Nella seconda metà del XV secolo il carnevale a Firenze si celebrava per le strade, con grande allegria e concorso di popolo, in un misto di buffonate, scherzi osceni, filastrocche sboccate, mascherate varie e talvolta con un micidiale tiro al bersaglio fra bande di quartieri rivali, che fra sassate e lanci di fionda, lasciava sul terreno parecchi feriti gravi e spesso persino qualche morto.

I ragazzini non si facevano scrupoli a estorcere denaro ai passanti, molestandoli dalle finestre con lunghe pertiche di legno in cima alle quali era posto un sacchetto per la raccolta delle monete.

In concomitanza però con l’affermazione in città della figura carismatica di fra Girolamo Savonarola, priore del Convento domenicano di San Marco noto per le sue prediche infuocate che attiravano migliaia di ascoltatori, questa occasione di fare baldoria iniziò a essere considerata alla stregua di un’ignobile festa pagana, di cui il demonio si serviva per fare incetta di anime.

Così i “piagnoni”, come venivano chiamati i sostenitori di fra Girolamo abituati a scoppiare in lacrime all’ascolto degli ammonimenti del loro idolo, con la copertura politica del gonfaloniere di giustizia della Signoria e del Consiglio degli Otto, imposero un severo regime penitenziale a quella città solitamente gaudente e spensierata.

Per farlo, non esitarono a ricorrere all’aiuto di quelle stesse bande di ragazzini che fino a pochi anni prima, in occasione del carnevale, si erano divertiti a crepapelle.

A quei “figliuolini” di età compresa fra i dodici ed i vent’anni circa, fra Girolamo e il suo braccio destro Domenico da Pescia si rivolsero ordinando: “Se avete alchuna fede, alchuna pietà et alchuno desiderio delle magne gratie a voi repromesse, purgate tucto el contado, tucte le ville, tucte le case fuori di Firenze, come innanzi la Quadragesima (cioè: la Quaresima) purgaste epsa città, da qualunque istrumento di gioco e da tucte le disoneste o vane picture et sculpture et altre simili cose inutili, vane e lascive”.

Quelle bande di ragazzini, infervorati dalle parole del loro ispiratore, all’avvicinarsi della Quaresima del 1497 si riversarono dunque per le strade di Firenze e del contado per fare incetta, con le buone o con le cattive maniere, degli oggetti considerati sacrileghi soltanto perché suscettibili di provocare piacere o divertimento a chi li possedesse.

Di conseguenza, al costo di prendere a sputi o bastonate tutti quanti a loro giudizio non si conformavano al generale clima penitenziale reclamato da fra Girolamo Savonarola, raccolsero in pochi giorni una montagna di carte da gioco, dadi, specchi, scacchi, cosmetici, parrucche, fermagli per i capelli, boccette di “odori lascivi” e abiti eleganti, ma anche di preziosi dipinti dai soggetti pagani, sculture, strumenti musicali, tessuti pregiati e libri considerati “sporchi” solo perché scritti dai grandi autori classici greci e latini.

Al culmine di tanto parossismo, il 7 febbraio di quell’anno, primo giorno di Quaresima, nel bel mezzo di piazza della Signoria fu organizzato il “falò delle vanità”, un lugubre rogo sul quale andarono in fumo, oltre a tutto il resto, centinaia di opere d’arte dal valore inestimabile, compresi libri preziosissimi quali le prime edizioni a caratteri mobili dell’Eneide, quadri del Ghirlandaio, Botticelli e Perugino e tanti altri maestri del Rinascimento.

In cima a quella mostruosa piramide fu collocata un’immagine del demonio, che andò in fumo insieme a tutto il resto, fra i canti di quegli esaltati spettatori.

Tanta furia iconoclasta non restò senza conseguenze. I “compagnacci” infatti, cioè i sempre più numerosi avversari dei “piagnoni”, che già da tempo non sopportavano più quell’aria mefitica, dopo aver assistito inorriditi a un simile scempio, passarono all’azione.

In un primo tempo si ricorse alla diffusione sempre più frequente di “frottole” consistenti nell’affissione in punti strategici delle strade o alle porte delle principali chiese cittadine di filastrocche ingiuriose, dove si additavano i sostenitori del frate come un branco di creduloni superstiziosi, una massa di “donnicciole” facilmente incantabili dalle trame di quell’impostore a sua volta tacciato d’essere un “sodomita” per la frequentazione di quei ragazzini.

La durezza delle sue prediche quaresimali, di poco successive a quel rogo sciagurato, finì poi col rinsaldare le varie frange dell’alleanza anti-savonaroliana raccoltasi attorno a papa Alessandro VI Borgia, anche lui mosso dal risentimento nei confronti del Savonarola.

La scomunica con cui Alessandro VI fulminò Savonarola a pochi mesi di distanza dal “falò delle vanità”, costituì dunque il primo passo della mesta processione che, nel maggio del 1498, avrebbe visto l’ormai reietto fraticello insieme a due suoi confratelli salire i gradini del patibolo.

Purtroppo per loro, ad andare in fumo questa volta sarebbe stato qualcosa di diverso dalle opere d’arte.

SAVONAROLA E I ROGHI DELLE OPERE D'ARTE



Fra Bartolomeo (1497), Museo di San Marco, Firenze


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