Nel 1961 a Torino, la mia città, c’era una grande aspettativa perché ferveva la preparazione delle manifestazioni per i cent’anni dell’Unità d’Italia. L’evento  si chiamò “Italia ‘61”.
Io avevo 16 anni, la mia scuola organizzò per noi la visita a ”Italia 61”, che occupava un intero quartiere costruito per l’occasione. Ci si spostava con una monorotaia sopraelevata e con bus a due piani. Era stata costruita una ovovia che superava il Po e arrivava a Cavoretto.

 

 

Ciò che più mi colpì fu il Palazzo del lavoro disegnato e costruito dall’ingegner Pier Luigi Nervi.

 

Gli edifici pubblici prima di “Italia ‘61”

Ero abituata a edifici pubblici massicci e pesanti, molto ornati, scuri, neri.

Le chiese che frequentavo a Torino erano così. Molte erano barocche come la “Consolata”, erano state costruite nel Seicento e nel Settecento.  La “Chiesa della Madonna della Salute” di Borgo Vittoria, dove avevo vissuto intorno ai dieci anni, era stata costruita per ricordare la vittoria di Torino sui Francesi nel 1706 in stile neo bizantino. I muri, che credo fossero di mattoni con faccia a vista o comunque color mattone, erano coperti di fuliggine perché negli anni cinquanta si usava ancora il carbone per riscaldare ed esistevano ancora molte stufe e camini.
C’erano fabbriche grandi e piccole che immettevano i loro fumi in città. Erano dette boite, in torinese.

Ricordo il Santuario nel quartiere Santa Rita in stile neo romanico. Era stato costruito dal 1930 al 1950 e, all’epoca di “Italia ‘61”, mi sembrava mangiato dai topi e incrostato di fuliggine.

 

La scuola Mazzini

Alle elementari andavo a scuola lì vicino, alla Mazzini. La scuola Mazzini era stata costruita nel 1913 in stile liberty. Sono andata a rivederla da poco e mi sono meravigliata. Me la ricordavo nera, piena di fuliggine, opprimente. Adesso è dipinta a colori a contrasto, con grandi scritte dei writers.  Aveva l’ingresso separato per maschi e femmine, quello esiste ancora anche se le classi sono miste. Le classi erano o maschili o femminili. Le scritte sopra le entrate sono rimaste. Di fronte a questi palazzi io mi sentivo piccola, insignificante, inadeguata. A scuola i banchi erano massicci, di legno, neri, tutti incisi da coltellini o forse da pennini. La maestra ci dominava dalla sua predella. Sicuramente le scuole non erano costruite per noi, non tenevano conto dei nostri desideri. Noi avremmo voluto le classi miste, almeno io l’avrei voluta, e penso anche le mie compagne.
 

Il Palazzo del lavoro o Palazzo Nervi

Quando arrivammo al Palazzo del lavoro con la classe e lo vidi, rimasi a bocca aperta. Il Palazzo era luminoso, tutto coperto da vetrate rigate da frangisole bianchi. Tutto intorno alle vetrate c’erano delle lamelle metalliche frangiluce che, ci era stato detto, si posizionavano secondo l’esposizione al sole. All’interno l’edificio prendeva luce dalle vetrate e da un reticolo di lucernai trasparenti. Massicce colonne di cemento armato sostenevano un pezzo di soffitto quadrato e fra un quadrato e l’altro c’erano lunghi lucernai. La mostra interna aveva come tema il lavoro. A ogni angolo del grande spazio espositivo quadrato c’era una caffetteria.
Mi dava l’impressione di un ambiente a disposizione di noi visitatori. Non era una struttura rigida nata per costringere le persone a fruirne in un modo predeterminato come erano le nostre aule, per esempio. Noi dovevamo stare zitte e ferme nei banchi, l’unica che poteva muoversi e parlare era l’insegnante che ci dominava dalla cattedra.
Anche nelle chiese noi dovevamo stare ginocchioni nei banchi, divisi tra maschi e femmine, mentre il sacerdote stava davanti, ci dava le spalle, e girato verso l’altare mormorava in latino. Si girava verso di noi durante la predica, quando saliva in alto sul pulpito e predicava ad alta voce in italiano. I fedeli dovevano tacere. Mi avevano raccontato che un vecchio parrocchiano si era rivolto al sacerdote ad alta voce, come predicava lui. Mi sembrava impossibile.

Vivevamo in un mondo gerarchico, nettamente diviso per classi e per generi, dove le donne e i giovani erano considerati inferiori e gli edifici erano costruiti tenendo conto di questa gerarchia.

 

Il Museo egizio o Collegio dei nobili

Conoscevo molto bene il Museo egizio perché ci andavo spesso. Era un edificio massiccio, nero nero, scarsamente illuminato che era stato il Collegio dei nobili.

Era sorto nel 1679 su disegno di Michelangelo Garove. I reperti erano conservati dentro teche di legno e vetro. Noi visitatori dovevamo stare a distanza, non toccare nulla. Al “Palazzo del lavoro” fummo accompagnate da hostess molto carine in tailleur grigi stilosissimi.

Gli ospiti illustri come la regina Elisabetta II furono accompagnati da Giovanni Agnelli, che non era presidente della Fiat ma l’erede designato. Il presidente della Fiat era Vittorio Valletta, anche lui, come l’ingegner Nervi di origini liguri.

 

Geometri e ingegneri

All’epoca Torino era tutta un cantiere, forse anche perché Valletta era un presidente capace e aveva incrementato il fatturato e il numero dei dipendenti.

A partire dagli anni cinquanta pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi presero il sopravvento sugli immigrati dell’Italia settentrionale, fino ad allora la maggioranza assoluta. Secondo il censimento del 1971, risiedevano nella città di Torino 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani. Torino diventò così una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo. Anche il Veneto rappresentava un consistente serbatoio migratorio. Un’immigrazione, quest’ultima, risalente ai primi decenni del Novecento e che proseguì negli anni seguenti, come dimostravano i 65.741 immigrati veneti residenti in città nel 1971. Molti di essi provenivano dalle zone bracciantili di Rovigo e del Polesine, messe in ginocchio nel 1951 dall’alluvione del Po. Un evento drammatico, che portò a Torino anche un considerevole numero di individui originari della provincia di Ferrara. Numerosa era la comunità sarda, che aveva a Torino radici antiche, dal momento che i primi flussi migratori dall’isola risalivano al periodo sabaudo: una lunga tradizione migratoria, che nel 1971 raggiunse la quota di 19.858 individui. Infine c’erano gli immigrati giunti in città dalla campagna e dalle montagne circostanti: uomini e donne che sostituirono le fatiche della terra con la catena di montaggio, attratti dal posto fisso e dallo stipendio sicuro offerti dalla grande fabbrica. La mia famiglia e i miei parenti facevano parte di questo gruppo. Noi venivamo dalla provincia di Alessandria.

Poiché il flusso migratorio era iniziato a farsi massiccio negli anni cinquanta, potete ben comprendere che nel 1961 il bisogno di case e alloggi era elevato. Risalgono a quegli anni la costruzione dei quartieri della Falchera delle Vallette.

 

La cascina piemontese

Io ho abitato in una cascina piemontese in cui vivevano i miei nonni, che credo fosse la stessa tipologia delle cascine piemontesi da cui provenivano i contadini della provincia che erano venuti in città per lavorare nell’industria.

Al piano terra c’era la stalla con una mucca o i buoi che servivano per tirare l’aratro e gli attrezzi. La stalla non era cantinata, aveva il battuto di terra come pavimento. A fianco della stalla c’erano la scala e, al primo piano, la cucina e la camera da letto con letti separati al massino da un lenzuolo teso in alto. Non c’era il bagno, né il gabinetto. Si usava il pitale che si scaricava nel letamaio. Per me che ero bambina poteva essere un paradiso perché dormivo con le mie zie. Le condizioni igieniche erano precarie e non esisteva privacy. Ho letto dei casoni veneti dove vivevano i braccianti che coltivavano le grandi proprietà agrarie della valle del Po. Anche i casoni non avevano fondamenta, il pavimento a piano terra era un battuto. Le pareti erano di paglia e di paglia era il tetto.

 

La casa di ringhiera

Quando mi hanno portata in città ho abitato in una casa di ringhiera. Tipiche di Torino e di Milano, erano case popolari costruite dall’inizio del novecento dove i vari appartamenti si affacciavano su un balcone con una lunga ringhiera di ferro. Ogni piano aveva in fondo al lungo balcone un gabinetto alla turca cui accedevano tutti gli inquilini del piano. Ogni appartamento aveva le camere in fila, una dietro l’altra. La prima camera era la cucina. Anche in questi appartamenti non c’era privacy. Ci si scaldava e si cucinava con la stufa che si trovava in cucina.

 

Bisogno di case

Quando gli immigrati diventavano operai cercavano una casa decente a un prezzo abbordabile.

Gli appartamenti costruiti negli anni cinquanta e sessanta si aprivano su un ingresso che divideva le camere. Ho sempre pensato che, anche se esteticamente non era bello, rispondeva al desiderio diffuso di privacy. Quel corridoio prometteva che le camere erano separate, che ognuno avrebbe avuto il suo spazio e il suo posto, anche i poveracci, quelli che erano vissuti tutti insieme sul battuto di terra.

 

Costruire con il cemento armato

Gli operai non si potevano permettere le ville, anche se aspiravano alla casetta indipendente come la vecchia cascina da cui provenivano. Le casette erano disegnate dai geometri. Se la casa aveva una parte importante di cemento armato la parte relativa doveva essere disegnata e collaudata dall’ingegnere.

L’ingegnere calcolava come doveva essere il ferro, quale diametro dovevano avere i tondini di ferro, quale doveva essere la mescola del cemento.

Il cemento armato sembrava un materiale meraviglioso, veramente innovativo e moderno. In realtà risaliva alla metà del 1800. Fu dovuto essenzialmente alla produzione di clinker macinato per ottenere il cemento e alla disponibilità di barre di ferro prodotte dall’industria siderurgica.

Diverse persone ebbero l’idea di immergere nel cemento i tondini di ferro per creare un’armatura che avrebbe rinforzato il manufatto.

Un posto di rilievo tra gli inventori spetta all’ingegnere francese Francois Hennebique (1842-1921), il quale brevettò una trave con staffe nella quale si possono riconoscere i fondamentali principi delle travi in cemento armato.

Nel 1902 il tedesco Emil Morch ricevette l’incarico dalla ditta Ways und Freytag di studiare su basi scientifiche il comportamento del cemento armato. Nello stesso anno Morch pubblicò il testo fondamentale Der Eisenbetonbau (La costruzione in cemento armato) contenente la teoria classica del cemento armato.

Nel 1904 vengono pubblicate le prime norme nazionali tedesche sulle costruzioni in cemento armato alle quali seguirono quelle francesi nel 1906 e quelle italiane nel 1907.

 

Il cemento armato non è eterno

Si sapeva che il cemento armato era un materiale meraviglioso, anche poco costoso, ma se non fosse stato costruito a regola d’arte, se il cemento non avesse aderito al ferro, il ferro sarebbe arrugginito e sarebbe venuto giù. Forse per questo era stato fatto obbligo di ricorrere all’opera dell’ingegnere.

All’epoca però nessuno parlava della temuta breve vita del cemento armato, anzi sembrava destinato all’eternità, mentre oggi sappiamo che richiede molta manutenzione. Inoltre le opere in cemento armato devono essere attentamente monitorate e restaurate come ci ha insegnato il crollo del ponte Morandi di Genova.

 

Il cemento armato in Italia

In Italia due costruttori erano in rapporto con lo studio dell’ingegner Hennebique e applicavano i suoi brevetti: Giovanni Antonio Porcheddu, attivo nella zona di Torino, e Attilio Muggia.

L’ingegner Attilio Muggia, che deteneva i brevetti dell’ingegner Hennebique per il Centro Italia, insegnava all’università di Bologna e fu il professore di Pier Luigi Nervi.

Nervi si innamorò del cemento armato e raggiunse l’eccellenza nel suo uso senza dimenticare la lezione del razionalismo e della classicità. L’architetto francese Le Corbusier venne a Roma per vedere il Palazzetto dello Sport che Nervi aveva costruito per le Olimpiadi del 1960.

 

I fondamenti di Le Corbusier

Le Corbusier era un architetto svizzero naturalizzato francese che aveva enunciato i punti fondamentali dell’architettura razionalista:

  • Utilizzo dei pilotis, ovvero pilastri che sollevano da terra la struttura, rendendola tipo palafitta;
  • Liberazione della pianta dai muri divisori;
  • La facciata libera per l’inserimento delle finestre a nastro;
  • Il tetto giardino, ovvero una copertura piana sulla quale si piantuma della terra per far crescere un prato (scopo termoregolatore).

I palazzi costruiti in cemento armato costavano meno dei palazzi tradizionali di cui le parti più costose erano il tetto con travi in legno e copertura in coppi o in marsigliesi e le fondamenta con i plinti di fondazione.

 

Abitare nei nuovi falansteri di scarsa qualità

Ho amato di Pier Luigi Nervi non tanto per quello che ha costruito, ma per ciò che non ha costruito. I grandi, famosi architetti, anche quelli ufficialmente schierati con il popolo, a un certo punto progettavano immensi falansteri di scarsa qualità alla periferia delle città che si trasformavano in inferni da cui la gente voleva fuggire.

 

Via Artom a Mirafiori Sud

Quando vennero assegnati agli inquilini gli appartamenti popolari di via Artom, zona Mirafiori Sud, io insegnavo nella scuola di quartiere.

Nel 1963, l’ex aeroporto militare di Mirafiori, che era rimasto inutilizzato dopo la guerra, tornò di proprietà del Comune che decise di destinarlo all’edilizia residenziale pubblica. Qui, tra il confine con Moncalieri e via Onorato Vigliani, nell’area che ora è conosciuta come Basse Lingotto, vennero costruiti otto edifici di nove piani, con un totale di 780 appartamenti. Furono realizzati con una tecnica di prefabbricazione integrale. Tuttavia, nonostante la qualità pessima delle case, la domanda superò di gran lunga l’offerta, con oltre 13.000 richieste abitative per poco meno di 800 alloggi disponibili.

I muri erano di cartongesso e non si poteva piantare un chiodo senza danneggiarli irrimediabilmente.

La nuova strada, chiamata via Artom, divenne un triste esempio di segregazione sociale. Infatti gli edifici vennero suddivisi in base alla provenienza degli abitanti. Tre palazzi furono destinati agli ex baraccati, altri tre a vincitori di concorsi abitativi pubblici – di cui uno diviso tra queste due categorie – e l’ultimo fu riservato ai trasferiti.

Le famiglie dei miei alunni mi riferirono (non ho verificato, ma non ho nessuna ragione per non credergli) che, immediatamente dopo che le case furono assegnate, vennero abbattute le porte e le tramezze dei locali sotto gli appartamenti creando ampi spazi, probabilmente, a loro dire, pieni di refurtiva in cui era molto pericoloso aggirarsi. A un certo punto le famiglie sarde assegnatarie, i cui figli erano miei alunni, decisero di andarsene e di trovare un’altra sistemazione. Chiesi loro il motivo. Mi risposero che avevano capito che i figli sarebbero diventati dei delinquenti restando lì.

 

Piano di Recupero Urbano

Negli anni novanta l’amministrazione comunale di Torino tornò a porre maggiore attenzione alla zona del quartiere di Mirafiori sud. La trasformazione si rese possibile grazie al Programma di Recupero Urbano (Pru) con un investimento di 140 milioni di euro. Il progetto ha portato a una serie di interventi che hanno ridisegnato completamente l’aspetto di via Artom e dell’intera area circostante. Questi interventi includono la demolizione di alcuni edifici, la riqualificazione del parco Colonnetti e delle sponde del Sangone, la realizzazione di nuove piazze e complessi edilizi. Inoltre vennero creati nuovi spazi pedonali, piste ciclabili e riqualificato il ponte sul Sangone.

Io non so valutare se fosse necessario abbattere le case di via Artom in quanto assolutamente irrecuperabili o se sia stato uno spreco. In Francia la città di Bordeaux ha recuperato le case degli anni sessanta.

La riqualificazione di tre blocchi per un totale di 530 case popolari si è aggiudicata il Premio dell’Unione Europea per l’architettura contemporanea.

 

Villeneuve-Loubet: Port Marina Baie des anges

Appena laureato, mio figlio era andato a lavorare in Francia a Sophia Antipolis, un polo informatico vicino ad Antibes. Cercavamo una camera o un piccolo appartamento per lui a Villeneuve-Loubet. Arrivammo nel paese sulla Costa Azzurra e vedemmo quattro vele enormi che erano state progettate dall’architetto André Minangoy.

Il complesso ha 1600 appartamenti e 540 ormeggi. Assomiglia molto alle vele di Scampia ma l’esito è stato ben diverso.

Dunque è solo questione di soldi?

 

Il Palazzo del lavoro o Palazzo Nervi: che farne?

All’epoca si diceva che il Palazzo del lavoro sarebbe stato utilizzato per mostre temporanee come era stata la Mostra del lavoro. Eravamo certi che la città sarebbe continuata a crescere, anzi lo sviluppo “capitalistico” della città, dopo pochi anni, sarebbe diventato il bersaglio delle proteste studentesche e operaie. Non potevo neanche lontanamente sospettare che Torino, dal 1971, avrebbe cominciato a decrescere.

 

La popolazione di Torino

Considerando i dati dell’ultimo rilevamento censuario dell’Istat (dicembre 2020, incluse le rettifiche), la popolazione della città conta 858 205 abitanti, evidenziando una diminuzione rispetto al censimento del 2001 (865.263).

Pensavamo che il nostro destino fosse legato a quello degli Agnelli, quindi, forse, potevamo non temere. Ci illudevamo che la loro prosperità fosse anche la nostra.

Invece la globalizzazione ha mandato tutto all’aria: si potevano fare fabbriche in paesi dove il lavoro costava molto meno che a Torino e quelle automobili si potevano vendere ovunque, anche in Italia. Forse il lavoro fatto a Torino non era più di qualità. Questo non lo so valutare.

 

Uso del Palazzo del lavoro

 

 


Passo spesso in auto vicino al Palazzo del lavoro e ho potuto assistere al suo lento decadimento. Nel 2015 c’è anche stato un incendio. Ogni anno il quotidiano torinese La Stampa esce con l’annuncio della nuova destinazione d’uso del Palazzo del lavoro. È  stato la sede del Bit cioè del Bureau International du Travail delle Nazioni Unite. Che io sappia nessuna grande mostra temporanea è più stata fatta nel Palazzo del lavoro. A un certo punto si pensava di farlo diventare un centro commerciale, ma pare che il Lingotto, dove c’è un centro commerciale, abbia fatto causa alla proprietà del Palazzo del lavoro che ora è la Cassa Depositi e Prestiti e l’abbia vinta per mancata distanza dal loro centro commerciale. Così il progetto è tramontato.

Io pensavo: mancano gli appartamenti per le gente, che avrebbe diritto anche  a vivere in spazi confortevoli. Perché, fin dall’inizio, non si è previsto che diventasse un palazzo per studenti, per l’edilizia popolare?

Errore! Gli appartamenti per atleti del villaggio olimpico che erano stati costruiti per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 sono stati immediatamente occupati e danneggiati. Quando gli studenti assegnatari hanno tentato di entrare sono stati respinti dagli occupanti abusivi.

Sicuramente ci vorranno più soldi, ma non deve mancare un’idea e persone che si impegnino a realizzarla.

 

4 pensiero su “PIER LUIGI NERVI E IL PALAZZO DEL LAVORO”
  1. Carissima Angela, anche se non sono un costruttore sono pur sempre un architetto, e a proposito del cemento, Ti dico che negli anni ’70 alla facoltà di architettura di Torino (il castello del Valentino) i nostri docenti magnificavano la nuova scoperta tutta italiana dell’ingegner Morandi: il cemento armato precompresso. Ossia i ferri interni venivano tirati con dei martinetti e così tesi venivano ricoperti dalla colata di calcestruzzo. Questo assicurava alla trave di cemento armato una maggiore resistenza al peso, perciò potevano essere realizzate strutture molto più ardite. Una di queste era proprio il viadotto del Polcevera a Genova, dove passava l’autostrada, che prese il nome del suo progettista: ponte Morandi.
    Ma essendo in vicinanza del mare, il cemento armato si sgretolava molto di più, data l’azione del vento e del salmastro. Ciò che succederà poi dopo una quarantina di anni si sa. In pratica non più tenuto dal cemento, il ferro si è accorciato di colpo, come fosse una molla tirata e lasciata andare. Ecco il motivo del crollo immediato del ponte.

    Quanto a Charles Edouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1887-1965), costui era un pittore, non prese mai una laurea in architettura o ingegneria edile, rimase un teorico esterno delle costruzioni, infatti le sue “innovazioni” che tu Angela elenchi, non creano veri comfort agli abitanti:
    – Costruire su pilotis, eliminando così il pianterreno, crea un pavimento freddo, quindi aumenta il costo del riscaldamento dell’alloggio.
    – I muri divisori sono spostabili, ma restano dei precari, e non isolano i locali dal rumore e dalla temperatura.
    – Le finestre a nastro aumentano la superficie esterna dalla quale può entrare il freddo d’inverno e il caldo d’estate se ci batte il sole (effetto serra).
    – Il tetto giardino complica la tenuta dei soffitti alla pioggia, e la terra con le piante attirano gli insetti, specie le formiche, che possono così facilmente penetrare e invadere gli spazi abitati dagli umani.

    1. Carissimo Franco,
      ti ringrazio per avermi spiegato come funziona il calcestruzzo e perché i manufatti si sgretolano e crollano.
      Sì, hai ragione, le case “moderne” costruite secondo i principi di Le Corbusier, non sono confortevoli per chi ci abita.
      Grazie
      Angela

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  2. a proposito di Le Corbusier consiglio fortemente, ma che dico fortemente, fortemente, la lettura del libro di Tom Wolfe, “Maledetti architetti”, che espone una serie di piacevoli e fondate invettive contro Corbu e in generale contro lo stile internazionale; è un libro molto divertente e istruttivo; quanto a me, subito dopo aver visitato la Maison La Roche di Le Corbusier a Parigi sono stato aggredito da cinque arabi dotati di pistola e il ricordo ha preso il sopravvento su quello degli asettici ambienti del nuovo mondo architettonico;

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