Siamo nell’antica Grecia. Gli intrepidi eroi guidati da Giasone sono impegnati nella ricerca del mitico vello d’oro. L’impresa non è facile, sul loro cammino si frappongono una serie di creature mostruose: l’Idra dalle sette teste, Talos, una gigantesca statua di bronzo che riprende vita al loro cospetto, e lo spettrale esercito di scheletri viventi generato dai denti della stessa Idra.

“Gli Argonauti” di Don Chaffey (Jason and the Argonauts, 1963) è, con ogni probabilità, il più bel film mitologico di tutti i tempi. Senza la magia di un uomo, però, gli impavidi guerrieri non sarebbero arrivati da nessuna parte.

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Quell’uomo si chiamava Raymond Frederick “Ray” Harryhausen.

Esistono passaggi che segnano per sempre la vita di una persona. Il tredicenne Ray (era nato a Los Angeles il 29 giugno 1920), in compagnia della zia entra in un cinema per assistere alla proiezione di King Kong. L’impatto emotivo è “devastante”, il ragazzo viene letteralmente rapito dalla magia degli effetti speciali che il grande Willis O’Brien ha elaborato per la pellicola. Si informa su tutto e comincia cercare una sua via costruendo dinosauri di argilla che anima in garage, davanti alla cinepresa 16mm appena comprata.

La sorte gli dà un piccolo aiuto: a scuola conosce la nipote di O’Brien che lo presenta al maestro. Durante la guerra realizza una serie di cortometraggi con protagonista Mamma Oca che gli valgono un incarico alla Warner (segnalato da Willis O’Brien che lo vuole al suo fianco) per il suo primo vero lavoro cinematografico: “Il Re dell’Africa” (“Mighty Joe Young”, 1949). Gli effetti speciali di questo film consegneranno ad O’Brien l’Oscar, ma quasi tutta l’animazione è opera di Harryhausen.

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La tecnica utilizzata per animare sullo schermo gli spaventosi dinosauri e le gigantesche scimmie del film aveva un nome preciso: “stop motion”. Il dinosauro da animare era un “modesto” pupazzo alto circa cinquanta centimetri con una sorta di scheletro snodabile di legno o di alluminio, ricoperto di lattice o gommapiuma. Il pupazzo veniva posto su un fondale e successivamente mosso, riprendendolo con una cinepresa fotogramma per fotogramma, fino a raggiungere l’impressione del movimento. Un’opera monumentale di abilità e di pazienza se si tiene presente che ogni secondo di pellicola è composto da 24 fotogrammi, ognuno dei quali doveva essere realizzato dopo impercettibili movimenti fatti a mano.

Le cose, già di per sé non facili, si complicavano ulteriormente quando era necessaria l’interazione con un attore. Sia ne “Il re dell’Africa” che nel successivo “Il risveglio del dinosauro” (The Beast from 20,000 Fathoms, 1953), Harryhausen adottò la tecnica dello Split Screen (successivamente ribattezzata Dynamation). L’attore girava la scena davanti a un fondale vuoto e, con un sistema di sovrapposizioni, il pupazzo veniva aggiunto alla scena stessa.

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Sull’onda del successo, Harryhausen firmò un nuovo contratto con la Columbia Pictures e partecipò a numerose pellicole di genere fantascientifico come “Il mostro dei mari” di Robert Gordon (It Came from Beneath the Sea, 1956), in cui realizzò una piovra a sei tentacoli che seminava il terrore nelle strade di San Francisco.

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Seguirono “La terra contro i dischi volanti“ di Fred Sears (Earth vs. the Flying Saucers, 1956) in cui elaborò l’immagine “definitiva” dei dischi volanti cinematografici; e “A 30 milioni di km dalla Terra“ di Nathan Juran (20 Million Miles to Earth, 1957), con una insolita location a Roma e un mostro venusiano che agiva avendo come sfondo il Colosseo.

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Nonostante queste digressioni nella fantascienza, Harryhausen si sentiva molto più portato per il fantasy avventuroso e, non appena gliene veniva data la possibilità, ritornava volentieri a questo genere che gli permetteva di creare e animare molte delle creature tratte dalle antiche mitologie. Da questo punto di vista, il suo “Il 7° viaggio di Sinbad“ (The 7th Voyage of Sinbad) sarà un’autentica miniera di creatività.
Sinbad il marinaio, figlio adottivo del califfo di Bagdad, per salvare la bella fidanzata miniaturizzata da un sortilegio dovrà lottare col Roc, uccello gigante a due teste, con il ciclope (simpaticissimo monocolo che si lecca i baffi, pregustando la carne umana), con un drago, con una ballerina-serpente a quattro braccia e con uno scheletro spadaccino. Una nota a margine: in questo film, per la prima volta i trucchi di Ray dovranno confrontarsi con il colore.

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Il successo del film è enorme ma non viene “sfruttato” adeguatamente. Harryhausen vuole lavorare sempre da solo. Per forza di cose ha bisogno di tempi lunghissimi per realizzare in maniera certosina i suoi effetti speciali. Nel 1960 arriva il non epocale “I Viaggi di Gulliver” (The Three Worlds of Gulliver); e nel 1961 realizza il granchio, l’ape e il calamaro gigante di “L’Isola Misteriosa”; prima di arrivare a quel film-capolavoro (“Gli Argonauti”), di cui abbiamo parlato all’inizio, e che segnò il culmine del genere e della carriera del maestro. Paradossalmente, il successo di pubblico non fu all’altezza della qualità del film e per Ray iniziò la china discendente.

THE 3 WORLDS OF GULLIVER, Kerwin Mathews, 1960.

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I dinosauri, suoi vecchi pupilli, di “Un milione di anni fa” (1966) e “La vendetta dei Gwangi” (1969) non suscitarono particolari interesse. Negli anni settanta tornò a lavorare a film mitologici. Il “Viaggio Fantastico di Sinbad” (1974) gli diede la possibilità di dar vita a nuove creature: centauri, chimere, l’Homunculus e una statua a sei braccia della dea Kalì. Furono gli ultimi fuochi; già nel successivo “Sinbad e l’Occhio della Tigre” un Harryhausen, ormai stanco, cita ad oltranza le creature dei suoi film precedenti.

Ci fu un estremo colpo di coda. Nel 1981, col beneficio dei 70 mm e del Dolby Stereo, Ray tentò un rilancio del cinema epico-mitologico partecipando a “Scontro di Titani” di Desmond Davis. Il gigantesco mostro marino Kraken, il cavallo alato Perseo, il perfido Calibos, uomo-demone, il cane a due teste Dioskilos e la terrificante e sibilante Medusa furono gli ultimi figli di Harryhausen, prima che la tecnologia digitale mandasse in pensione la stop motion e i suoi maestri.
Le considerazioni di Harryhausen furono amare, ma realistiche: “Ammiro davvero quel che sta succedendo nel campo del digitale, ma ricevo ancora moltissime lettere da fan che mi scrivono di preferire la vecchia tecnica perché ha più cuore, più carattere. Allora le creature erano figlie di un solo uomo, non di uno stuolo di anonimi programmatori. La stop motion aggiungeva ai film fantastici la sensazione che fossero un sogno, perché sapevi che non era reale. Per questo era affascinante”.

Hollywood si ricordò di lui nel 1992, consegnandogli l’Oscar alla carriera e, da qualche parte sulla Walk of Fame, c’è una stella che porta il suo nome. Dal 7 maggio del 2013, Ray non è più su questa Terra.

Se esiste un aldilà, già lo vedo che sta tirando le briglie del Roc, veleggiando sulle correnti della fantasia. Ci sono tante mani che applaudono il suo passaggio e tanti bimbi ormai invecchiati che lo guardano con occhi colmi di gratitudine. Non fermarti, Ray, fai un altro giro per tutti noi!

3 pensiero su “RAY HARRYHAUSEN, IL MODELLATORE DI SOGNI”
  1. Uomo d’altri tempi (intendendo questa espressione “in senso buono”), gran signore di un cinema che non esiste più. Chi volete che apprezzi oggi lo stop-motion (o dynamotion che dir si voglia)…? Curiosamente io, che non amo molto il fantasy (a parte la sword and sorcery tipo Howard), “di” Harryhasen preferisco i film di SF, come “Il risveglio del dinosauro”, “Il mostro dei mari”, “La terra contro i dischi volanti”, e soprattutto il delizioso “A 30 milioni di km dalla terra” (che, se ci pensa bene, è uno dei due soli film di Sci-Fi degli anni ’50 ad essere ambientato almeno in parte a Roma: l’altro è il parodistico “Totò nella Luna”).

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