O.J. SIMPSON, UN CAMPIONE IN FUGA

Nel giugno del 1994 la polizia di Los Angeles convoca per telefono O.J. Simpson per notificargli un’accusa di duplice omicidio: avrebbe ucciso la moglie insieme al suo presunto amante. Invece di presentarsi alla centrale di polizia, Simpson va dal suo amico di infanzia Al Cowlings e gli sottrae un Suv bianco. La polizia intercetta l’auto in fuga e inizia un lungo inseguimento sulle strade della metropoli californiana, mentre un elicottero riprende le immagini e le trasmette a tutte le reti televisive, che interrompono la normale programmazione. Gli spettatori rimangono attoniti davanti agli schermi, perché la persona che cerca disperatamente di sfuggire alla legge è stato uno dei maggiori campioni di football americano, lo sport più seguito negli Stati Uniti. Dal video, vedono Simpson che si sporge dal finestrino sventolando la pistola e minacciando di suicidarsi. Alla fine, comunque, il fuggiasco decide di tornare a casa e lasciarsi arrestare.

O.J. SIMPSON, UN CAMPIONE IN FUGA
La fuga impossibile di O.J. Simpson

 

Orenthal James Simpson nasce a San Francisco, in California, nel 1947. I suoi genitori sono Jimmy, un padre che alterna con scarso successo l’attività di cuoco a quella di guardia giurata, ed Eunice, donna delle pulizie. Pentiti per avergli dato un nome bizzarro, Jimmy ed Eunice chiamano il figlio con le sole iniziali: O.J.

Forse anche a causa delle difficoltà economiche dei genitori, il piccolo entra in una gang di teppisti e finisce per qualche tempo in un carcere minorile. A salvarlo è lo sport. Alle superiori si fa notare nelle partite di football americano. Ricopre il ruolo di runningback, il giocatore che corre in avanti con la palla tra le mani, resistendo alle cariche dei difensori avversari per raggiungere la linea di meta. Quando si iscrive all’università è ormai diventato un campione. In quel periodo sposa l’afroamericana Marguerite Whitley, che gli dà tre figli: Amelie, Jason e Aaron.

Dopo la laurea, nel 1969, O.J. entra nella squadra dei Buffalo Bills. Continua a mietere successi, diventando sempre più famoso e pagato. Conclude la carriera nella squadra della sua città, i San Francisco 49ers. Si ritira dall’agonismo nel 1979, a 32 anni, ma rimane comunque una celebrità. A Los Angeles inizia a lavorare come conduttore televisivo di programmi sportivi e come attore. Recita in Una pallottola spuntata e viene preso in considerazione per la parte del protagonista in Terminator, che sarà affidata ad Arnold Schwarzenegger.

In questi anni, O.J. inizia a frequentare Nicole Brown, una bella ragazza tedesca dai capelli biondi venuta in America in cerca di successo, anche se nella terra delle opportunità ha trovato solo un lavoro come cameriera. Ottenuto il divorzio, il campione sposa Nicole, con la quale ha due figli, Sydney e Justin. Ma neppure questo matrimonio funziona e la coppia divorzia sette anni dopo.

A guastare tutto sono i comportamenti violenti di lui, che la picchia anche dopo la separazione, tanto che Nicole arriva a denunciarlo per maltrattamenti. “Mi picchiavi così forte che dovevo mentire al medico”, scrive amaramente in una lettera all’ex, “non c’è stato un solo giorno della nostra vita insieme in cui tu non mi abbia fatto rimpiangere di averti sposato”. Arriviamo alla sera del 12 giugno 1994, quando Nicole porta la mamma a cena al Mezzaluna, un ristorante del quartiere. Tornata a casa, telefona al ristorante dicendo che la madre ha dimenticato gli occhiali da sole sul tavolino. Ron Goldman, cameriere e aspirante modello, li va a prendere, si fa una doccia e glieli porta di persona. Forse Ron e Nicole sono amanti, come pensa qualcuno, in ogni caso si conoscono da tempo. Poco dopo le 22, i vicini sentono il cagnolino di Nicole abbaiare rabbiosamente. 
A mezzanotte e dieci, alcuni passanti scorgono i cadaveri di Nicole Brown, 35 anni, e Ron Goldman, 25, distesi in un lago di sangue nel giardino davanti alla porta di casa. La donna è stata uccisa con una dozzina di coltellate che le hanno quasi mozzato la testa, mentre sul corpo del cameriere si contano 20 ferite.

Non ci sono testimoni, perché la madre della donna era tornata a casa sua, mentre i figli di Nicole e O.J. dormivano in un’ala lontana della villa. Non si trova nemmeno l’arma dei delitti, ma vicino ai due corpi c’è un reperto importante: l’assassino, che deve essersi ferito, si è sfilato il guanto sinistro e l’ha gettato a terra.

La polizia, a causa della recente denuncia per molestie, sospetta subito dell’ex marito. Per questo, il detective Mark Fuhrman va a indagare in casa di O.J. Simpson, dove scopre una macchia di sangue sulla portiera dell’auto del sospettato, parcheggiata a notevole distanza dall’abitazione. La casa è vuota, malgrado le luci accese. Per terra, in un vialetto dietro l’edificio, c’è l’altro guanto, il destro, sporco di sangue come quello trovato sulla scena del delitto.

Simpson, che era appena partito per Chicago, viene convocato per un interrogatorio, durante il quale gli agenti notano che ha un grosso taglio sulla mano sinistra. O.J. si giustifica dicendo di essersi ferito rompendo un bicchiere. Il campione dice di avere trascorso normalmente la serata in cui è avvenuto il delitto, ma alle 22.25 l’autista che era andato a prenderlo aveva inutilmente suonato il campanello della villa. Dopo mezz’ora d’attesa, l’uomo aveva notato una figura correre sul retro dell’edificio. Non aveva visto il volto, ma è certo che si trattava di un uomo dalla pelle nera. A quel punto, l’autista aveva suonato di nuovo, e solo allora un affannato Simpson aveva aperto la porta. Pochi giorni dopo l’interrogatorio, O.J. viene chiamato della polizia che gli intima di ritornare in centrale per ricevere la notifica dell’accusa di duplice omicidio. Il vecchio campione perde la testa e si dà alla fuga, che viene trasmessa in diretta da tutte le televisioni americane.

 

Il processo a O.J. Simpson inizia a Santa Monica il 24 gennaio 1995. La difesa è sostenuta da una squadra di sei agguerritissimi avvocati, tra i quali Alan Dershowitz, divenuto famoso per aver fatto assolvere Claus von Bülow dall’accusa di avere ucciso la moglie milionaria. Un sestetto soprannominato dai giornali Dream team (squadra da sogno) perché composto dai più capaci e pagati avvocati d’America. L’influsso dei difensori si avverte sin dall’inizio, quando riescono a infilare ben sette afroamericani tra i dodici giurati, pur essendo i neri poco numerosi in California.

Per l’accusa tutti i fatti dimostrano la colpevolezza dell’imputato, che non è mai stato un buon marito e un buon padre per via del suo comportamento violento. Inoltre era geloso di Nicole, perché continuava ad amarla anche dopo il divorzio. Vedendola sola con un uomo, che fosse o meno il suo amante, aveva perso la testa commettendo il duplice omicidio. La prova è rappresentata dai guanti insanguinati, uno trovato sul luogo del delitto e l’altro dietro la villa di O.J. Simpson. Altro sangue è stato scoperto sulla sua auto e l’esame del Dna ha stabilito che apparteneva alle due persone uccise.

Quando prendono la parola, gli avvocati della difesa fanno leva sui sentimenti degli afroamericani che compongono la maggioranza della giuria, accusando la polizia di Los Angeles di essere razzista perché ha pochi agenti neri tra le sue fila. Quindi la difesa si concentra su Mark Fuhrman, l’investigatore che ha trovato il guanto insanguinato vicino alla casa di Simpson. In una registrazione portata in aula, si sente la voce di Fuhrman inveire contro i criminali di colore. I difensori evocano quindi la possibilità che il detective abbia sottratto il guanto destro dalla scena del delitto per far condannare Simpson, un nero ricco e famoso.

Se il collegio della difesa è composto da vecchie volpi, il procuratore Darden, che sostiene l’accusa, è invece un novellino. Benché gli esperti gli abbiano spiegato che i guanti si sono probabilmente ristretti a causa dell’umidità del sangue, il procuratore chiede a Simpson di indossarli per vedere se gli stanno bene. Si rivelano troppo stretti.

Gli avvocati della difesa contestano anche la validità del test del Dna sul sangue trovato nell’auto di Simpson, perché non sono state seguite le rigide procedure previste per evitare contaminazioni ambientali.

Il 3 ottobre 1995, dopo essersi ritirata in camera di consiglio per meno di quattro ore, la giuria torna in aula dichiarando l’imputato non colpevole.
 L’eco di questa sentenza è enorme. Gli opinionisti osservano con preoccupazione che l’America sembra diventata un paese in cui i ricchi, che possono permettersi i migliori avvocati, vengono sempre assolti. Un comico della televisione definisce provocatoriamente O.J. Simpson “l’assassino più innocente del mondo”: «Dovete farvene una ragione», replica il campione senza scomporsi, «anche se i due cadaveri uscissero dalle tombe per accusarmi, non potrei essere processato una seconda volta».

I parenti delle vittime, però, dopo il processo penale ottengono che Simpson venga giudicato in sede civile per ottenere un risarcimento in denaro. In questo secondo processo la giuria è composta interamente da bianchi e asiatici, secondo i quali l’accusa di discriminazioni da parte della polizia risulta poco credibile. Il 4 gennaio 1996, i giurati del processo civile dichiarano Simpson colpevole e il giudice lo condanna a pagare 33,5 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. Simpson decide di non pagare il risarcimento e si trasferisce in Florida, uno Stato dove non si possono arrestare i debitori insolventi.

Tutto andrebbe per il meglio, se il campione non commettesse una sciocchezza colossale: nel settembre del 2007 Simpson invita in un albergo di Las Vegas alcuni collezionisti ai quali, in passato, aveva dovuto vendere alcuni trofei sportivi per pagare le parcelle ai suoi prestigiosi avvocati. Li attira promettendo che li ripagherà molto di più di quanto avevano speso pur di riavere i suoi trofei. In attesa dell’incontro, i collezionisti si chiudono a chiave con i preziosi cimeli in una stanza dell’albergo.

Non si aspettano certo che Simpson, insieme a quattro amici, entri nella stanza scassinando la serratura e li minacci con le pistole per farsi restituire i trofei. Alla polizia che lo va ad arrestare, il vecchio campione spiega confusamente che quei cimeli erano comunque suoi. L’anno successivo, O.J. Simpson viene condannato a 33 anni di carcere per rapina a mano armata e sequestro di persona.

Nel 2008, Mike Gilbert, un negoziante di articoli sportivi, afferma di aver sentito O.J. Simpson, che era suo amico, fare questa dichiarazione sotto l’effetto della droga: «Se la mia ex non avesse aperto la porta con quel coltello in mano, forse ora sarebbe ancora viva». Gilbert lo scrive nel libro “Come ho aiutato O.J. a evitare la condanna per omicidio”, nel quale spiega anche di aver consigliato all’ex campione di prendere dei medicinali in grado di provocare gonfiore alle mani, in modo da “dimostrare” che i guanti con i quali aveva ucciso la moglie non erano suoi.

Nel maggio del 2012, in un libro scritto dall’investigatore privato William Dear, “O.J. è innocente e io posso provarlo”, si sostiene che il vero assassino fosse l’allora 24enne Jason, il secondogenito del campione avuto dalla prima moglie. All’epoca, in casa di Jason era stato scoperto un coltello compatibile con quello usato per l’omicidio e il giovane era solito indossare un cappellino identico a quello trovato vicino ai cadaveri. Jason, del quale si sono perse le tracce, era un tossicodipendente noto per i suoi accessi di rabbia: il padre avrebbe attirato i sospetti su di sé per coprirlo.

Alcuni mesi dopo, nel novembre del 2012, il serial killer Glen Rovere, nel braccio della morte, dichiara di aver ucciso Nicole e Ron su commissione di O.J. Simpson, il quale sarebbe accorso poco dopo sulla scena del delitto per accertarsene.

Nel 2017, O.J. Simpson ottiene la libertà vigilata dopo avere scontato meno di un terzo della pena.

 

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Di Sauro Pennacchioli

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Un pensiero su “O.J. SIMPSON, UN CAMPIONE IN FUGA”
  1. Trovo l’articolo molto interessante e sicuramente esaustivo con tutte le informazioni necessarie sulla vicenda rispetto ad altri poco completi e che fuorviano il lettore da quella che è stata la vera vicenda. Sicuramente il caso O.J. Simpson è stato pieno di colpi di scena e azioni da parte della stampa che ho sempre considerato personalmente poco inerenti con il processo, come il trattamento che i giornali hanno riservato a Marcia Clark.

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