Ai dottori che le avevano detto che la fine era prossima lei, elegante come sempre a dispetto anche della malattia, aveva risposto: “Vi dirò io quando sono pronta! Ho ancora qualche ora da vivere”.
Così, solo la mattina seguente accettò di ricevere il prete che le portava il Viatico, ma anziché ascoltarne la predica, fu lei che ne fece una a lui, abituata com’era a parlare senza ascoltare le risposte altrui, ma anche senza attendersi che gli altri stessero a sentire lei.
Chiamò poi il notaio per dettargli il testamento e tale operazione richiese parecchio tempo, perché i parenti erano numerosi. Ce ne fu per tutti, fuorché per il marito Camillo, con il quale i rapporti si erano guastati da tempo e che solo per uno scrupolo di coscienza era accorso al suo capezzale.
Dopo essersi congedata dai domestici e aver impartito le istruzioni per la sua imbalsamazione, chiese uno specchio per verificare il proprio aspetto, timorosa di non essere in ordine per l’appuntamento supremo, e solo quando ebbe sistemato tutto, all’una pomeridiana del 9 giugno 1825, chiuse gli occhi per sempre, all’età di soli 45 anni.
Questa fu la fine della principessa Paolina Borghese Bonaparte, detta “la Venere dell’Impero”, che, con le sue arti ammaliatrici, aveva fatto impazzire la Parigi napoleonica, per poi diventare la regina della Roma papalina d’inizio Ottocento.
Sbarcata tredicenne a Tolone dalla nativa Corsica nel 1793 al seguito della madre Maria Letizia, Paolina si trasformò in preziosa merce di scambio nella mani del sempre più potente fratello Napoleone, diventato via via generale dell’Armata Repubblicana, primo console della Repubblica Francese e infine imperatore dei Francesi.
Giovanissima, fu da lui concessa in sposa all’amico generale Léclerc, comandante in capo dell’Armata d’Italia, del quale Paolina si innamorò, ma non abbastanza da riservagli l’uso esclusivo di quelli che lei pudicamente definiva “i vantaggi concessimi dalla natura”, ossia il più bel corpo muliebre della Parigi di quei tempi, famoso per la sua carnagione bianchissima curata con frequenti bagni nel latte d’asina.
Paolina iniziò a coltivare relazioni extraconiugali, che sarebbero state una costante della sua vita. Attori, pittori, musicisti, generali e ussari avrebbero frequentato la sua alcova, equamente suddivisi tra francesi, italiani e stranieri di passaggio.
Lo scandalo non tardò a scoppiare, per lo scorno del povero Léclerc al quale a un certo punto Napoleone impose di partire per l’isola di Santo Domingo, con la moglie e il figlioletto Dermide, per sedarvi la ribellione capeggiata dall’ex schiavo Toussaint Louverture qui, ma con il fine recondito di coprire lo scandalo e far chetare le acque.
Nell’isola caraibica le preponderanti forze militari francesi non tardarono ad avere la meglio sui rivoltosi, a costo d’ingenti perdite di vite umane fra cui quella dello stesso Léclerc, morto sul finire del 1802 per un attacco di febbre gialla.
La sua non inconsolabile vedova già sulla via del ritorno trovò conforto fra le braccia del generale Humbert, mentre la salma del marito viaggiava sottocoperta rinchiusa in una bara di legno chiaro.
Rientrata a Parigi, Paolina riprese la vita spensierata di sempre, incontrando sul suo cammino Camillo Borghese, giovane principe appartenente a una delle più nobili e facoltose casate romane.
Bello, elegante, ricchissimo e fascinoso nei suoi tratti mediterranei, il principe aveva tutte le doti per piacere alle signore, a patto però che non aprisse bocca. Era allora che la sua scarsa istruzione, unita a un’intelligenza men che mediocre, si manifestava facendolo apparire alla stregua di un grullo, facile preda dei tanti più furbi di lui.
Allettato dalla prospettiva di vedere la sua famiglia imparentata con quella di un aristocratico di così alto lignaggio, Napoleone acconsentì di buon grado alle nozze della sorella col Borghese, raccomandandole di seguirlo a Roma e di rispettarlo “come marito e come uomo”.
Parole al vento perché, appena giunta nell’Urbe, Paolina iniziò ad annoiarsi cercando sollievo ancora una volta negli amanti.

La prematura morte per un attacco malarico del figlioletto Dermide, di cui Paolina incolpò il coniuge perché l’aveva convinta a mandare il bambino a trascorrere l’estate nella calura di Frascati, a casa dello zio Luciano Bonaparte, guastò irreparabilmente i loro rapporti di coppia.

A nulla valse nemmeno lo splendido regalo fattole da Camillo, che nel 1804 incaricò il celeberrimo scultore Antonio Canova d’immortalare la moglie, seminuda in posa da “Venere vincitrice”, in una meravigliosa statua di marmo bianchissimo che all’epoca destò grande scandalo per il suo realismo.

Dal 1810 la separazione tra i due fu anche fisica, con Paolina impegnata a seguire il fratello Napoleone in tutta Europa e persino in esilio all’Elba, e Camillo a rifarsi una vita accanto alla duchessa Lante della Rovere, nel suo palazzo di Firenze.

Una parvenza di riconciliazione tra i due ci fu solo “in articulo mortis”, appena in tempo per assicurare a Paolina una degna sepoltura nella Cappella Borghese, all’interno della Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma.

Nella cripta di famiglia la “Venere dell’Impero”, che in vita sua dai preti aveva sempre cercato di tenersi lontana tanto quanto lo aveva fatto con il marito, riposa paradossalmente accanto ai prelati di famiglia, fra cui papa Paolo V e il cardinale Scipione Borghese, oltreché al coniuge che là sotto la raggiunse sette anni dopo, nel simulacro di un ricongiungimento fuori tempo massimo.

 

(Foto in alto: “Paolina Bonaparte come Venere vincitrice”, di Antonio Canova, 1804-1808. Galleria Borghese, Roma – Da Wikipedia, utente Architas CC BY-SA 4.0).

 

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