“L’autobiografia” di Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1977) raccontata da Gordiano Lupi.

Credo che nel mondo ci saranno ancora degli adolescenti che nella loro beata illusione ameranno la poesia con cuore forte. E allora vorrei che cercassero i miei versi, che amassero il mio oscuro tormento, così da trasformare una materia dolorosa in puro amore, in gioia.

Nasco a Perugia il 12 giugno del 1906, in via Mattioli, da Armando e Angela Antonione Satta, due ragazzi, se ci penso adesso, mio padre ha ventitré anni, gestisce un negozio, ma è portato al piacere di spendere denaro; mia madre venti, proviene dal Lazio e ha sangue sardo, responsabile d’un carattere deciso, come dimostra la luce brillante dei suoi occhi.
Un anno dopo nasce mio fratello Beniamino, così i miei si sposano e vengo legittimato, poi viene al mondo Elda e siamo nel Tredici, la famiglia è completa, cominciamo a vagare di casa in casa, tra litigi e tradimenti d’un genitore farfallone, poco oculato nei conti da gestire.
La guerra mondiale trascina il matrimonio dei miei nello sconforto d’un padre che torna a casa malato di sifilide e d’una madre in fuga da Perugia, verso Pesaro. Resto insieme a Beniamino in casa con zia Emma, sorella di mia madre.

Sono un bambino malaticcio e debole, anemico, soffro di bronchite, mi curo al mare d’estate a Porto San Giorgio, vicino a Pesaro, dove vive mia madre, che quando compio sedici anni va a vivere a Roma. Addio vacanze di mare, ci tornerò da grande, adolescenza perduta e mai troppo rimpianta.
Avigliano è la meta dei miei giorni festivi, la casa del nonno e degli zii paterni, dove comincio una relazione da amica e confidente con la cugina Agnese, che frequenta il liceo scientifico di Perugia. Quintilio è il cugino protagonista di Un giorno in campagna, uno dei primi racconti che scrivo, il primo amore adolescenziale, mentre di me era innamorata mia cugina e io non la filavo proprio, non mi piaceva, avevo già capito che i ragazzi sarebbero stati la passione della vita.
Frequento l’Istituto Tecnico Commerciale Vittorio Emanuele II, a Perugia, forse non è la scuola più adatta per il mio temperamento di poeta, di ragazzo incline alle malinconie. Siamo nel 1922, vivo in via Vermiglioli, al numero 5 d’una casa nuova, dove scrivo la prima poesia e la spedisco a mia madre che se n’è andata a Roma, ché scrivo di lei, di altre donne non potrei. Alla mia cara madre sull’imbrunire, quando provo tanta nostalgia della sua presenza, quando mi sento solo e non vorrei, quando piango di nascosto e comincio a tenere un diario su larghi fogli dove confido a un blocco di carta piccoli dolori che sento grandi.

Tante malattie sono legate al ricordo della mia adolescenza: pleurite e mal di testa, febbre serale, al punto che per un po’ mi assento da scuola, vado da mia madre a Porto Sant’Elpidio, poi a Roma, infine torno a Perugia dove scrivo la mia seconda poesia (un sonetto, La morte del poeta) e riprendo la scuola fino a diplomarmi ragioniere. Ma il mio vero mestiere non esiste, son poeta, se solo fosse possibile campare scrivendo cose come La stazionetta (che ripudio), Voglio il mio canto, Chiuso nella mia camera, io sogno… leggo il Leopardi dello Zibaldone e dei Grandi Idilli, il primo D’Annunzio e il Carducci dei libri di scuola.
Ho diciannove anni quando conosco Acruto Vitali e, grazie a lui, Proust e Rimbaud, ma è forse il primo amico cui confido le mie tendenze sessuali, mentre a Perugia passeggiavo con ragazzine che s’innamoravano di me ed era imbarazzante.
Capisco d’esser fatto per l’eccezione, non per la regola, vivere in una gaia stranezza, abbandonarmi a idee e sentimenti senza restrizioni, tra alti e bassi d’umore, sensazioni sconfortanti, nel dubbio sull’essere. Tutte cose che riporto nel diario che ho ripreso a scrivere e in poesie come C’è ora nel mio cuore adolescente.
Ventidue anni e riscrivo L’estate donò tutto il suo sole, leggo Rimbaud e Jack London, Leopardi e Saint-Beuve, Gide, Crevel, Bloy e altri moderni, mi lascio prendere dai dubbi angosciosi di Mallarmé, la poesia permea di sé tutta la mia vita, anche se per vivere mando avanti un negozio.

Per me far poesia è dire quel che sento: tutto qui, e basta. In alternanza tra allegria e tristezza. E innamorarsi, purtroppo, fa parte dell’amore, come succede con un ragazzo a Roma, ma fuggo via atterrito da una cosa che mi prende troppo e mi trascina in un baratro infinito.
Torno al mare con l’amico Acruto, a Porto San Giorgio, vita da spiaggia, dedito a una poesia gocciolante di viva passione, grezza di tutte le scorie che ne attestano la presenza. Voglio scrivere nel momento in cui il senso è padrone della mia persona, come quando annoto sul bordo d’un giornale che la vita è ricordasi d’un risveglio. Sensazione, la chiamo, non è la mia prima poesia, ma è la prima che riconosco come mia. Scoppia dirompente l’amore per Ernesto, quindicenne di Trastevere, ebreo romano, conosciuto in tram e a lungo frequentato, pur se così diverso, così distante da un mondo di letteratura e poesia, un amore a senso unico, impossibile, pieno zeppo di lettere scritte e mai spedite. Un amore finito senza esser cominciato, resta solo il ricordo d’un ragazzo morto in un campo di concentramento, massacrato insieme al fratello dalla follia nazista.
Fuga dall’amore, come faceva Gide, per me il legame stringe e non va bene, amo l’avventura, non il rapporto duraturo, ma con Ernesto ho rischiato molto ed era amore. E vorrei scriverci un romanzo, su tutto questo fiorire di passioni. Il romanzo d’un ventitreenne che finge oggettività autobiografica, che cerca di dare un senso vivo alla gioia passata, che ricompone il tutto nella disfatta finale per l’amore.

Perugia mi sta stretta, ormai, basta l’atmosfera di questa città dove ho vissuto a congelare ogni mia bella e folle decisione. Beniamino è andato a Roma dalla mamma, io son qui che mando avanti il negozio, ma con mio padre non va per niente bene, mi caccia di casa, mi accusa di aver rubato del denaro. Mi rifugio nei libri, nella poesia: Pascoli, Proust, Svevo, Soldati, Comisso… in cerca di affinità almeno letterarie.
Alla fine decido di andare a Roma da mia madre, con fratello e sorella, in via Caio Mario, dove vivo grazie agli investimenti oculati della mamma, ma pure con lei litigo, ché mi rimprovera di fare vita oziosa. E allora mi metto a fare il contabile per zia Bice, di malavoglia, chiaro, amo molto di più la vita romana, le corse dei cavalli, le osterie, i cinema, le latterie del corso. Trovo anche un impiego da segnalibro presso un allibratore, alle Capannelle, ché le corse sono un vizio di famiglia, qualcosa che ci lega tutti insieme.
Indago sulla mia vita, scrivo una sorta di relazione su me stesso, su quel che sono, sulle malattie che mi hanno afflitto, sulla timidezza, sull’insonnia e sull’omosessualità – ho il coraggio di affrontare la parola – che non sento come qualcosa di perverso, ché l’inversione sta solo nell’oggetto dell’amore, io amo con lo stesso sentimento e desiderio che un uomo sente per la donna.
Leggo Gli indifferenti e mi sembra d’esser Michele, il personaggio di Moravia, mentre vago per una Roma che mi appare noiosa e indifferente.

Un bel giorno prendo il coraggio a due mani, raccolgo un po’ di poesie e le mando a Umberto Saba, a Porto San Giorgio presso la sua libreria antiquaria, lui è il poeta che sento più vicino. Mi firmo Bino Antonione, per pudore. La risposta non è del tutto buona, ma sincera, mi dice che Sensazione gli è piaciuta, il resto meno, ma ho diritto a scriver versi, devo resistere alla vita, provare un disperato dolore, insistere ancora, migliorare.
E io vado avanti, scrivo, non poemetti ma poesie più brevi come Nel fresco orinatoio alla stazione, una poesia casta scritta a Recanati, dopo aver visitato la casa di Leopardi, per raggiungere il treno che passa sulla costa. Scrivo anche altro mentre leggo Rimbaud (un Leopardi più felice e sensuale), Gide, D’Annunzio e Cardarelli, scrivo Nel sonno incerto sogno ancora un poco e Se la notte d’estate cede un poco.
Far poesia di tutto, vedermi vivere più che vivere, anche se son contabile per un’azienda edile, vago per la città e annoto sensazioni, faccio audaci programmi di rigenerazione. Far rinascere la mia poesia, conservarla nel ricordo di amori passati, anche di Ernesto, che rivedo, pur se tutto crolla come un’illusione estrema.
Leggo il De Sanctis e la sua storia della letteratura, poi la psicanalisi di Freud, che mi convince a farmi vedere da un analista per capire un carattere così complesso e ambiguo. Per fortuna che c’è il mio amico Acruto, ogni tanto scrive da Milano, con lui mi posso sempre confidare, tormentato dall’insonnia e dal dolore, pensando che quando si è così, come me, passata la prima giovinezza si dovrebbe morire. Non c’è altro da fare al mondo se non soffrire. Per guarire le pene d’amore dovrei fuggire da tutto, dovrei fuggire da me stesso. Assistito da Nietzsche e da Hölderlin mi immedesimo in troppi personaggi che ricordano la mia vita e soffro, mentre ritrovo il sonno in Val d’Aosta, a Cogne, dove faccio lunghe passeggiate estive.

Scrivo Autunno mentre passo da Torino, estasiato dal Valentino e dalle geometrie urbane che conducono alla Mole Antonelliana. A Milano resto il tempo per rivedere Acruto, poi torno a Roma, alle usate cose, a quel lavoro che non mi fa dormire e mi conduce verso la depressione. Torna pure mio padre, viene a lavorare a Roma nelle Gallerie Spinelli, per me non è una buona notizia, il rapporto non è mica migliorato; neppure con mia madre le cose vanno bene, mi rimprovera di spendere in bagordi e di condurre una vita da vizioso.
Non sto bene di salute, crisi cardiache e insonnia, scrivo Le nere scale della mia taverna, poi Inaugurazione della primavera, vado in vacanza a Rocegno per passeggiare e riuscire un po’ a dormire, ma quando torno a Roma perdo il lavoro, ché la ditta fallisce.

Nella mia vita entra Giulietto, un nuovo amore che dura solo poche settimane, in compenso Saba accetta di conoscermi, vuole incontrarmi, leggere le mie poesie, tutto questo grazie a Weiss, il mio analista. Una passeggiata in centro, non altro il nostro incontro, Saba ha fretta di tornarsene a Trieste, vinto dalla timidezza non riesco neppure a confessare d’essere Bino Antonione, autore di Sensazione e altre liriche, spedite per posta tre anni prima. Alla fine riesco a intonare qualche verso proprio di quella poesia, lo faccio al Caffè Italia, in piazza Barberini, quando Saba mi fissa, attonito e felice, convinto di aver trovato un poeta vero. Il suo abbraccio è una delle cose più belle della mia vita, anche perché è seguito dal sostegno d’un grande letterato che per me telegrafa a Pavolini de L’Italia letteraria e a Carocci di Solaria. Saba vuole che vada a Firenze e che conosca i poeti del Caffè delle Giubbe Rosse, oltre a spedire i miei lavori a Trieste presso la sua libreria antiquaria. Il poeta mi spinge a trovarmi un’attività pratica, perché la poesia verrà come reazione all’improvviso, ché la mia lirica è spontanea, non è oscura ma comprensibile e chiara.
L’approvazione di Saba mi conforta, mi fa star bene, come vedere due mie poesie pubblicate in prima pagina da L’Italia Letteraria, come conoscere Palazzeschi, Betocchi, Moretti, Pavese e Montale. L’amicizia di Montale mi onora, lui è dentro la critica italiana, mi chiama con nomignoli – Piuma e Piumetto, Pennino e Piumino –-, mi consiglia di mandare poesie per un’antologia che Falqui sta facendo. Intanto mi pubblica Solaria, sono due le poesie che vedo tra quelle pagine importanti: Favola e Falsa primavera. Scrivo recensioni su L’Italia Letteraria, anche su Alfonso Gatto che pubblica il suo primo libro (Isola), ma son contento che molti mi considerino un autore, soprattutto Saba che mi scrive ancora da Trieste. Lui parla di piccolo miracolo, dice che son poeta di pochi versi e che non scriverò mai molto, ma è la mia forza, così come Montale dice d’amare la mia poesia ingenua e poco complicata, non per quel che dico ma per come lo dico, per la poesia in sé che si nasconde in mezzo alle parole.

Ungaretti scrive una lettera di lodi e Montale mi pare un po’ geloso, ché tra loro non corre buon sangue, me lo fa capire, teme che il bardo possa carpire la mia amicizia e allontanarmi da lui. Montale è il mio scopritore – non dimentico Saba, questo è chiaro – e vorrebbe far pubblicare le poesie, una selezione, ma servirebbe una partecipazione per le spese, stampare costa, magari far prevendita con la libreria di Saba, cercare acquirenti per poche copie e recuperare le spese.
Io non ho un lavoro e quello cerco, con tutto me stesso, pure se mia madre dice che sono un perdigiorno, un vagabondo, uno che sa soltanto oziare. So pure scrivere, aggiungo, ma a lei che cosa importa? Non serve a portare soldi a casa, non mi pagano neppure per le recensioni, per quella mia critica malfatta che in fondo non è mica il mio mestiere.

Montale mi invita a partecipare a qualche premio, magari a certi dove conosce i presidenti di giuria, ma non lo faccio, temo di mettermi in gioco, non amo competere e rischiare la sconfitta. E poi Montale me lo dice chiaro che non posso vincere dei premi con certe poesie che parlano di fanciulli nudi, le giurie non sono preparate e la censura sta sempre in agguato, sul chi vive.
Alla fine partecipo al Fattore, Montale non lo sa neppure, ma quando vede che ho mandato l’Apologo non è d’accordo, non è da concorso, dice, forse nel libro che sta pianificando piacerà di più. E infatti non vinco niente, neppure entro in finale.
Intanto si sposa mia sorella Elda con Flaminio Coppotelli e insieme restano ad abitare al 19 di via Cantore con tutta la famiglia, io per l’estate vado a Porto San Giorgio, tra campagna e mare, dove rivedo Acruto, il mio eterno amico; conosco pure Baldo, uno dei miei giovinetti, un suonatore d’organo che metterò in certe poesie senza citarlo.
Poesia ne scrivo ancora, scorre tra le mie dita in punta di penna, si fa largo con le rime di Al davanzale, Ritorno dell’amico, Già mi parla l’autunno, Scuola, Sera nel giardino… Sono anni difficili, ho quasi trent’anni e son senza lavoro, le poesie passano di mano in mano, ognuno dice la sua, per Saba dovrei toglier certi versi, per Montale altri, ma in fondo chi decide son io, tutto quel che scrivo fa parte della mia personalità. E che la follia del dubbio resti tale.

Passo un periodo di grande smarrimento, non ho soldi, me ne voglio andare via da Roma dove non ho un lavoro, penso a Trieste, da Saba, dove spero di potermelo trovare. Resto in casa di Umberto per una settimana, bene accolto da Lina e da Linuccia, rimetto in ordine la libreria antiquaria, ma poi non trovo niente, nonostante le raccomandazioni.
Parto per Milano, dopo aver lasciato a Saba una raccolta di poesie dattiloscritte, che il poeta stampa e offre a qualche amico raccogliendo poche lire che mi spedisce con assegno. Milano è via Keplero, casa di mio zio Luigi Antonione, qui rivedo Acruto che mi aiuta a cercare un’occupazione che non trovo.
Sono un’anima in pena, torno a Trieste, resto da Saba un paio di mesi, trovo un impiego ma vengo licenziato perché non rispetto l’orario di lavoro. Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi, scrivo a Venezia, in quel museo all’aperto di orge all’alba, di un film veduto vent’anni dopo. Ancora Milano, dove Saba un poco mi mantiene con un piccolo assegno, trovo lavoro da Bompiani a corregger bozze, Acruto mi dà spesso le chiavi della sua casa per fugaci incontri, ma è un tempo di fame nera e di scoraggiamento. Solmi mi dice che vorrebbe pubblicare un mio libro nella collana di Letteratura, una rivista diretta da Bonsanti, ne parlo a Montale, confido i miei tormenti sul lavoro e sulle cose che non vanno. Lo so che non son capace di vivere bene la mia vita, che non so farmi valere, lo so caro Montale che non basta valere, bisogna esser furbi e aggressivi con chi cerca di farti scomparire.
Lascio il lavoro da Bompiani ma resto a Milano su consiglio di Saba, ché non posso fare il bohémien tutta la vita, tra l’altro non va più di moda, cerco un nuovo impiego anche se vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita.

Solmi mi aiuta nel progetto di pubblicare il libro, mi consiglia di stare attento alla censura e di togliere le poesie pericolose, mentre il mio vagare mi porta ancora a Roma da mia madre, poi a Firenze e a Milano per fare il commesso in libreria. Ho trentatré anni, sono ancora senza lavoro, scrivo racconti per L’Ambrosiano, liriche per Circoli che me le rifiuta perché la politica della rivista è rivolta ai pesi massimi della poesia, poi su Corrente e su Frontespizio. I guadagni dalle pubblicazioni son poca cosa anche se scrivo racconti per Oggi di Arrigo Benedetti, e allora torno a Roma dove rivedo mia madre che pare sempre più vecchia, sempre più malandata.
Viaggio in Ciociaria è la cronaca del mio tempo migliore, di quel tempo che forse è senza tempo, dove conosco ragazzi di campagna disposti per poco a far l’amore. Non c’è mia madre intorno, almeno questo, posso vagare indomito e sedere senza far niente, senza chi mi dice che son soltanto un perdigiorno.
Pochi giorni a Napoli, dove percorro solitario strade e vicoli, siedo alla Villa Comunale davanti al mare, contemplo nell’ora notturna le luci sul golfo e i lumi che fitti nel basso salgono verso l’alto diradando. Torno a Roma, di nuovo da mia madre, adesso in affitto, dopo che hanno espropriato la casa di famiglia di via Mole de’ Fiorentini.

Non ho neppure il tempo di gioire per la pubblicazione di Poesie, il mio primo libro che esce per Parenti, il 23 giugno del 1939. Trecentocinquanta copie, copertina verde, cinquantasette poesie, comincia con La vita è ricordarsi di un risveglio; in molti ne scrivono, quasi come per Le occasioni di Montale. Caretti, Barile, Solmi, Titta Rosa, Ferrara, Borlenghi, non è poco, tutti ne parlano, dicono che sono componimenti brevi ma felici, che hanno il dono d’una simpatia immediata nel lettore. Ma tutta la mia vita è provvisoria, sono precario, sono uno scontento, nonostante lettori ammirati, spesso illustri come De Pisis che mi scrive da Milano. Dice che sono il miglior poeta giovane della mia generazione, vorrebbe che andassi a fargli visita quando passo da Milano. Invece resto qui, insieme a mia madre, tra una burrasca e l’altra, tra un litigo e un’insofferenza, in una casa al quarto piano che scopre il Tevere se guardo in lontananza.
Fuori va meglio, tanto a casa litigo, poi non dormo, soffro sempre d’insonnia, incontro De Libero e Soldati, conosco la Morante, divento amico di Mafai e Della Chiesa. Metto su un’attività dal niente, consigliato da amici, compro libri antichi alle aste, poi li rivendo pure al doppio di quanto li ho acquistati e dopo poco metto da parte un piccolo capitale.

Son tempi tristi, è il 10 giugno del 1940, alla radio la voce di Mussolini gracchia che ha dichiarato guerra all’Inghilterra; non potranno venirne fuori che rovine. Vagabondare per Roma è quel che mi resta, dalle piazze affollate ai cinema, alle osterie, alle borgate, alle marrane, ai treni in corsa verso Ostia e il mare. Sono pagine nelle quali si muovono torme di ragazzi, incontri sporadici di sesso, creature diverse che colgo in un rapido istante, per un breve gesto. Materiale per racconti e poesia, quel che so fare.
Sono anni di guerra, tempi maledetti, pubblicare poesia certo non basta, la lira vale poco più di niente, non abbiamo soldi, comprare libri e rivenderli diventa complicato, mi metto a far commercio di vestiti, di generi alimentari e di oggetti.
Soddisfazioni ne arrivano, comunque, entro a far parte dell’antologia Lirici nuovi di Luciano Anceschi, edita da Hoepli, che pubblica nove poesie delle migliori. Non solo, anche La Ruota, Maestrale, Prospettive, Primato, l’almanacco Beltempo, redatto da De Libero, pubblicano le mie poesie e ne son contento, ma tutto questo non mi dà da vivere. Il dado di Maria Luisa Spaziani pubblica nel 1943 Sul molo il vento soffia forte, Un uomo camminava sulla via, Lumi del cimitero, non mi dite. Vittorini mi offre un buon lavoro come traduttore per quattro novelle di Merimée che mi frutta 4.500 lire, pubblicate da Einaudi dopo che le ha riviste Natalia Ginzburg. Conosco il francese e mi faccio un nome, al punto che mi chiedono di tradurre Paul Claudel per Olivetti di Ivrea, su incarico di Bobi Bazlen.

Torno a Perugia, dopo tanto tempo, quattordici anni che non la vedevo, qui resto tre giorni, compro prosciutti e pasta da rivendere, non provo nostalgia di Roma, solo amore, anche da lontano, mentre cerco l’antico amico fiume a Ponte San Giovanni, vago per la campagna, incurante della sirena d’allarme della guerra. Ripenso al bisogno d’amore e alla prima adolescenza mentre attraverso stupefatto la mia città natale.
Muore mio padre per un embolo che uccide, grande lavoratore era in società con la cognata Bice in una ditta di biancherie e porcellane. Armando, sepolto al Verano nella tomba che mia madre gli ha fatto costruire e che un giorno servirà per tutta la famiglia, ma non per me – lo posso anticipare – che non vorrò andarci. Non avevo un bel rapporto con mio padre, vado a trovarlo e su quella lapide scrivo La morte, una prosa che è tutta per lui, nonostante i litigi, nonostante le baruffe quotidiane.
È il 1944 quando molti dei miei amici lasciano Roma. Moravia e la Morante vanno a Fondi; Enzo Della Chiesa e Antonello Trombadori fanno la Resistenza. Io resto nella capitale e distribuisco per le vie di Roma manifestini partigiani senza capire quel che sto rischiando. Tra Campo de’ Fiori e San Lorenzo vago perduto tra morti e macerie, provo odio per i nazisti ma sono impotente di fronte a tanto orrore. Mi affaccio dal terrazzo di casa e vedo gli aerei che bombardano, fino al giorno che osservo finalmente i tedeschi in fuga. Soltanto allora mi fanno compassione, uomini anche loro, in fondo, non più alleati e neppure nemici, spenti e sfiniti soldati che scappano, destinati a tornarsene a casa, a una vita normale.

Nel dopoguerra esce La tomba del padre su Città, finisco nell’antologia dei Poeti lirici moderni e contemporanei raccolti per Le Monnier da De Robertis, Falqui mi fa uscire su Domenica e in Poesia, infine vengono alla luce su La Rassegna d’Italia anche le mie migliori prose, quel Viaggio in Ciociaria che tanto amo. Denaro sempre meno, purtroppo, cosa che mi accomuna a molti italiani in quel periodo, non sono libero dal bisogno, persino le riviste romane non pagano quel poco che servirebbe a vivere. Scrivo a Comisso che ammira così tanto le mie rime, gli dico di venire a Roma, adesso che la vita potrebbe anche essere bella, il fiume è pieno di gente, dal Ciriola persino si balla.
Le poesie escono un po’ ovunque, su antologie edite da Vallecchi o da Scheiwiller, su riviste, giornali letterari, ne parlo anche con la Ginzburg che vorrei stampare un altro libro, ma non so decidere cosa scegliere, cosa pubblicare.
Per racimolare del denaro continuo i commerci di vestiti e generi alimentari, pure gioielli, scarpe, abiti usati, saponi, orologi, macchine fotografiche, cannocchiali, qualunque cosa trovo da comprare e rivendere al mercato. Il commercio d’arte è un’altra cosa che m’invento per campare, quadri di Rosai venduti da Ungaretti, che pure lui non se la passa bene, poi compro da pittori amici qualche tela e la metto in vendita, disegni e acquerelli di autori niente male come Guttuso, Maccari, Gentilini, Afro e Tamburi. Qualcosa compro a poco prezzo, altro mi regalano, vado avanti vendendo opere d’arte a chi le può comprare e non sono molti in questi tempi grami.
Quel che c’è di bello a Roma sono gli incontri che puoi fare nei caffè degli artisti, conoscere Irving Penn, Carlo Levi, Palazzeschi, Flaiano e Brancati non è cosa impossibile, mi faccio fotografare un giorno insieme a loro. Botteghe oscure pubblica undici poesie tra le migliori, grazie a Brancati che cura l’edizione e a Margherita Caetani; discuto ancora con Solmi e Bazlen sul fatto di pubblicare un altro libro con Edizioni della Merdiana, ché qualche copia poi dovrei comprarla e di soldi non ne ho molti in tasca.

Nel 1949 Mario Pannunzio pare la mia ancora di salvezza, ché mi chiama a Il Mondo come collaboratore, promettendo compensi certi e sostanziosi. Ed ecco il libro fresco di stampa nel 1950, quando gli americani se ne sono andati, come dice la canzone; son trentasette poesie col titolo di Appunti e il mio profilo in quarta di copertina disegnato dal Tamburi. Felice chi è diverso, in apertura, sta ad ammonire una verità certa, ché solo chi è diverso davvero è felice, se invece è comune il castello di sogni non può che cadere. Ma non mi piace mica tanto questo libro, un po’ come il primo, mi pare non compiuto, povero, non del tutto mio, sia per la veste editoriale assai dimessa che per la scelta limitata delle poesie. Bigongiari ne scrive bene su Paragone, Pasolini su Il Popolo evoca Rimbaud ed è ammirato dai miei versi, forse il sentire è simile tra noi, ci comprendiamo.
Conosco Pier Paolo grazie a Elsa Morante, andiamo a cena insieme, vaghiamo per borgate, lungo le rive del Tevere, dove incontriamo una folla di ragazzi. Pasolini vorrebbe che di due libri ne facessi uno e che raccogliessi in un grande tomo tutta la mia opera, ma per il momento non ne faccio di niente. Continuo a scriver poesia, sempre cose brevi, memore del commento di Saba, il mio segno di stile, versi rapidi e sinceri, semplici e ficcanti, escono su tante riviste nei primi anni Cinquanta, persino in Francia e in Poeti del Novecento edito da Mondadori.
Carlo Betocchi mi fornirebbe l’occasione per pubblicare con Vallecchi tutte le poesie e mi pagherebbe cinquantamila lire, ma io rispondo in ritardo, pure un po’ svogliato. Pubblicare in fondo ho pubblicato.

Un altro libro lo faccio nel 1955 in poche copie numerate, con De Luca, corredato da acqueforti di Renzo Vespignani, narrativa, una volta tanto, Arrivo al mare, titolo che mi soddisfa in pieno. Trenta poesie marginali le affido a Scheiwiller, un libro minuscolo con la copertina gialla intitolato Una strana gioia di vivere, forse il libro più amato che piace tanto a Pasolini, critico entusiasta su Paragone; vince il premio Le Grazie a Firenze, giudicato ottimo da Gadda e Bigongiari che sono in giuria.
Mi ammalo di pielite, una fastidiosa infiammazione renale, ho un tasso altissimo di azotemia, soffro d’insonnia, dormo poco la notte, di solito vago per Roma, incontro amici, mi fermo in trattorie.

Un’estate che ricordo con dolcezza, incontro Raffaele, un ragazzino di quattordici anni che porto con me ad abitare; è orfano di padre, in fuga da casa a sei anni, non ha finito le scuole elementari. Provo a insegnargli a scrivere, mi fa da segretario, anche se mia madre lo guarda in cagnesco, non lo può soffrire, e Pier Paolo ci fa dell’ironia su quel ruolo insolito; ma la sua presenza fa parte della mia vita, solo Elsa Morante lo comprende.
Raffaele resta con me per molti anni, quando ha l’età per la patente compro una macchina, così ci andiamo a Ostia quando è stagione di mare e alle aste di quadri che si fanno a Firenze e Milano. La patente la prendo anch’io ma non amo guidare, mi piace che sia lui a condurre la macchina nuova.

Nel 1957, grazie a Pasolini, raccolgo per Garzanti tutte le poesie e ricevo anche un buon anticipo, dentro a quel libro chiamato semplicemente Poesie c’è il volume uscito per Parenti nel 1939, le liriche di Meridiana del 1950 e il libro di Scheiwiller del 1956. Non solo, pubblico pure cento poesie inedite composte negli ultimi vent’anni e anche qualcosa delle censurabili che avevamo escluso ai tempi del fascismo. Non ritocco niente di quel che è stato pubblicato, pure se mi rendo conto che qualcuna è goffa, mi sembrerebbe di ritoccare una foto giovanile, rischiando di sciupare tutto.
Che soddisfazione! Mi premiano al Viareggio insieme a Pasolini, lui per Le ceneri di Gramsci – poemetti politici, quello che proprio non so fare – io con le mie lievi follie, le mie stranezze. Molte polemiche sul premio, specie da destra piovono gli insulti, uno dei giurati teme di coprirsi di vergogna, ma De Robertis, Ungaretti, Debenedetti e Caproni son dalla nostra parte, anche se scoppia lo scandalo di Danilo Dolci e della sua Inchiesta a Palermo, premiato miglior saggio, da molti giudicato osceno. Un Viareggio che fa scandalo ma tutti parlano del mio libro, d’un poeta che non voleva far conoscere i suoi versi, della mia amicizia con Saba che viene narrata in un bel racconto da Giulia Massari; Il vecchio e il giovane è il titolo evocativo, che quasi mi commuove. Poesie mi fa conoscere nel mondo letterario ma l’edizione Garzanti non è il massimo, ché la carta scelta da Pasolini non mi piace, troppo ordinaria per poesie che non son comuni.
In quello stesso anno muore Saba, il mio padre poetico, colui che mi ha fatto pubblicare i primi versi e che ha scritto Parole, come lui stesso ha detto, dopo aver letto i miei componimenti, mosso dalla voglia di avere un corpus poetico di agile lettura che raccogliesse parte del suo mondo.

Siamo nel 1958 quando Giovanni Comisso mi propone di pubblicare un nuovo libro per Longanesi, una cosa diversa che raccolga tutto quel che non è stato inserito in Poesie di Garzanti. Non posso rifiutare, mi pagano cinquemila lire a poesia e ne ho bisogno, poi anche il mio ego lo richiede. Pasolini, che consulto sempre, sceglie ventisette poesie, io ne aggiungo quindici ma sono indeciso, chiedo consiglio a Moravia e alla Morante. Elsa è inflessibile, delle mie quindici ne salva solo una!
Editor di lusso Nico Naldini, cugino di Pier Paolo, pure lui giovane poeta, che collabora con Longanesi e produce una gradevole edizione in carta fiorata e dorso azzurro dal titolo Croce e delizia, composta di quarantatré poesie. Il mio nuovo libro esce a maggio, insieme a L’usignolo della chiesa cattolica di Pasolini e ad Alibi di Elsa Morante, così facciamo la presentazione tutti insieme, a Roma, in un’affollata Casina Valadier.

Continuo a esercitare tutti i mestieri dei grandi poveri, oltre a esser poeta non riesco ad avere un lavoro vero, un impiego ordinario, solo il commercio d’arte mi porta qualcosa per campare e gli articoli, le poesie, i racconti pagati dai giornali.
Elio Filippo Accrocca, nel 1960, mi descrive bene, mi fa un ritratto su misura, dopo una breve intervista, ma per la mia vita è bene che parli la poesia, la sola cosa che resta da salvare. Mi hanno definito un uomo intelligente e primitivo, perfido e candido, superegotista, innamorato di me e del mondo, un polinesiano capitato per caso e da perfetto estraneo in mezzo alla società cristiano-borghese d’Occidente. Forse è vero. Non son così bravo a giudicare, quello è compito dei critici, penso di aver detto quel che sono e quel che provo solo nei pochi versi che ho lasciato.
Nei primi anni Sessanta vado persino in televisione, ospite di Geno Pampaloni che sul secondo canale conversa con i poeti; m’intervista Stelio Mattioni; Paolo Poli recita miei versi a teatro; Raffaele Pisu li trasforma in abbozzi di canzoni per un programma della tele nazionale.

Muore mia madre nel 1965, cancro terminale, non supera l’ultima operazione. Tra noi le cose da tempo non vanno niente bene, non come dovrebbe tra madre e figlio, quando mi operarono alla vescica lei non si mosse da casa, non venne al San Camillo. Neppure io vado in ospedale, e quando muore non mi presento al funerale.
A dicembre dello stesso anno muore anche mia sorella Elda. Anni tristi, nonostante tutto, unica soddisfazione è la poesia, le parole di Edoardo Sanguineti che mi inserisce nella Poesia italiana del Novecento edita da Einaudi e mi definisce il miglior poeta epigrammatico della mia epoca.
Siamo nel 1969, divento oggetto di curiosità morbosa, vengono a riprendermi nella casa di via Mole de’ Fiorentini, mi chiedono di raccontare la mia vita in Umano troppo umano, io ci provo, recito pure qualche poesia ma non son bravo, non son mica un attore. Seduto sul letto, in mezzo alle mie carte, rispondo a domande sulla scrittura, di malavoglia, certo, anche se sono inviati della Televisione Svizzera e vogliono fare un film intitolato Vita come poesia. Vengo immortalato disteso sul mio letto, con la stufa elettrica accesa sopra la testa, sulle pareti dipinti di Mafai e di Schifano, nella stanza vicina riprendono anche Raffaele e un altro ragazzetto che se ne sta incantato.

Nel 1970 esce la mia opera completa per Garzanti, con la cura certosina di Enzo Siciliano e una nota critica di Pasolini, che confessa di aver fatto quasi un culto della mia poesia e che avrebbe voluto praticarla in modo più costante. In questo nuovo libro ci sono anche poesie giovanili ritrovate, che forse era meglio lasciar disperse, e altre scritte nel corso della vita, mai pubblicate.
Vinco il Premio Fiuggi, l’8 luglio, e vado a ritirarlo, tutti ne parlano sulle riviste letterarie: Bellezza, Bo, Raboni, Garboli, Rosselli, Ramat… Son sempre più solo e povero, a sessantacinque anni è faticoso continuare con i commerci d’arte, alcuni amici chiedono a Garzanti di darmi un piccolo stipendio. Ruggero Guarini su Paese Sera promuove una colletta dalla quale escono fuori tre milioni di lire, tanto affetto mi commuove, ma un po’ mi sdegno quando penso che in casa possiedo opere d’arte d’un valore tale che potrebbero farmi ricco. In ogni caso un’altra colletta la promuove Il Messaggero e persino il bar sotto casa appende una cassetta con sopra scritto Offerte a Sandro Penna.
Nel 1971, Piero Gelli, direttore editoriale di Garzanti, mi convince a dettare al magnetofono la mia autobiografia, dice che ci si possono fare dei bei soldi, ma io non dedico tempo a questa cosa, non mi convince, non mi fa star bene. Faccio un’autobiografia irregolare, ché non riesco a dire son nato a Perugia il giorno tal dei tali e via di seguito, ricordo le cose proprio come sono, disordinato e poco cosciente di quel che sono stato, in fondo nel solo modo che so fare.
Nel 1973 pubblico anche le prose con il titolo di Un po’ di febbre, ma non lo volevo fare, son cose scritte perché L’Ambrosiano mi pagava ottanta lire a pezzo; Garzanti alla fine ci mette dentro di tutto, anche piccoli appunti personali di cui mi vergogno ancora.
Subito dopo esce per Garzanti un nuovo Poesie, le poche liriche brevi che vorrei salvare, quelle che – al di fuori di qualsiasi critico – stimo più di tutte, insomma quelle che lascerei ai posteri se posteri esistessero. Ma quel cane di editore si dimentica una delle migliori: La vita… è ricordarsi di un risveglio, che avevo selezionato!

Non sto per niente bene, scrivo davvero poco, recupero poesie giovanili per la pittrice Cristiana Isoleri che nel 1975 le pubblica insieme ad acqueforti per Scheiwiller. Riemergono dalla nebbia del passato Chiuso nella mia camera, io sogno e Voglio, qui voglio il mio canto. L’Almanacco dello Specchio pubblica venti poesie scelte tra la produzione del passato, pesca tra le migliori, senza dubbio.
Non esco più di casa, la piorrea mi fa perdere i denti, ma dal dentista non ci vado, non mi va di mettermi dentiere. Cistite, nevralgie, insonnia, mi curo da solo, prendo il Nembutal che mi fa effetto, proprio quel farmaco che uccise Marylin Monroe.
Raffaele si vuole sposare, litighiamo spesso, son geloso, fino al giorno in cui lui va via di casa e mi abbandona, si porta via il mio amato cane lupo, l’ultimo affetto di questa triste vita. Se non ci fossero i vicini non potrei neppure comprar le medicine, ogni tanto viene mio nipote Paolo con la figlia Letizia, tra i letterati solo Natalia Ginzburg si fa vedere spesso. Vivo barricato in casa, la porta d’ingresso protetta da catene, la finestra con le imposte chiuse nella stanza dove passo giorni e notti, la lampada sempre accesa, la stufa elettrica sul letto.

Franco Angeli mi chiede di tradurre i versi dell’imperatore Adriano – Animula vagula, blandula – e ne scrivo la versione più volte in fogli che lascio su mucchi di panni e di carte che circondano il mio letto. Giorgio Devoto, editore genovese, mi chiede una poesia per gli ottant’anni di Montale, scelgo La festa verso l’imbrunire vado e gliela mando.
Cesare Garboli viene spesso da me con la sua giovane compagna Marina Cerato, mi convince a dargli un fascio di poesie inedite, un buon numero, al punto che gli viene l’idea di farne un nuovo libro che esce a novembre del 1976, con il titolo Stranezze, poesie che lui reputa divine, carnali, tra bene e male, ebbrezza e solitudine. Garboli ne tiene da parte una decina che usciranno nel 1984 in un libro intitolato Penna Papers.

La gioventù è finita, non resta che una calma tristezza nella mia vita e nella mia poesia, sono soltanto un vecchio che attende di morire. Premio Bagutta per le mie ultime centodiciannove poesie che comprendono anche liriche della giovinezza, pure se il critico forse non l’ha capito. Non ritiro il premio, non ce la faccio ad andare a Milano, sto troppo male. Ci vanno per me Garboli e la Ginzburg. In molti scrivono del libro, ma ormai che cosa importa?
Il 21 gennaio del 1977, mi trova Elio Pecora nelle prime ore della sera come addormentato nel mio letto, veniva spesso da me, sopportava anche le mie telefonate. Non sto dormendo, sono in un grande sogno terminale.
Prima Porta è l’ultimo rifugio, un cimitero tra campi, colline e greggi che ho scelto da tempo, confidandolo a mio nipote. Non la voglio la tomba di famiglia del Verano. La mia famiglia con me non ha avuto niente da spartire quand’ero vivo, che sia lo stesso da morto. Prima mi mettono in uno dei tanti corridoi, in un loculo alto, poi mi spostano in uno spazio solo mio, un’aiuola quadrata.
Nostalgia della vita in me riaffiora / e fa triste la tomba che mi onora. La mia poesia non è stata una tragedia, neppure la vita lo è stata, la sola tragedia la dicono le poesie, basta leggerle. Passano i giorni lieti / lieti di bella età. / Non passano i divieti alla felicità. Forse sono stato triste e deluso, ma solo qualche volta, e questi si chiamano dispiaceri, non certo tragedie.


Sandro Penna
Sandro Penna, 1974




(Di Gordiano Lupi, da Inkroci)






Di Inkroci

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