemmeno concepibile accettare per un istante.
   E, a margine, vi diamo due  sole esortazioni.

   Non andate a Cichagoland per ridere della sprovvedutezza e dell’incapacità a risollevarsi dei personaggi coinvolti.
   I Gallagher e tutti gli altri, donne e uomini di Shameless, non sono Fantozzi sulla cui scalogna il creatore infieriva sadicamente per far sentire migliore di lui anche lo spettatore più inetto.
   In Shamelles  troverete un’umanità offesa e disturbata, miseria umana e scalogna a non finire, però qui si parla non di invenzioni tanto amene quanto superficiali ma di personalità su cui la durezza dell’esistenza non ha mai intaccato del tutto il desiderio di emancipazione e rinascita di ciascuno.
  Inoltre valutate che se qui si spara, e si spara parecchio, la violenza non è quella che solletica gli istinti peggiori dell’uomo contemporaneo, ma quella che porta alla considerazione di quanto – pur lontano dalle guerre più gravose tra popoli ed eserciti – la furia dell’umanità può  esprimersi nel suo più sconcertante invelenimento presente in Shameless nel quotidiano quanto il suicidio, la malattia e il vizio, la vecchiaia che prende al cervello e degrada il corpo; il sesso che è piacere e violenza; infine la prevaricazione dei ricchi sui poveri come parte integrante del sistema sociale americano. 

  E tutto ciò vi farà ridere e sorridere, commuovere e turbare, emozionare e soprattutto partecipare.

   La storia, a larghi tratti, è quella di Frank Gallagher, uomo intelligente e a tratti geniale, che ha speso tutta la vita per il godimento dell’attimo. Tossico inguaribile, capace di truffe al sistema e anche a chi gli dovrebbe essere più caro, con una pertinacia e un’assiduità che arriva al masochismo.
   L’unica cosa che “non” possiede è la casa di Cannary dove inizialmente ha vissuto con Monica, la donna disgraziata e bipolare fatta per lui, che riappare in tre situazioni particolari, ma, dopo essere stata più volte interdetta a causa del disinteresse per i cinque figli che ha fatto con Frank, è fuggita.
    A Monica si è sostituita, un po’ per vocazione e un po’ per necessità, Fiona, la figlia più grande (poco più che diciottenne all’inizio) che ha cura dei fratelli e della sorella minore.
    Ciascuno di questi, colto inizialmente come bambino o al trapasso adolescenziale, avrà la sua storia, anzi: le sue storie.

   Ma, data la costituzione irregolare della situazione familiare, tutti rimarranno legati l’uno all’altro pur tra gli inevitabili litigi, equivoci, contraddittorietà.

   E tutti saranno sempre affezionati a Liam, il più giovane (dai quattro ai dodici anni nel corso delle vicende) e di colore;  l’unico personaggio che nelle prime stagioni è interpretato da diversi attori come dispone la legge di tutela persino in Italia, e, dalla settima,  è interpretato dal bravissimo Christian Isaiah.
   Lip è il fratello più intelligente, portato per le scienze, capace di studiare e arrivare all’università.
   Ian è il più sensibile, cosciente della propria omosessualità già da prima della pubertà, ma con svariate passioni e involuzioni.

   Carl, circa dieci anni all’inizio con pericolose passioni per il fuoco e la crudeltà sugli animali, che poi si svilupperà, alla ricerca di un se stesso alfine ben delineato, lottando tra la vocazione alla disciplina militaresca e attività illegali e legali.
   Debbie, l’altra figlia, è l’ultima nata prima di Liam. È il personaggio che, con tutte le discontinuità captate dall’infanzia alla giovinezza (diventa madre appena pubere), in fondo reagisce alla vita con maggiore normalità, una normalità alla Gallagher s’intende.
   A questi ragazzi sono uniti, Kev e Veronica (lui bianco e lei nera, innamorati sempre) benché vivano in un’altra casa e abbiano un lavoro fisso (lui, dopo mille adozioni  temporanee andate male, gestisce il bar Alibi che eredita dal proprietario vecchio e malato di cui ha cura; lei è assunta in un ricovero per anziani, fa la parrucchiera e da una mano nel locale) il cui destino, pur tra tante pericolosi frangenti, è sempre legato ai Gallagher; lei è anche la migliore amica e confidente di Fiona, un’altra sorella.

   Vicini dei Gallagher sono i Milkovich, di origine sovietica ma nativisti inguaribili, suprematisti al soldo di politicanti e gangster, trafficanti di armi e droga, sfruttatori di donne con padre patriarca incestuoso, alcolista delirante;  e maggioranza dei figli destinati alla delinquenza professionale.
    Ma due ragazzi Milkovich sono anch’essi protagonisti a tutti gli effetti.
    Mickey, il quale si rivelerà gay e stabilirà con Ian una storia d’amore contrastata e tormentosa che è forse una delle più strazianti e struggenti, e perciò poetica, passione tra uomini mai raccontata dai tempi del cinema muto, prima dei codici e delle censure.
   E poi c’è Mandy, sorella di Mickey, innamorata senza speranza di Ian e spesso a letto con Lip, la quale riuscirà ad uscire dal ghetto con una storia che rimanda a certi personaggi della migliore letteratura realista moderna.
   È nella famiglia Milkovic che appare la citata Svetlana, prostituta russa con ingegnose capacità imprenditoriali usate senza alcuna vergogna, fatta sposare a Mickey per respingerne l’omosessualità,  poi applicata all’utilizzo commerciale dell’Alibi sotto forma di antebordello. Anche lei arriverà, a modo suo, all’agognata possibilità di andarsene dal South Side.

   Poco lontana vive la famiglia Slade-Jackson, con madre dapprima affetta da agorafobia e figlia ninfomane.
   Ci penseranno i Gallagher, a cominciare da Frank, a trascinare questa apparentemente tranquilla entità borghese (il padre è funzionario statale ed evidentemente si tratta di un consesso su un gradino socialmente superiore agli altri abitanti della zona) nelle vicende più esilaranti e sessualmente disomogenee.

   Joan Cusak, nel ruolo della mamma, Sheila Jackson, stupisce per un’interpretazione che coglie tutte le caratteristiche alle quali la donna cede o desidera volta per volta in uno sperticato vortice liberatorio.

  Personaggio sempre ai limiti del parossistico è un insieme di pezzi di bravura che ha fatto meritare alla Cusak, già più volte candidata all’Oscar per il cinema, due premi Emmy nei due anni in cui Sheila ha avuto maggior rilievo nell’evolversi della storia.

   Ma l’attore più premiato è stato William H.Macy, attore-doppiatore già popolare e premiato negli Usa, che ha raccolto un dozzina tra candidature e riconoscimenti effettivi come Jack Gallagher.

   È sempre apparso, per un motivo o per l’altro, sulla messe di palchi dove Shameless è stato premiato, gratificato, preso a esempio di commedia e commedia tragica.
   Shamelles  gli ha permesso di imporsi anche come sceneggiatore e regista del proprio personaggio e quindi in altre produzioni, scrittore e creatore egli stesso di serial.

    Certamente la caratteristica tecnicamente più encomiabile di Shameless è l’aver raffigurato tutti i ragazzi Gallagher e Milkovich dall’infanzia alla giovinezza attraverso un’evidente pubertà travagliata.
    Se questo ha in effetti coinciso per l’età di Ethan Cutkosky (Carl Gallagher) ed Emma Kenney (Debbie Gallagher) già attori minorenni sotto tutela, per gli altri sono stati usati interpreti apparentemente più giovani della loro vera età dato il contesto di crudezza in cui si svolgono i rapporti sessuali di ognuno, il racconto che viene fatto da loro è in chiave divertita o acida, gli sviluppi sia etero sia omosessuali  punteggianti senza tregua  tutta la serie.
   Sembra che gli stessi interpreti, per adeguarsi al linguaggio realistico e promiscuo – che da noi non passerebbe mai il visto della censura se i prodotti televisivi fossero sottoposti alle commissioni “di revisione” come i film per le sale – abbiano concertato tra loro di non usare il turpiloquio durante le pause di ripresa con multe comminate dagli assistenti di studio.

   Il problema del linguaggio e delle scene di sesso si porrebbe comunque e non è escluso verrebbe scioccamente fuori se Shameless raggiungesse un numero di spettatori più alto dell’attuale.
   Come è possibile pensare che a personaggi raffigurati come nella minore età sia permesso, alla tv italiana nel suo complesso, di parlare di masturbazione (maschile e femminile),  interpretare atti dove sono inquadrati i corpi nudi in copule tra le più svariate,  raccontare ciò che è accaduto, e non necessariamente a letto, tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo?
   È vero che canali come cine34, Iris (Mediaset) e RaiMovie trasmettono, anche in orari mattutini e pomeridiani, film originariamente sottoposti al divieto ai minori di 18 anni, in alcuni casi tagliati ma in altri con visioni di sesso e violenza ancora raccapriccianti, con l’impostura del “parental contro”,  per il pubblico benpensante  e forse anche per qualcuno che ha vissuto l’epoca in cui certi film venivano ridotti di più della metà, stravolti nel significato, alcuni mandati al rogo.
   Ma, alla fine, proprio come ai tempi in cui si cambiavano i dialoghi ai film di Bergman, saranno i prodotti più intelligenti e realistici a pagare come sempre ?
   La questione si pone per Shameless  perché questo eloquio  è parte integrante della storia, indivisibile dal resto del contesto narrativo, decisivo per la condizione dell’intreccio tra satira e sciagura.

    Bisogna comunque affermare  che il doppiaggio italiano – curato dalla Cdc/Sefit con abili e talentuosi esperti come Emiliano Coltorti, Michele Gammino, Simone Mori, Veronica Salvi e altri – non sembra cedere all’edulcorazione, anzi, si sforza di adattare i termini più grevi ma reali nell’abituale terminologia nostrana.
    Dove inevitabilmente si cade è nel non potere evidenziare bene alcune caratteristiche della lingua originale.
   Se Svetlana parla con un confacente accento russo-baltico (ai limiti del parodistico), lo slang americano, spesso con toni e termini intraducibili, è naturalmente evitato.
    I Gallagher sono di origini irlandesi e, nell’originale, hanno tutti inflessioni particolari. Ancora grazie che doppiatrici e doppiatori si siano sforzati di renderne il carattere attraverso le tante mutazioni.
   Un caso particolare – che suggerisce una riflessione su come accettare l’importazione in un tempo come l’attuale dove ormai tutti recitano in presa diretta nella produzione italiana – è quello di Kev (personaggio semianalfabeta per sua stessa ammissione) il quale, a un certo punto, scopre di appartenere a una famiglia di poveri montanari – tipici hilbillies qui raffigurati come degradati  suprematisti trumpiani armati sino ai denti – e adatta l’accento alla sua origine. Ma, ovviamente, ciò non si può percepire nell’edizione nostrana.
   Però c’è cura, c’è attenzione.

   Non ci troviamo come in casi dove, da un episodio all’altro, personaggi che si danno del tu (magari doppiati dagli stessi attori) si danno del lei, poi di nuovo del tu e poi di nuovo del lei, a segno dello scarso interesse dei curatori e degli interpreti.

Se a qualche pazzoide fosse venuto in mente di proporre in Italia una serie come Shameless – a parte che, se non già ampiamente conosciuto e sostenuto all’interno dei network, si sarebbe visto il progetto sparire nel nulla siderale  prima dell’inevitabile negazione – gli avrebbero senz’altro chiesto come elaborare le storie verticali (che riguardano, per farla breve, le vicende episodiche) e le storie orizzontali (che, per farla ancora più breve, riguardano tutta la linea narrativa del serial) e servirebbero, nel contesto generale a cui è diretto il racconto visivo, a codificare il prodotto.
   In Shameless le linee narrative sono talmente tante e  incastrate tra loro che, parallelamente all’intrico di queste, c’è un’unica storia orizzontale che non abbandona mai veramente la vicenda dalla prima all’ultima stagione.
   Nella tradizione di denuncia che deriva addirittura da Strada sbarrata (film diretto nel 1937 da William Wyler con un Humphrey Bogart non ancora divenuto una vera star) sulla trasformazione dei quartieri poveri nelle metropoli – tema poi affrontato in decine di film, serie e incisivi documentari – la paura in cui vivono gli abitanti della periferia di Chicago è che l’amministrazione cittadina e la lobby dei palazzinari decidano di “riabilitarla” mutandone la destinazione sociale.
   Se infatti il ghetto è sinonimo di degrado in Shameless il South Side è anche fuori dal ghetto come luogo negativo e intossicante. Tra il ghetto e il centro di Chicago c’è un territorio franco dove si può vivere anche con poco, installare un’esistenza decente e serena, crescere conoscendo una libertà che il sistema cerca di distruggere a poco a poco.
   Perciò, quando arriva un locale Starbuck, o una coppia di lesbiche della borghesia imprenditoriale che lavora in centro si stabilisce in una villetta e la ristruttura a sua misura, significa che gli affitti aumenteranno, le case di proprietà saranno richieste a prezzi altissimi per potersi liberare degli abitanti attuali. E infine la popolazione dell’intero quartiere sarà costretta a spostarsi in un ghetto peggiore.
   È una storia che ha condizionato anche la collocazione urbana delle etnie e inasprito i contrasti tra mafie e bande in una realtà ben documentata che ormai tocca anche almeno tre o quattro città italiane.

   “Qui prima c’erano gli ebrei, poi sono arrivati gli italiani, ma li hanno cacciati e ci hanno messo i neri che poi sono stati mandati più lontano; e adesso ci stanno i portoricani, ma la mafia russa vuole il territorio perché qui si spaccia bene” dice il vecchio proprietario dell’Alibi riferendosi, nel marasma senile, al quartiere del centro di Chicago dove ha trascorso la sua giovinezza.

  In Shameless, dove di tale contrasti si parla molto ma in pratica esiste anche una forma di assimilazione tra poveri di tutte le provenienze, i Milkovich vanno a sparare contro il primo Starbuck che viene costruito, i Gallagher si limitano a fare dispetti feroci alle due borghesucce.
   Ma non basta.
   In Shameless anche chi vince (come Fiona che avrà diverse avventure lavorative e immobiliari parallele a diverse storie d’amore) alla fine potrebbe perdere o perdere credendo di aver vinto.
   Per cui, nelle ultime puntate, l’Alibi verrà venduto?  La maggior parte dei proprietari venderà casa nell’effimera speranza di trasferirsi in aggregati migliori? Chi nel South Side è vissuto decentemente per tutta la vita se ne dovrà andare?
   La sequenza finale, insieme spietata e divertita, adeguata alla colonna sonora indie che parte dai titoli di testa, darà una risposta in cui s’adombra l’ombra della disoccupazione, diminuzione dei salari, estromissione delle pensioni, chiusura degli ospizi, nuove leggi delimitanti per gli ospedali e i malati.

   E, in Shameless,  nemmeno il Medicaid e il MediCare di Obama funziona adeguatamente per i Miserabili del ventunesimo secolo.

    Quest’ultima considerazione, che trapela impietosa nella ricerca di sostegno in cui tutti i protagonisti si imbattono prima o poi, porta alla domanda se Shameless appartenga a quelle opere, concepite e realizzate nel nuovo millennio, le quali rappresentano un mondo di cui non conosciamo il futuro e di certo nemmeno troppo il presente di ogni giorno.
   La nostra risposta è che, intanto – per quanto certamente si sarà parlato di sequel, prequel, spin-off eccetera  – si tratta di un’opera unica che, non appartenendo a un solo tipo o genere, può essere definito prodotto di  metagenere usando un termine che a qualcuno potrà sembrare difficile poiché poco usuale.
   In parole povere Shameless rappresenta tanti aspetti insieme che, nel presente, sono una rarità. Ma, nel futuro prossimo venturo, potrebbe diventare una chiave di lettura, importante se non essenziale,  per la società di oggi, domani, dopodomani.

   E, se in Shameless c’è tanto sesso, non è solo per creare situazioni stuzzicanti e travolgenti.

   Il sesso c’è – è sempre presente, dalla culla alla tomba – perché è l’unica certezza del sentirsi umani e vivi.   

   Anche a pagamento è l’unico aspetto che si può certamente condividere senza vergogna in uno stato di estasi reciproca e compartecipe.
    È tutto ciò, il sesso, che potrà rimanere se il South Side sparirà e arriveranno le tasse spropositate, le ztl, il lusso che solo i privilegiati possono permettersi.

    A tratti, su temi come questo su cui si sono pur esercitate tante tesi, Shameless, per chi lo conosce e lo ama,  sembra uscire dai romanzi di Henry Miller, raccontarne le premonizioni e la fuga verso la libertà dall’assoluto descritte dal grande e inimitabile autore fin dagli anni Trenta.

   Come prodotto seriale non è immune da difetti dovuti alle diverse mani dei registi e degli sceneggiatori delle puntate.

   Si parla appunto di puntate e non di episodi perché è impossibile seguire Shameless senza sapere bene cosa è successo dalla prima stagione in poi.
    Ma, proprio perché diventa allora essenziale rispettare la congruenza, a tratti i toni satirici si enfatizzano eccessivamente. In certe situazioni non si scappa alla ripetitività.

    Ciò si può notare nelle disavventure di Veronica e Kev che talvolta sfuggono al senso della commedia satirica per divenire pura ricerca del particolare comico e perdono di mordente.
    Allo stesso modo i turbamenti di passaggio di Debbie esonerano dalla narrazione tipica di Shameless  per divenire troppo simili a quelli di un’adolescente qualsiasi.
    Troverete poi sulla rete le numerose incongruenze in cui cade necessariamente un prodotto dove gli attori devono adempiere a precedenti impegni e possono uscire e rientrare nella storia non proprio al momento opportuno; il curatore si distrae;  certi temi e certe vicende, messe in risalto ad un certo punto, vengono abbandonate o perdono di peso
    Attendo le notizie che, su You Tube, ci fornirà Simone Fini, provetto esaminatore dei problemi produttivi per la “gioventù passata davanti al tubo catodico”.

    Intanto, una volta ogni vent’anni, per un gioiello qual è Shameless, opera che ha sfondato ogni barriera del politicamente corretto e ha battuto in realismo tante serie antagoniste facendole sembrare anacronistiche, possiamo chiedere indulgenza.
  Fate amicizia con i ragazzi Gallagher, passate anche voi le serate con Fiona, vi daranno divertimento, commozione, apprensione e stranito turbamento, soprattutto la sensazione che tutti possiamo batterci come loro per il nostro giusto pezzo di vita.


         

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