Maus è un romanzo a fumetti (graphic novel) che racconta la storia della Shoah: la cattura, la deportazione e lo sterminio degli ebrei attuato dai nazisti.

L’autore, Art Spiegelman, è figlio di una coppia ebrea, Vladek e Anja, che aveva subito la deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz. Art aveva deciso di realizzare un fumetto che raccontasse che cosa era successo ai suoi genitori.

Il padre è un uomo pessimista, paranoico, un tirchio che raccoglie e conserva anche gli spaghi…

 

Art Spiegelman

MAUS, I TOPI NEL PAESE DEI GATTI

Il giovane Art vuole fare il disegnatore di fumetti e non sopporta suo padre. Se ne vergogna, non vuole vivere insieme a lui.
Gli Spiegelman, dopo la guerra, riuscirono ad arrivare negli Stati Uniti passando per la Svezia dove nacque Art. A Stoccolma, nel 1948.

 

L’arte di arrangiarsi di Vladek

MAUS, I TOPI NEL PAESE DEI GATTI

Maestro nell’arte di arrangiarsi, Vladek, padre di Art, è molto orgoglioso delle sue doti di “manipolatore” che, secondo lui, gli hanno consentito di sopravvivere. Nella pagina sopra vediamo Vladek che si traveste da polacco (maschera da maiale). I polacchi odiano gli invasori tedeschi e, servendosi di quel sentimento, riesce a salvare la pelle.

Non è dello stesso parere Primo Levi, che nel suo Se questo è un uomo attribuisce il fatto di essere sopravvissuto al lager alla fortuna, alla casualità.

 

Primo Levi a Torino

 

In una casa di Torino in corso Re Umberto 75, Primo Levi era nato e cresciuto. Vi ritornò dopo la prigionia ad Auschwitz.
Continuò a restare nella casa dove era nato e vi morì, probabilmente suicida, cadendo nella tromba delle scale.

Io passavo davanti a quella casa in tram per andare a casa mia, in corso Orbassano. Sapevo chi era Primo Levi. Se questo è un uomo era stato pubblicato nel 1947 dal piccolo editore De Silva in 2500 copie, perché era stato rifiutato dalla Einaudi, la grande casa editrice di Torino.
Nel 1956 era stato finalmente pubblicato dalla Einaudi, dopo la morte di Cesare Pavese, che era sempre stato contrario alla sua pubblicazione.
Quel libro, così pacato, così piemontese, è stato il Le mie prigioni di noi ragazzi del 1945. Le mie prigioni di Silvio Pellico è un libro di memorie che racconta i suoi anni di prigionia allo Spielberg. Appassionò gli italiani alle idee risorgimentali.

 

Il diario di Anna Frank

Nel 1954 venne pubblicato in Italia il Diario di Anna Frank (uscito per la prima volta in Olanda nel 1947).
Era il diario di una ragazza ebrea nata a Francoforte, in Germania, e vissuta nascosta dietro un’intercapedine nell’azienda del padre ad Amsterdam.
Scoperta dai nazisti, venne internata a Auschwitz. Anna morirà di tifo a Bergen-Belsen nel febbraio o marzo 1945. Scrisse il diario tra il 1942 al 1944. La prima pubblicazione fu curata dal padre.
In Italia diventò subito un libro culto. Tutte le ragazzine lo leggevano. Quella ragazzina sfortunata era così simile a noi! Nel 1954 io avevo 9 anni.

 

Vita da topi dove comandano i gatti

MAUS, I TOPI NEL PAESE DEI GATTI
“C’erano recinzioni tutto intorno! Nessun topo (=ebreo) poteva uscire dal ghetto, né cibo, né medicine ci potevano entrare! Ci trattavano come fossimo insetti, peggio! Non riesco neanche a descriverlo…”. Nella nuvoletta: “Vuoi comprare una patata?”

 

Torino aveva una comunità ebraica. I testimoni della Shoah che erano ancora vivi dopo il 1945 venivano nelle classi a parlare con noi. Erano persone pacate e molto tristi.
Quando sono andata all’Università ho conosciuto dei ragazzi ebrei. Gli ebrei di Torino stavano molto tra di loro a chiacchierare fittamente. Le ragazze portavano gonne lunghe al polpaccio ed erano molto serie.
Mi invitavano ai loro incontri dove parlavano dei tempi andati. Una volta ci andai trascinandomi dietro una mia amica. Al tempo una ragazza prudente viaggiava sempre in coppia.
Arrivammo in una villa enorme in disuso. Pare fosse stata la casa di un farmacista. C’era una cucina stupenda abbandonata da tempo.
Non successe nulla. Le ragazze non sapevano cucinare e neppure i ragazzi. Io e la mia amica ce ne andammo.

Sicuramente non era gente che si arrangiasse. Neanche io mi arrangiavo, ma tutti noi eravamo della leva di Art, non di suo padre.
Forse eravamo stati viziati, cresciuti in un periodo di grande sviluppo.

 

L’arte di arrangiarsi

Art Spiegelman odia che suo padre apprezzi in se stesso la capacità di arrangiarsi. Vladek cerca di spingere il figlio in quella direzione, vuole che osservi e impari.

Ricordo la lode dell’arte di arrangiarsi come tipica della generazione di mio padre, che era sopravvissuto alla guerra. Chi era adulto durante la Seconda guerra mondiale doveva sapersi arrangiare per forza.

Mio padre raccontava: “Eravamo sfollati a Pino Torinese, in collina. La nostra casa era stata bombardata. Una mattina mi alzai e andai in cucina. Era il 1943. I bombardamenti su Torino erano  frequenti perché la Fiat produceva bombe. Era domenica ed erano le 7. Tua nonna piangeva. Si asciugava le lacrime con il grembiule” .

Mia nonna non era molto alta. Aveva la pelle rosea e i capelli raccolti in una treccia che formava uno chignon fermato con forcine di finta tartaruga. Era morbida e  calda, profumava di formaggio e burro. Non aveva ancora cinquant’anni, eppure i suoi capelli erano già bianchi, oltre a essere sformata dalle gravidanze. Ma il viso era liscio e senza rughe.

Mio padre le chiese: “Perché piangi? Che cosa hai?”.

“Siamo in 13 a pranzo e non ho niente, non so che cosa mettere in tavola”.

Poteva essere intorno a Pasqua.

Mio padre le disse: “Non piangere. Vado a spiantare le patate, farai gli gnocchi”.

“Ma le patate sono ancora piccole, sono patatine, è troppo presto. Dovremo spiantarne una collina intera per dare da mangiare a tutti”.

Quel giorno mio padre giurò che non gli sarebbe mai più successo in tutta la sua vita. Si sarebbe dato da fare in ogni modo per non trovarsi mai più in una simile situazione.

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L’arte di arrangiarsi di Luigi Zampa con Alberto Sordi, 1954

 

Il regista Luigi Zampa fece pure un film sull’arte di arrangiarsi, con Alberto Sordi nella parte di un opportunista che cambia casacca per salvarsi e avere dei vantaggi.

 

Arrangiarsi ad Auschwitz

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I portone di ingresso di Auschwitz

 

Nel 1941 Adolf Hitler aveva deciso di eliminare fisicamente gli ebrei europei. Comunicò la sua decisione a Heinrich Himmler, capo delle SS, che convocò Rudolf Hoss.
Hoss era il comandante del campo di Auschwitz. Himmler gli disse che Auschwitz avrebbe svolto un ruolo fondamentale nello sterminio degli ebrei europei.

Rudolf Hõss  testimoniò questo al processo di Norimberga, che si tenne dal novembre del 1945 all’ottobre del 1946. Nel processo furono processati e condannati i capi nazisti ancora in vita (Hitler e Himmler si erano suicidati) e i loro fiancheggiatori.

 

Se questo è un uomo

Il signor Mandelbaum, prigioniero ebreo ad Auschwitz

 

I “negazionisti” sostengono che Hitler non avesse alcuna intenzione di sterminare gli ebrei. Secondo loro i prigionieri ebrei morirono per cause naturali, soprattutto per la tubercolosi. Le loro tragiche condizioni di vita sarebbero dovute alla situazione della Germania alla fine della guerra, stremata dai bombardamenti alleati.

 

Meglio la morte che Auschwitz

Tosha, la zia di Art, si suicidò con i figli e il nipotino piuttosto di finire in un lager

 

Sopravvivere ad Auschwitz era impossibile. I prigionieri ne erano perfettamente coscienti. Alcuni si buttavano contro i fili dell’alta tensione intorno al campo. Una zia di Art, sorella della madre, si suicidò e uccise i propri figli e Richieu, fratello di Art, piuttosto di finire in un lager.

 

I Sonderkommando

Nella vignetta in alto a destra i prigionieri con la divisa a righe lavorano in una fossa comune

 

Chi era più forte e grintoso cercava in tutti i modi di sopravvivere. I tedeschi che gestivano il campo avevano creato un sistema per riuscire a governarlo evitando che gli internati si coalizzassero contro le guardie.
Erano i prigionieri stessi che organizzavano il campo, soprattutto per i lavori più squallidi e brutali.

Costituivano le Sonderkommando, unità speciali ebraiche. L’esistenza delle Sonderkommando, cioè degli ebrei che, nella speranza di salvarsi, aiutarono i tedeschi a sterminare gli altri ebrei, è stata un problema morale per i sopravvissuti.

 

Non trasformate le vittime in carnefici

Credo che su questo argomento le parole più illuminanti siano di Primo Levi in I sommersi e salvati.

“È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana”.

 

Mio padre è un vecchio ebreo gretto

Vladek, secondo il figlio, è la caricatura del vecchio ebreo gretto

 

Art non è accecato dall’amore filiale per questo padre così ingombrante. Per lui, il padre è la caricatura del vecchio ebreo gretto.

Art si sente e sempre si sentirà inadeguato.

 

Come si può competere con un padre che è sopravvissuto ad Auschwitz? L’analista Pavel cerca di consolarlo. Art è nato in un altro luogo, in altri tempi. In questa vignetta Art è un topo (ebreo) mentre Pavel (l’analista), indossa la maschera del topo cioè si mette nei suoi panni.

 

La diffidenza nei confronti di tutti

La diffidenza

 

Vladek comunque cerca di trasmettere al figlio qualcosa della sua esperienza. Per esempio a diffidare di tutti, a non credere ai presunti amici.
Questo, timidamente, cercava di farlo anche mio padre.

 

Viaggio nei campi di sterminio: Mauthausen

Nel 1965 o 1966 il comune di Nichelino, dove vivevo, organizzò un viaggio ai campi di sterminio.
Io avevo vent’anni. Non avevo dubbi, non volevo andare a vedere con l’intenzione di verificare che Primo Levi avesse raccontato la verità. Sapevo bene che era tutto vero, ma volevo comunque vedere con i miei occhi.

Viaggiammo in pullman. Ad accompagnarci c’era un reduce dai campi di sterminio che parlò pochissimo. Se ne stava tranquillo sul pulman e, man mano che avanzavamo, divenne sempre più taciturno.

Entrammo in Austria e ci dirigemmo verso la città di Linz. A est di Linz, nell’Alta Austria, c’era il campo di Mauthausen, in una zona verdeggiante e collinare. Sembravano le colline del Monferrato, da dove proveniva mio padre. Un paesaggio dolce e noto che non poteva riservarmi sorprese.
Non esistevano ancora i navigatori. Ci perdemmo.
Allora l’autista si fermò, aprì lo sportello e chiese a un contadino austriaco che passava: “Mi scusi, dov’è il lager, dov’è il campo?”. Il contadino si mostrò seccato, infastidito: “Non so, non so nulla. Andate via”.

Il lager era vicinissimo e, per tutto il periodo in cui fu in funzione, i contadini andavano a ritirare la cenere da Mauthausen per concimare i campi. Io ho un odorato sviluppatissimo, è il mio senso più sviluppato. Sentivo un odore dei morti tremendo vicino al campo di Mauthausen.
Non so se fosse un effetto psicologico o l’odore dei morti avesse talmente impregnato l’aria che ancora, dopo 20 anni, perdurava. Andammo a vedere la cava di granito in cui lavoravano gli ebrei del campo. Mauthausen fu liberato il 5 maggio 1945 dalle truppe americane.

Con il pulman ci dirigemmo verso il confine polacco. Negli anni sessanta la Polonia faceva parte del blocco sovietico. Arrivati al confine le operazioni doganali furono piuttosto lunghe. Alla fine entrammo in Polonia. Auschwitz in polacco si chiama Oświęcim.

Il campo ci apparve spettrale, in mezzo alla piana senza fine. Non faticavamo a immaginare come si sentissero i prigionieri quando arrivavano in treno sui vagoni stipati all’inverosimile. Auschwitz era stata raggiunta dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945.
Levi arriva a Torino il 19 ottobre dello stesso anno, dopo un epico viaggio attraverso l’Europa devastata.
Vladek con Anja, dopo vari spostamenti, viene trasferito in Svezia, dove, nel 1948, nasce il piccolo Art. In seguito gli Spiegelman si trasferiranno negli Stati Uniti.

 

Ancora prigioniero sul pianeta Inferno

Questi erano i bei tempi della casa del suocero, il padre di Anja. Non c’era più nessuno di quelle persone.

“Perché cerchi di spingermi, Vladek? Lasciami sola. Io non voglio più vivere”

 

Anja, la madre di Art, ha sopportato la sparizione della sua famiglia, la morte dei suoi genitori, la morte del bellissimo figlio primogenito. È giunta negli Stati Uniti dopo essere passata per Auschwitz. Ma ora, come tanti altri reduci dai campi di sterminio non ce la fa più. Non vuole più vivere.
Il figlio Art le dà tante preoccupazioni.

I parenti attribuiscono al figlio Art il suicidio della madre

 

Gli ebrei negli Stati Uniti non sono più topi. Si differenziano e giudicano il comportamento di Art.
Art ha assunto sostanze stupefacenti e ha una storia di dipendenza. È prigioniero del pianeta inferno ma non è un topo, non è identificato con l’orrore in quanto ebreo.
I suoi parenti, gli altri ebrei, lo giudicano e lo considerano responsabile della morte della madre, o perlomeno, è quello che percepisce lui.

La prigionia di Art

 

Art non è prigioniero nel lager, ma ha dei sensi di colpa per il suicidio della madre.
Non è Auschwitz, ma è comunque un inferno.

 

 

 

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