Se si comincia a studiare l’opera di Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina (1917-1988), con serietà e senza pregiudizi, ci si accorge che è limitativo definirlo un regista solo comico. Forse può essere addirittura considerato un autore importante, meritevole di un discorso approfondito.

Partiamo dagli inizi della sua carriera dietro la macchina da presa, gli anni dei film diretti insieme a Mario Monicelli. La coppia esordisce con “Al diavolo la celebrità”, variazione brillante sul mito di Faust, una commedia fantastica che anticipa quelli che saranno i temi preferiti dal regista. Nello stesso anno, in “Totò cerca casa” cominciano a fondersi il sociale del neorealismo con l’ironia e la farsa, dimostrazione che Steno aveva personalità e non era tipo da seguire la corrente.

Lo confermano i primi film diretti da solo, “Totò e le donne” (solo ufficialmente realizzato in coppia con Monicelli) e “Totò a colori”. L’astrazione dal reale che il regista sembra perseguire fin da subito corrisponde all’insofferenza dei suoi personaggi. Plasma un Totò furioso e ribelle, frammenta la linearità narrativa in episodi utilizzando l’escamotage del racconto che poi tornerà nel suo film forse più famoso, “Un americano a Roma”. Titolo imprescindibile perché sintetizza l’intera opera steniana. Costruito su un Sordi debordante, sembra il classico film in cui il regista si limita a seguire gli estri del suo protagonista.

 

È un errore però considerarlo in questa maniera, così come ritenerlo la prima commedia all’italiana L’equivoco nasce forse dal fatto che Sordi ne diverrà uno degli alfieri e, in ogni caso, è con ogni probabilità quello che paradossalmente conferisce a Steno lo status d’autore, perché in realtà proprio con “Un americano a Roma” Steno metaforizza il suo desiderio di andare oltre, di cercare ispirazione nei territori dell’avventura, dei generi all’americana, della farsa, del disimpegno più che nel sociale o nel reale, base comunque della commedia all’italiana. Il rapporto di Mericoni con il padre, che lo vorrebbe serio lavoratore, ne sono il simbolo.

D’altra parte, basta vedere come divergerà la carriera di Steno da quella degli altri registi che in quegli anni apriranno la strada al genere più longevo del nostro cinema: Risi, Monicelli, Comencini. Mentre Comencini, dopo “Pane, amore e fantasia”, gira “La finestra sul luna park” e poi “Tutti a casa”, mentre Risi dopo “Poveri ma belli” continua con la commedia di costume (“Il mattatore”, “Il vedovo”) e poi gira “Un amore a Roma” e “Una vita difficile”, mentre Monicelli, dopo il sodalizio con Steno gira “Proibito” e nel 1959 vince a Cannes con “La grande guerra”, Steno si dà alla farsa più sfrenata e alla parodia.

 

Di “Totò, Eva e il pennello proibito” fa addirittura il manifesto teorico del suo cinema, con la figura del copista Scorcelletti che difende rabbiosamente la dignità del proprio lavoro (“Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile”), anche e soprattutto contro il committente che lo sottovaluta. In questa difesa del prodotto “basso”, del mestiere e dell’artigianato, vi è la stessa guerra contro il mondo, a volte disperata, che muove i personaggi steniani; nel voler praticare la parodia e il cinema di genere c’è la stessa ossessione, la stessa fissazione che anima i suoi personaggi.

Steno, pur firmando pellicole di successo, è sempre stato un po’ emarginato dall’intellighenzia artistica che guardava con diffidenza i suoi film di consumo, d’evasione. Eppure ha continuato per la propria strada, e in ogni film ha anticipato quello successivo. I ritorni dello stesso tema e i rifacimenti sono molteplici, a dimostrazione di un percorso creativo e artistico consapevole, affatto casuale o dettato dalle mode. In ogni suo film c’è un qualcosa di bizzarro, di grottesco, di visionario, di surreale, che non solo rende difficoltoso definirlo “soltanto” un regista comico, non solo dimostra il suo estro non comune e la sua fantasia anche visiva, ma rappresenta un filo rosso che unisce ogni suo titolo, e persino il mistero di un regista che aveva una matrice certamente diversa da quella puramente farsesca, come a prima vista potrebbe sembrare, e che sceglieva la comicità per poter sviscerare una creatività che oseremmo definire gotica, dunque non certo puramente comica.

 

Se dovessimo mettere una dietro l’altra alcune immagini o sequenze steniane e le unissimo alle parodie che sono in toto film bizzarri e/o surreali, avremmo infatti il finto cadavere che si anima in “Totò cerca casa”, i romanzi gialli in “Totò e le donne”, la maschera decadente e vampiresca di Za L’Amour in “Cinema d’altri tempi”, l’ombra di Vanzino col ditino arcuato in “Piccola posta”, il dito tagliato in “Mio figlio Nerone”, il personaggio con la maschera da scheletro nella buca del suggeritore in “Susanna tutta panna”, la tortura inflitta alla gemella che fa svenire anche l’altra in “I moschettieri del mare”, l’episodio dei fotoromanzi dell’orrore in “Totò contro i quattro”, i finti cadaveri in “Gli eroi del West”, il procedimento d’imbalsamazione ne “I gemelli del Texas”, vertici di visionarietà grottesca e crudele in “Amore all’italiana”, Trapanese che immagina di vendicarsi della moglie in “Il vichingo venuto dal Sud”, Pomeraro che fa il pitecantropo allo specchio in “L’uccello migratore”, il cadavere del gobbo in “Piedone lo sbirro”, le visioni del padrone che vede l’operaio ovunque in “Il padrone e l’operaio”, il domestico di Proietti nello scherzo a Manzotin in “Febbre da cavallo”, il giardiniere nell’episodio della candid-camera in “Tre tigri contro tre tigri”, il cadavere diventato una scultura in “Doppio delitto, Dottor Jekyll e gentile signora”, la parodia del regista horror in “Sballato, gasato, completamente fuso”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *