In una notte del gennaio 2023 all’ospedale Pertini di Roma si è verificato il peggior incubo di ogni nuova mamma: un neonato che dormiva a fianco di sua madre è morto, forse soffocato dalla madre stessa. Mia nonna era terrorizzata da questa eventualità e, dopo che  avevamo partorito, ci ripeteva ossessivamente: “Attenzione, non tenete il neonato al fianco! È troppo piccolo. È sufficiente che vi scivoli vicino al seno e lo soffocate. È già successo…”.  Evidentemente l’ospedale Pertini si è fidato della sorveglianza del personale ma, purtroppo, non è stato sufficiente.

Madre con il neonato al fianco

 

Partorire sotto i bombardamenti

Mia madre aveva partorito mio fratello maggiore nel 1941 in casa con una ostetrica. Era il primo anno di guerra e la natalità era diminuita. In quell’anno nacquero in Italia 932mila bambini, un po’ di meno dell’anno precedente (ecco le statistiche). La grande famiglia composta da tre generazioni si era attivata. La nascita di un nuovo nipote era un evento importante e una grande gioia. Tutte le donne di casa collaboravano e il bambino passava di mano in mano.

Mi raccontava mia madre che precedentemente c’era l’abitudine da noi di tenere la neo mamma a letto per 40 giorni, accudita e coccolata, mentre le zie e la suocera si occupavano del bambino. Dopo 40 giorni si doveva andare in Chiesa a chiedere il perdono perché dopo il parto si era “impure”.

All’epoca (quando mia madre me lo raccontava) io (bambina) non potevo fare altro che credere  che tutto ciò che riguardava il sesso e il sangue per la religione fosse impuro e necessitasse di una particolare benedizione. D’altra parte i preti non si potevano sposare e si impegnavano al celibato. Evidentemente il sesso era sporco e contaminante. Forse, per la Chiesa,  lo eravamo anche noi donne.

Eppure ero convinta che, se fosse toccato agli uomini partorire, sarebbe diventato un sacramento come la prima Comunione, come la Cresima, come il Matrimonio. Constatavo ogni giorno la differenza di trattamento riservato ai maschi e alla femmine e io ero stata una figlia desiderata! Pensate le altre, quelle non desiderate, poveracce!

Vedo che i teologi oggi lo spiegano molto diversamente (qui).
Praticamente, secondo il teologo il periodo post partum è un periodo di grazia in cui la madre sperimenta l’amore per il figlio e non ha l’obbligo di andare a messa perché ha in casa con suo figlio tutto il sacro che le serve. Mah… io so che ci dicevano che la neomadre era impura, ed essere impura non è una bella cosa.

Sono rimasta incinta del mio primo figlio a 23 anni e l’ho partorito a 24 nel 1969.  In quell’anno la popolazione italiana aveva raggiunto i 53milioni di abitanti circa. Nacquero 932mila neonati con un incremento della popolazione di 393mila abitanti.

Ormai si andava in ospedale a partorire. Io ero nata nel 1945 nell’ospedale che era la Maternità della città di Torino perché mia madre era stata raccomandata. Così, dopo che le si erano rotte le acque,  era entrata in ospedale e le avevano dato un letto. Vi spiego che cosa significa l’espressione “rompere le acque”. Improvvisamente si sente un liquido caldo che fuoriesce e bagna le gambe formando un piccolo laghetto a terra. È il liquido in cui è immerso il bambino. Significa che il parto sta per iniziare.

Mia madre stava aiutando in casa perché i suoceri e i cognati avevano ammazzato il maiale e stavano facendo i salami e le salsicce. Prese il piano della tavola, lo lavò e lo trasportò all’esterno e le si ruppero le acque. Forse la tavola era troppo pesante oppure era venuta l’ora che nascessi. Era febbraio, la città era sotto i bombardamenti. Erano gli ultimi mesi di guerra ma la gente non lo sapeva che stava per finire.

In ospedale, dopo che mia madre aveva fatto l’accettazione, suonò l’allarme della contraerea e tutto il personale si affrettò a mettersi in salvo, credo nei sotterranei della Maternità. Mia madre restò sola vicino al letto e io nacqui scivolandole tra i piedi con tutta la placenta. Infatti mi ripeteva sempre che ero nata con la camicia, cioè dentro la placenta.

Quando il personale ritornò vide che ero già nata e pregarono mia madre di non riferire a nessuno che era stata abbandonata da sola a partorire in corsia. Soprattutto di non riferirlo a colui che l’aveva raccomandata…

 

 

Partorirai con dolore

Io dovevo partorire e decisi di andare a farlo dove ero nata io, cioè alla Maternità. Nel 1969 tutti pensavano che l’ospedale fosse più sicuro sia per il bambino sia per la madre in caso di problemi e di necessità.
Mi si ruppero le acque  e mia madre con mio marito mi accompagnarono all’ospedale.

Erano anni in cui i bambini non nascevano  più in casa. L’ospedale era strapieno. Ma le donne della mia famiglia partoriscono in fretta. Credo che la natura abbia selezionato chi partorisce in fretta vista la mortalità delle madri un tempo per chi aveva problemi. Venni visitata dall’ostetrico che si mise a strillare: “Presto, presto, il bambino ha la testa fuori”, e immediatamente fui spedita in sala parto.

Ricordo altre mamme in sala pre parto che protestavano perché ero passata davanti a tutti.
In sala parto c’erano tre parti in contemporanea con un unico medico in fondo alla sala che dirigeva le operazioni. A fianco di ogni partoriente c’erano le ostetriche e le infermiere.

Era agosto, le finestre erano spalancate, l’aria condizionata non c’era ancora. Il medico era giovane, bruno, sudato come una bestia, con le braccia scoperte e pelose.

Giungeva una voce da lontano con un forte accento meridionale che urlava: “Mamma, se lo avessi saputo, mamma, se lo avessi saputo che avrebbe fatto così male partorire, mi sarei guardata bene da fare all’amore”.

Non avevo fatto nessun corso di preparazione al parto (che sapessi io non esistevano) e i padri non assistevano al parto.
Per fortuna dopo due spinte, con grande disappunto delle altre puerpere, nacque il mio bambino.

Il bambino viene portato alla madre

 

Non ricordo se me lo misero sulla pancia, ma sicuramente me lo tolsero poco dopo. I neonati stavano nella nursery con buona pace di mia nonna. Non potevamo schiacciarli. Ce li portavano avanti e indietro per le poppate, ma con difficoltà. I bambini erano molti. Portarli avanti e indietro era un lavoro e il personale era poco. 

All’epoca l’allattamento artificiale non era demonizzato e tutti lo consideravano un’ottima soluzione sia per la madre sia per il bambino e soprattutto per l’ospedale a corto di personale. Infatti quando andai a casa, l’ospedale mi regalò una confezione di latte in polvere per neonati.

Ho poi  letto e ve lo riferisco così come l’ho appreso: l’azienda che lo produceva spendeva un sacco di soldi per propagandare l’uso del latte in polvere per i neonati.  E, a quanto pare, lo faceva anche in paesi che non avevano acqua potabile sicura per fare il latte artificiale.

 

 

Nel 1981: 628mila nuovi nati

 

Nel 1981 decisi di avere un secondo figlio. Erano passati ben dodici anni dalla nascita del primo.

Mio padre, che amavo tantissimo, si era ammalato ed era morto ancora giovane, tra grandi sofferenze proprio quando sentivo di avere più bisogno di lui. Poi mi spiaceva dover lasciare il lavoro. Infine dissi: “O adesso o mai più”. Se fosse nato un maschietto, gli avrei dato il nome di mio padre.

Così tornai alla Maternità. Ora la gravidanza veniva monitorata. Dovevamo andare a incontri mensili ma si svolgevano sempre con dottori diversi. Al primo giro il medico mi disse che ero una donna incinta attempata e mi prescrisse una montagna di esami.

Al secondo giro il nuovo medico criticò il collega dicendo che tutti quegli esami (che avevo fatto) erano inutili e me ne prescrisse degli altri.

Al terzo giro non ero sola. Mia madre, già anziana (io ero attempata e figuratevi mia madre), volle venire a farmi compagnia. Tentai di dissuaderla, ma non ci fu verso. Avevamo l’appuntamento alle 8 a digiuno.

Eravamo nel 1981. Nel 1978 era entrata in vigore la legge 194/78, sull’interruzione volontaria della gravidanza, cioè l’aborto era diventato legale e poteva essere praticato in ospedale. C’erano parecchie ragazzine sole che dovevano abortire e passarono avanti a noi. Io e mia madre aspettavamo con la nostra montagna di referti. Quando ho visto l’andazzo mi sono data una scadenza. Alle dodici me ne sarei andata e così è stato. Come sono entrata in casa (non c’erano ancora i cellulari) è squillato il telefono di casa.

Signora, dove è andata? La dobbiamo visitare.”

Non si preoccupi per me, avete vinto. Mi ritiro, non verrò più a disturbarvi.”

Ma che cosa pretendeva? Che non facessimo abortire le ragazze che volevano abortire? Lei è contro l’aborto? È una legge dello Stato.”

Non mi faccia dire quello che non ho mai detto. Sono incinta, non sono del reparto psichiatrico con tutto il rispetto per i malati psichiatrici.”

Non volevo passare davanti alle ragazze che abortivano, ma passare senza dover stare a digiuno fino all’una incinta, con il pancione, con la lingua di fuori, attempata…

Così me ne andai all’ospedale di Carignano con la coda fra le gambe.

L’ospedale di Carignano era un piccolo ospedale con il personale che viveva vicino a noi.

Il reparto maternità era un reparto di eccellenza. Mi presero in carica, e io andavo a fare i controlli ogni tanto alle 18 perché intanto continuavo a insegnare. Il 13 dicembre 1981 era domenica. Ero oltre il termine e mi avevano detto che se il bambino non fosse nato nel frattempo mi avrebbero indotto il parto il lunedì.

Accesi la radio il mattino mentre preparavo la colazione. I russi avevano invaso la Polonia e i loro carri armati percorrevano le strade di Varsavia. Mi si ruppero le acque. Chiamai mio marito. La borsa era pronta da parecchi giorni. Mia madre era andata a messa, meglio che non ci fosse.

Dopo la morte di mio padre ero io che davo calma e sicurezza a lei e non viceversa. Ma ora avevo bisogno di tutte le mie forze, ora dovevo far nascere mio figlio.

 

 

In ospedale a Carignano

Ero l’unica partoriente. C’era ricoverata una giovane signora che stava facendo punturoni per l’infertilità e una madamina, piccolina e rotondetta, che era venuta in visita perché era al termine. Mi prese in carico una giovane ostetrica di cui conoscevo la famiglia. Era competente e garbata. Mi disse: “Faccio venire il ginecologo?”. Io feci la sbruffona, perché sono di quelle che per una battuta sono disposte a correre rischi: “Gli uomini non sono capaci a fare i bambini. Facciamolo noi”.

Lei sorrise e continuò a monitorare il parto, a controllare la dilatazione, ad asciugarmi il sudore. Di epidurale non si parlava (l’epidurale è un’iniezione che serve ad anestetizzare il corpo della partoriente in modo che non senta dolore senza farle perdere conoscenza). Era già stata scoperta da un bel po’, nel 1941. A un certo punto mi chiese se volessi fare assistere al parto mio marito.

Io non sapevo che ci fosse questa possibilità e non ne avevamo parlato. Sapevo che sicuramente assistere al parto poteva essere scioccante (lo era stato per me) e non mi sembrava il caso di sconvolgerlo senza averlo avvisato prima.
Così rifiutai scuotendo la testa.

Intanto tutta la sala parto si era animata. Il personale correva. Bisognava fare un cesareo d’urgenza. Il figlio della madamina aveva il cordone ombelicale intorno al collo e stava soffocando se non fossero intervenuti subito. Prima di addormentarsi la madamina urlò: “Salvate mio figlio, non badate a me”.

E nacque poi con un cesareo un neonato rosso di capelli, sputato suo padre. La nonna paterna e il padre piangevano di consolazione perché al padre avevano diagnosticato la sterilità e la moglie madamina gli aveva fatto due figli in due anni rossi e lentigginosi, identici al padre.

Intanto, con relativamente poche spinte, era nato il mio figliolo. Erano passate tre ore dalla rottura delle acque. Sono molto fortunata. L’ostetrica pulì il bambino, lo pesò, lo misurò, lo visitò e me lo  offrì. Io lo presi, lo baciai, vidi quanto era bello. Ero esausta, mi calò un sonno tremendo ma le parole di mia nonna erano scolpite nella mia testa: “Non tenete i neonati in braccio a letto, li potete soffocare… È già successo”.

E dissi all’ostetrica: “Mi scusi, ho un altro figlio. Ieri sera ho lavorato fino a tardi. Non ce la faccio a stare sveglia. Ho paura di schiacciarlo. Non potrebbe tenerlo nella nursery?”.
L’ostetrica sorrise e se lo portò via.

Per finire vi voglio raccontare questo. La madamina, dato che le avevano fatto il cesareo senza che avesse iniziato il parto naturale, non aveva avuto la montata lattea (flusso di latte nei seni) e non aveva un goccio di latte. Piangeva, piangeva disperata. Le mettevano Pel di Carota al seno che tirava, tirava fino a farle uscire il sangue, e madamina piangeva calde lacrime perché non aveva il latte. Ma 12 anni prima, quando avevo avuto il mio primo figlio, il latte artificiale andava benissimo, non c’era nessun problema per i pediatri. Lo raccontai alla madamina ma non era convinta, non mi credeva. Pensava che glielo dicessi per consolarla.

 

 

Nascere in Francia

Infine, all’estero come va? Io posso solo dirvi dell’esperienza vissuta da quel mio figliolo lì, quello nato a Carignano nel 1981.

Lui vive in Francia nella zona di Parigi. Mia nuora ha partorito in un grande ospedale pubblico nell’hinterland parigino, vicino a casa. Le hanno fatto l’epidurale. Aveva chiesto il mio parere e io le ho detto: “Se puoi non soffrire, è meglio”. La bambina era sana e reattiva.

Mia nuora mi ha raccontato che una sua cara amica italiana che lavorava con lei, alla domanda che le hanno fatto nelle visite preparto, aveva risposto che era favorevole a partorire in un ospedale cattolico. Non era particolarmente religiosa ma neanche contraria e pensava che male non potesse fare. Errore! L’hanno fatta partorire come si dice “a crudo”, senza epidurale perché “si deve partorire soffrendo”.

Ha giurato che non farà un secondo figlio. 

Certo, un tempo, in condizioni logistiche da paura si facevano molti più figli, ma non c’era scelta.

Adesso, invece, si può scegliere… anche se diverse donne in Italia ancora non fanno l’epidurale perché in alcune situazioni comporta un costo.

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