Nellie Bly
“Dieci giorni in manicomio“, se pazza non sei, “inchiodata ad una panca senza poterti muovere, né comunicare, né ricevere notizie, sempre nutrendoti con cibi ignobili, ti fanno sprofondare nella follia”.
In settimane in cui tanto si parla di scoop giornalistici realizzati da “infiltrati”, ecco le conclusioni cui giunse la statunitense Nellie Bly, pioniera del giornalismo sotto copertura.
Nata nel 1864 in un villaggio della Pennsylvania, Elisabeth Jane Cochran (questo il suo vero nome) era la tredicesima dei 15 figli di un facoltoso uomo d’affari che, lasciandola prematuramente orfana, di fatto la costrinse a interrompere gli studi per cercarsi un lavoro, così contribuendo al mantenimento del nutrito clan familiare.
Indipendente, impavida e dotata di una buona dose di “faccia tosta”, per combattere i non rari momenti di tristezza e sconforto, Elisabeth iniziò a scrivere.
Fu proprio una lettera a cambiarle la vita, quella da lei indirizzata nel 1885 al direttore del “Pittsburgh Dispatch”, quotidiano che aveva appena pubblicato un insulso articolo intitolato “What girls are good for”, in cui un editorialista allora molto in voga sosteneva, in pratica, che “le ragazze” era inutile che perdessero tempo a istruirsi e cercare lavoro, perché il loro compito consisteva nel “crescere i figli, stare accanto al marito e occuparsi della casa”, stop!
Le argomentazioni addotte dalla nostra “orfanella” (come si firmò Elisabeth) dovettero essere tanto convincenti da indurre il signor Madden, direttore del quotidiano in questione, a pubblicare un’inserzione che offriva un impiego all’autrice di quella missiva, o meglio all’autore perché – pensava Madden – una donna certo non poteva scrivere così bene.
Grande pertanto fu la sua sorpresa quando si trovò di fronte una ragazza poco più che ventenne che lui, per precauzione, invitò subito a cercarsi “un nome d’arte”, perché a quei tempi la professione di giornalista si riteneva non fosse troppo confacente a una donna, per giunta tanto giovane.
Da qui la scelta dello pseudonimo di Nellie Bly (la servetta protagonista di una canzone popolare) che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.
Sfruttamento del lavoro minorile, operaie con salari da fame, sicurezza sui posti di lavoro e condizione femminile furono solo alcuni dei temi “caldi” di cui Nellie si occupò nei suoi articoli, tanto più seguiti quanto scomodi per i personaggi altolocati che, facendo via via mancare le proprie sovvenzioni al giornale, la convinsero a cambiare aria per cercare maggior libertà di movimento e fama nella “Grande Mela”.
Si fece così ingaggiare dal direttore del seguitissimo “New York World”, il famoso Joseph Pulitzer che, constatatane l’intraprendenza, nel 1887 non esitò ad affidarle un’inchiesta scottante sul più grande e chiacchierato ospedale psichiatrico femminile newyorchese, quello che sorgeva sulla Blackwell (ora Roosevelt) Island.
Nomen-omen, in quella sorta di vero e proprio “Pozzo nero” (“Blackwell”) così simile a un girone infernale, venivano richiuse tantissime sfortunate, non solo donne affette da turbe psichiche, ma anche prostitute, senza fissa dimora o semplici immigrate che non riuscivano ancora a esprimersi in inglese per interagire coi locali e le forze di polizia.
Così, in una squallida e fatiscente “discarica umana”, erano ammassate circa 2.000 derelitte rinchiuse in spazi angusti che avrebbero potuto a malapena contenerne la metà, in condizioni igieniche disastrose, con pochissimi medici e ancor meno infermiere, a soffrire la fame e battere i denti dal freddo o boccheggiare per il caldo a seconda delle stagioni.
Ebbene, fingendosi pazza, Nellie si fece internare per 10 giorni in quella struttura per raccontare con gli occhi delle detenute la loro (non) vita quotidiana, in una dettagliata inchiesta pubblicata a puntate con il titolo “Ten days in a mad-house”.
Il clamoroso scalpore e lo scandalo che ne seguirono, indussero le sino ad allora reticenti autorità cittadine a chiudere quel luogo orrendo e, nel contempo, resero Nellie la più famosa giornalista degli Stati Uniti, spingendola a superarsi sempre più.
Un paio d’anni più tardi, nel 1889, dopo aver letto il romanzo di Jules Verne “il Giro del mondo in 80 giorni” volle dimostrare ai suoi lettori che lei, donna, sarebbe riuscita a compiere l’impresa in tempi anche più brevi dei vari uomini che l’avevano già tentata, così convincendo Pulitzer a finanziarla.
Partita in nave dal porto di New York il 14 novembre del 1889 con la prua rivolta verso est, in effetti, la Bly vi sarebbe tornata dopo soli 72 giorni provenendo da ovest, per il tripudio della numerosissima folla che l’aspettava in delirio al termine di un viaggio rocambolesco raccontato giorno dopo giorno in dettagliati articoli febbrilmente attesi dai suoi appassionati lettori.
Dopo una pausa matrimoniale durata quasi 20 anni, la Bly tornò al giornalismo nel 1914 come inviata sul fronte di guerra prima austriaco e poi francese, questa volta per il “New York Evening Journal”.
Anche qui, le sue cronache sugli orrori bellici e i corpi martoriati dei giovani soldati marcarono profondamente l’opinione pubblica americana.

Rientrata in patria, spirò prematuramente il 22 gennaio del 1922 per una polmonite che non le lasciò scampo. Con lei calò nella tomba l’ardita antesignana del moderno giornalismo investigativo.

 

Nellie Bly
Nellie Bly

 

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