“Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri…”

Così comincia una filastrocca di Gianni Rodari, scrittore e poeta, uno dei pochi intellettuali che, da sinistra, difese il fumetto come linguaggio in anni in cui, a farlo, si passava per decerebrati.

Quali sono i mestieri rappresentati nel mondo dei comics? Sicuramente l’odore è lo stesso per tutti, quello della carta stampata; cambiano invece le rappresentazioni, dal momento che attribuire a un personaggio l’una o l’altra attività lavorativa, significa inevitabilmente spostare l’orizzonte della narrazione.

Ci sono, nel mondo dei fumetti, dei mestieri più ricorrenti, a volte narrati in forma molto vaga; pensiamo alla figura dello scienziato che da solo realizza tecnologie mirabolanti, alla Reed Richards. In genere, professioni intellettuali o avventurose, come l’esploratore o la spia, garantiscano maggiore appeal; ma a volte anche la classe operaia va in paradiso, con l’esaltazione del metalmeccanico nella striscia nota da noi come Tommy Wack, o addirittura del disoccupato cronico alla Andy Capp.

Cominciamo quindi un piccolo, scanzonato viaggio nel mondo dei mestieri nel Fumetto; con la solita avvertenza che non si vuole menzionare tutto, e che le scelte, sia dei mestieri che dei fumetti, saranno puramente arbitrarie, seguendo gusti ed esperienze di lettura totalmente personali.

L’attività di cui ci occupiamo in questa prima puntata è quello del DIRETTORE DI CARCERE.

È una figura a volte truce, che può essere rappresentata anche come un uomo violento, avido, la cui abitudine a frequentare malviventi ha finito con il renderlo più malvagio di loro; o, al contrario, può essere un buon samaritano, che crede nella rieducazione del condannato. Ultimamente, anche una samaritana; almeno in Italia, infatti la maggior parte degli istituti di pena sono diretti da donne. Secondo dati del sito del Ministero della Giustizia aggiornati ad aprile 2024, su 185 istituti penitenziari italiani, esclusi 3 privi di titolare, solo 49 hanno guida maschile. Una realtà, naturalmente, legata alla contemporaneità italiana, e che non può emergere in tanti fumetti prodotti o ambientati nel passato.

Come altri lavori legati al mondo della giustizia, anche quello del direttore/direttrice di carcere può essere utilizzato a scopo umoristico, in genere al fine di mostrare (come accade anche per il giudice, l’avvocato, il notaio) un soggetto del tutto strampalato, che deve attenersi a procedure astruse e, incapace di farlo, finisce col combinare pasticci.

Ecco cinque schede con cui si salta di qua e là nella storia del fumetto vecchio e nuovo.

 

Tex, Mister No e altri bonelliani

Il ranger del Texas, uno dei personaggi più longevi nella storia del fumetto italiano, ha vissuto talmente tante avventure, dal 1948 a oggi, da aver incrociato varie volte il mondo carcerario. È stato anche detenuto in prima persona in una famosa storia apparsa nella serie gigante dal n. 141 al n. 145, più volte ristampata, nella quale Tex finisce al centro di un colossale intrigo: fatto passare per assassino attraverso una complessa macchinazione, si rende conto di non poter risolvere la cosa alla sua maniera, cioè a cazzotti o pistolettate, e segue una strada perfettamente legale. Si lascia docilmente arrestare, nomina un avvocato, si sottopone al processo, viene condannato a vent’anni di reclusione (le prove, false come Giuda, sono tutte contro di lui), e sembra inizialmente accettare il suo destino nel carcere di Vickburg, non senza però aver parlato con i suoi pard e averli incaricati di cercare elementi in vista di una revisione del processo e della individuazione dei responsabili dell’imbroglio.


L’esordio del direttore, in questa storia, è abbastanza inglorioso; in pieno post-sbronza, sdraiato sul divano della sua stanza, si limita a rivolgere ordini al sergente Murdock, capo di quella che oggi chiameremmo Polizia penitenziaria; è proprio questo Murdock a incarnare, nel prosieguo della storia, la parte sadica che, nelle vicende di ambientazione carceraria, non manca mai.


Si può dire, in sostanza, che proprio nella storia di Tex con il maggior numero di pagine ambientate in una galera, il direttore è una figura ben meschina, una sorta di macchietta incapace di controllare ciò che avviene intorno a lui. Nulla di strano, del resto; anche nel cinema italiano la figura del direttore di carcere resta spesso in bilico tra tragedia e commedia; basti pensare a “Detenuto in attesa di giudizio”, film del 1971 diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi in una delle sue rare parti drammatiche, dove il ruolo del direttore fu affidato a Lino Banfi.

Tex “torna” in prigione altre volte; in una di queste occasioni (n. 224), l’ambientazione carceraria è evidente sin dalla copertina di Galep, che mostra un duello al coltello tra il ranger e un detenuto; ma in questo caso il nostro eroe non è accusato di alcun reato, e semplicemente deve valutare la proposta di arruolare detenuti per una “missione suicida”, come recita il titolo dell’albo. Nessun direttore fa la sua apparizione; l’istituto di pena sembra gestito esclusivamente da personale militare.

Ben più importante, allora, la storia che inizia sul n. 447, dal momento che qui invece il direttore del carcere è il vero cattivo della vicenda.

L’esimio Cardoso, direttore della prigione di Chihuahua, scopre che un suo ex “ospite”, apparentemente morto, è in realtà vivo e vegeto e nasconde diamanti del valore di 300.000 dollari. L’occasione fa l’uomo ladro, come lui stesso spiega nel proporre, ad un altro detenuto, un piano per impossessarsi dei preziosi.

La storia della casa editrice Bonelli ove l’ambientazione carceraria ha maggior impatto sulla vicenda, però, non vede come protagonista Tex, bensì Mister No. Scritta da Alfredo Castelli, ispirata al romanzo “Papillon” di Henri Charrière e al film che ne fu tratto, la storia vede, come nel caso di Tex, anche questa volta il protagonista della serie finire ingiustamente condannato e incarcerato.

Nuovamente, il ruolo di persecutori sadici e violenti spetta alle guardie carcerarie, mentre il direttore del penitenziario (in realtà una casa di lavoro su un’isola, con i detenuti relativamente liberi di muoversi) ha un diverso problema: una figlia idealista, che lo accusa di non fare nulla per il benessere della popolazione detenuta.

Più tardi la giovane si mette in testa di investigare, di nascosto dal padre, sulle vere condizioni dei prigionieri; ma, per far ciò, finisce nelle mani di uno di loro, che sarebbe pronto a usarle violenza, se non intervenisse il nostro eroe. A seguito di questo episodio, la giovane prova a intercedere presso il padre perché garantisca condizioni migliori ai detenuti, ma alla fine decide di fuggire dall’isola insieme a Mister No, convinta di essere altrettanto prigioniera dei veri condannati. Purtroppo la vicenda ha un finale drammatico: la giovane muore nel tentativo, e il padre, convinto che la responsabilità sia di Mister No, dismette i panni del funzionario pubblico e decide di farsi ragione da sé, picchiando a sangue l’incolpevole eroe.

Anche in questo caso la storia ha un lieto fine: revisione del processo e scarcerazione del detenuto. Va dato atto al direttore che, appena ricevuta la notizia, ha cura di far immediatamente uscire l’eroe ingiustamente ristretto.

L’idea dell’isola – prigione è comunque un topos ricorrente nel fumetto di avventura anche bonelliano: si veda appunto, molto più recentemente, “I prigionieri dell’isola” (Nathan Never n. 129).

 

Supereroi Marvel

Una volta i supereroi acquisivano i loro poteri in ambienti “puliti” (laboratori scientifici, navi spaziali) o comunque appartenevano all’alta borghesia (Bruce Wayne alias Batman), se non erano addirittura delle divinità o quasi (Wonder Woman, Thor). Poi la società divenne più complessa, si aprì, per fortuna, a nuove istanze (le donne, le minoranze etniche eccetera), e così anche un luogo oscuro come il carcere divenne il trampolino di lancio per intraprendere una carriera da eroe. L’esempio migliore in tal senso è Luke Cage, personaggio della casa editrice Marvel, apparso negli Usa nel 1972 e proposto in Italia già l’anno successivo.

La Marvel aveva provato a lanciare un supereroe di pelle scura fin dal 1966; ma Pantera Nera, oggi più noto anche come protagonista di alcuni film, era in realtà il sovrano di uno stato africano. Il primo supereroe realmente afroamericano fu creato nel 1969 (Falcon, comprimario di Capitan America), ma anche in questo caso, l’origine è piuttosto convenzionale. Con Luke si cambia decisamente percorso, la storia di origine è cupa e intrisa di violenza, e il carcere garantisce una efficace ambientazione. Lucas è cresciuto in strada nei ghetti neri, ma si è ritrovato in prigione per un reato non commesso, incastrato da un ex amico. Per il rifiuto di fare l’informatore viene vessato da guardie carcerarie violente, che lo pestano ripetutamente, fino all’arrivo di un nuovo direttore, un riformatore i cui primi atti consistono nell’esautorare il capo delle guardie e nel licenziare seduta stante uno dei picchiatori. È un esempio di direttore illuminato, al quale però non riesce di evitare ulteriori violenze da parte dei suoi sottoposti.

Il direttore Stuart riappare qualche anno dopo nella serie, in un episodio da cui si apprende che l’evasione di Luke Cage gli costò il posto e indusse i suoi figli a diventare supercriminali per sconfiggere Luke stesso; decisamente un contrappasso per l’uomo che aveva cercato di portare giustizia e umanità dietro le sbarre.

Un’altra classica storia Marvel degli anni ’70 di ambientazione carceraria è il n. 99 della serie The amazing Spider-Man, intitolata, non casualmente, “Panico nella prigione”.

La prima apparizione del direttore vede il solito uomo dai capelli bianchi sudar freddo al telefono, con le pistole puntate dei detenuti in rivolta; si potrebbe pensare a un funzionario pavido e inadeguato al ruolo, ma il prosieguo della storia è tutt’altro: l’Uomo Ragno interviene a sedare la rivolta, ma si rende conto delle ragioni ideali di essa (anche se strumentalizzate dal leader dei rivoltosi) e il direttore, ripreso il suo sangue freddo, convince i detenuti a rientrare in cella, promettendo che si impegnerà in prima persona per una amnistia (promessa non credibile sul piano giuridico, poiché simili decisioni spettano alla magistratura, ma funzionale nell’ambito del “messaggio” civile della storia).

Il direttore tiene fede all’impegno preso e, intervistato da stampa e tv, improvvisa una sorta di comizio chiedendo riforme e fondi per prigioni migliori; e lo stesso Uomo Ragno, a dimostrazione che i supereroi non sono ottusi tutori di legge-ordine-e-manganello, nella stessa storia partecipa ad un programma televisivo facendo il paladino dei diritti dei detenuti.

Poco noto da noi, il personaggio che presenta lo show è il mitico Johnny Carson, conduttore di 6.714 puntate nell’arco di trent’anni.

Infine, nello stesso decennio, un’altra rivolta carceraria ha luogo sul n. 39 della serie I difensori. Qui la Valchiria, una dei componenti del supergruppo, si trova a essere arrestata ed è oggetto delle attenzioni di un direttore decisamente triviale, il quale mette da parte ogni interesse riformatore e manifesta subito il tipo di attenzioni che intende riservare alle detenute carine.


Nelle storie qui mostrate, il direttore è sempre un civile, un soggetto diverso, ma sovraordinato, rispetto al personale in divisa. Negli ultimi anni, i supereroi sono più noti per i film che per i fumetti; ed è da notare che nell’Mcu, l’universo cinematografico della Marvel, l’istituto penitenziario che compare più spesso è “The Raft”, un carcere speciale per super-esseri, diretto però da un militare: l’ex generale Thaddeus Ross (interpretato, in cinque film, dal defunto William Hurt, mentre per eventuali progetti futuri, si prevede l’arruolamento di Harrison Ford).

 

Supereroi Dc

Quale personaggio della Dc Comics, nella sua lunga carriera, ha svolto anche la funzione di direttore di carcere? Batman, naturalmente. In una storia del 1951, apparentemente inedita in Italia, l’uomo-pipistrello si accorge, all’ultimo secondo, dell’innocenza di un detenuto che sta per essere condotto sulla sedia elettrica; si reca personalmente presso il penitenziario, e convince il direttore a posporre l’esecuzione in attesa dell’autorizzazione del Governatore.

Fin qui l’inizio è un classico topos letterario; il tentativo di salvataggio all’ultimo secondo del condannato a morte ricorre nel n. 1 di Action Comics (la prima storia di Superman e, secondo molti, il primo fumetto di supereroi) e in film come il classico “Non voglio morire” di Robert Wise, del 1958. La nostra storia però prosegue allorché Batman si accorge che il direttore del carcere è praticamente quasi cieco e con i detenuti finge di vedere, aiutandosi contando i passi nei corridoi, perché preoccupato che ammettere la sua malattia, o assentarsi per sottoporsi a cure, comporterebbe pericoli per la sicurezza dell’Istituto.


La soluzione trovata dallo sceneggiatore dell’albo, oggi, per la sua inverosimiglianza, farebbe storcere il naso anche ai lettori bambini, ma all’epoca si era meno esigenti: Batman diventa direttore in attesa della nomina di un sostituto ufficiale! È solo l’inizio, però, dal momento che la storia continua con altre trovate, e il nostro eroe a un certo punto cambia completamente strategia e per scoprire il mistero di una finta evasione, si traveste da detenuto…

Curiosamente molti anni dopo, in una miniserie del 2019, “Il Batman che ride”, un Bruce Wayne torna ad apparire come direttore di una prigione; si tratta però di una storia sui generis, appartenente a una sorta di mondo alternativo rispetto a quello delle avventure “ordinarie” dell’eroe. Una dimensione nella quale Bruce Wayne, dopo la morte dei genitori, non è divenuto, per vendicarli, un vigilante in costume, ma ha realizzato, a sue spese, un immenso carcere, per stiparvi più delinquenti possibile.

 

Alan Ford, Topolino, e altri personaggi umoristici

Alan Ford è un fumetto italiano, in edicola dal 1969, caratterizzato spesso da un umorismo paradossale e da una satira che colpisce tutto e tutti; pressoché ogni categoria lavorativa è stata presa di mira in almeno uno degli oltre 600 episodi pubblicati. Un direttore di carcere in linea con lo spirito della serie lo troviamo nel n. 67 del 1975: nel carcere di San Quintino è ristretto un boss della criminalità organizzata chiamato Grande Cesare, e il direttore sembra totalmente soggiogato dal detenuto, che si comporta in prigione come se fosse in un albergo a quattro stelle. Del resto gli anni in cui fu scritta la storia erano quelli in cui il carcere di Palermo era ribattezzato “Grand Hotel Ucciardone”, per il modo in cui i capi mafiosi vi facevano entrare anche cibi e vini di lusso. Il direttore arriva al punto di chiedere al Grande Cesare, qui chiamato “sua signoria”, se può riceverlo.

Si scoprirà però, più avanti, che non si tratta del vero direttore, bensì di un attore che ne ha preso il posto e che lo impersona perfettamente, al solo scopo di rubare le paghe del personale; operazione che sarà sventata da Alan Ford e dai suoi compagni del Gruppo Tnt.

Sebbene il soggetto in questione sia un fake, si può serenamente affermare che questa citazione ci consente di descrivere un tipo di direttore di carcere ancora diverso da quelli visti finora, e cioè quello forte con i deboli, ma debole con i forti; anzi, con il forte per antonomasia (successivamente, nella serie, il Grande Cesare viene scarcerato, passa dalla parte dei “buoni”, poi però ritorna al crimine… ma questa è un’altra storia).


La banda dei Dalton, antagonista ricorrente nelle storie di Lucky Luke (personaggio umoristico creato dal belga Morris nel 1953), entra ed esce dal carcere; inevitabile quindi che di quest’ultimo sia mostrato anche il direttore, per lo più totalmente disperato all’idea di avere a che fare con banditi sistematicamente dediti a tentativi di evasione.

Ecco qui un esempio tratto dall’episodio “Ma Dalton”, del 1971, dove il direttore è costretto ad alzarsi nel cuore della notte, dopo che i quattro fratelli hanno dato fuoco a dei materassi per fuggire.

Nella serie televisiva animata “I Dalton”, trasmessa anche in Italia, il carcere diventa addirittura la principale ambientazione; quasi tutti gli episodi si sviluppano intorno all’idea che i banditi cercano di fuggire dalla prigione; il direttore di essa, Melvin Walter Peabody (fisicamente ben diverso da quello mostrato sopra), diventa anzi il vero coprotagonista della serie, con i suoi patetici tentativi di tenere a bada gli scatenati Dalton, e di contribuire a migliorare la reputazione dell’istituzione da lui diretta.

E infine, come accennare al fumetto umoristico senza buttare un occhio nel mondo Disney?

Detto che, agli albori, non c’era molta differenza tra “buoni” e “cattivi” (in un cortometraggio del 1930, “The chain gang”, Topolino è addirittura un detenuto, senza alcuna spiegazione di come lo sia diventato), quando il mondo Disney comincia a strutturarsi con i personaggi che conosciamo oggi, la parte dei detenuti spetta prevalentemente a Gambadilegno, a Macchia Nera o alla Banda Bassotti.

Un esempio di direttore di carcere totalmente incapace è questo disegnato da Paul Murry nel 1966; la storia, di produzione americana, che originariamente si intitola “The Phantom Blot – Secret Sea Raider”, apparsa da noi su Topolino n. 570 del 1966 e su varie ristampe, mostra un direttore che, appena compreso che Macchia Nera ha in mente di evadere, non trova niente di meglio da fare che telefonare a Topolino. L’evasione avrà luogo subito dopo, e Topolino (qui insolitamente coadiuvato da Paperino) sarà, al solito, l’unico a capirci qualcosa e a inseguire il fuggitivo, mentre direttore, polizia penitenziaria, e organi vari dello Stato, ignorano del tutto la faccenda.

 

 

Un direttore di carcere apparentemente in combutta con i malviventi appare nella storia “Paperinik e la sfida di Fantomat”, pubblicata nel 1981 su Topolino nn. 1319-1320. Alla fine si scopre che si trattava di un impostore, come nella storia di Alan Ford; ma, in fondo, di che stupirsi? Le cronache giornalistiche, nel 2018 riportarono la notizia dell’arresto dell’ex direttore del carcere di Bergamo, che era andato in pensione poche settimane prima, e che dopo un periodo in custodia cautelare, fu condannato in primo grado per 14 capi di imputazione sui 21 complessivi contestatigli. A volte la realtà supera la fantasia.

Concludiamo con un abbraccio, non ideale, ma disegnato, e torniamo alla figura del direttore di buon cuore, che cerca di fare il bene dei suoi detenuti, in questo caso consentendo l’accesso ad una ricca biblioteca.

 

Il fumetto realistico contemporaneo

Negli ultimi anni, il tema carcerario è stato oggetto di libri a fumetti (chi vuole è libero di chiamarli “graphic novel”), opere autoconclusive destinate a far conoscere al lettore un’esperienza detentiva a volte narrata dalla viva voce dell’autore.

Nel campo dei manga, rientra in questo ambito “In prigione”, di Kazuichi Hanawa, pubblicato in Italia dall’editore Coconino nel 2004. L’autore, condannato a tre anni di reclusione per il possesso di armi (nonostante tanti testimoni a suo favore avessero dichiarato che si trattava di un collezionista appassionato e non di un utilizzatore), narra con dovizia di particolari, e con disegni dettagliatissimi, la sua esperienza in due diversi istituti. Nonostante i moltissimi riferimenti ai compagni di cella e in generale alla organizzazione della struttura, nessun direttore vi compare; l’autore ha inteso fare riferimento alla continuità routinaria delle attività svolte, anche le più personali (reiteratamente vi si rappresenta mentre mangia, dorme, espleta funzioni corporali), e in una simile narrazione un eventuale incontro col direttore, se anche fosse avvenuto o fosse consentito dalle leggi locali, sarebbe stato comunque una deviazione dalla routine, mentre lo scopo del mangaka sembra essere proprio quello di mostrare come il detenuto si adatti ad una nuova condizione, anche quando essa sia del tutto innaturale e disumanizzante.

Un lavoro molto diverso è quello realizzato dalle sorelle Delphine ed Anaële Hermans, che narrano la vera storia di Valérie Zézé, una ex insegnante che precipita nel gorgo della tossicodipendenza e comincia a entrare e uscire dal carcere di Bruxelles. Il libro si intitola “Pericolose – il mio diario dal carcere”, e la versione italiana è apparsa nel 2020 a cura dell’associazione culturale Comicout.

Le autrici qui scelgono una strada intermedia rispetto a quella di Hanawa; il riferimento alla direttrice (finalmente donna) è frequente, ma ella non compare mai in scena. Viene ad esempio evocato, nel dialogo tra le detenute all’ora d’aria, il parere che potrà esprimere al Tribunale.

Oppure si fa riferimento alle mitiche “domandine”, ossia alle istanze, così chiamate in gergo carcerario, che ciascun detenuto può esprimere alla direzione, e che possono riguardare qualunque tipo di doglianza o richiesta di autorizzazione a un qualcosa. Va detto che nel fumetto in esame, nonostante il carattere drammatico delle vicende della protagonista, e nonostante gli inevitabili riferimenti agli aspetti anche ottusamente burocratici della vita dietro le sbarre, emerge una realtà sicuramente migliore di tanti istituti italiani; la vicenda è ambientata in Belgio, a Bruxelles, detenute e agenti si danno del lei e sembrano reciprocamente rispettarsi.

Tonio Vinci, un autore al quale recentemente la meritoria rivista Fumo di China, sul n. 341, ha dedicato una intervista, a sua volta ha pubblicato un libro a tema: “Fumetti per l’evasione” edito nel 2024 dalla Momo Edizioni; anche in questo caso il direttore è evocato ma non rappresentato, poiché l’autore, che narra in prima persona di un corso di fumetto tenuto ai detenuti, preferisce concentrarsi sulle emozioni suscitate in lui dall’inaspettato incarico.

“L’ergastolo di Santo Stefano, fine pena mai”, di Stefano Tamiazzo (editore Ultima Spiaggia), anch’esso pubblicato quest’anno, ripercorre storie del carcere (ormai chiuso) di Ventotene, ove fu confinato, durante il fascismo, il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Tra le altre storie narrate a fumetti nel volume c’è quella di Eugenio Perucatti; considerato troppo “riformatore”, venne sostituito nel 1960 a seguito di un’evasione, esattamente come il direttore Stuart nei fumetti di Luke Cage.

A volte la fantasia imita la realtà.

 

© Francesco Lentano

 

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