Alzi la mano chi ha avuto la fortuna di assistere alla proiezione in una sala cinematografica di uno dei film più belli di Dario Argento: Quattro mosche di velluto grigio. Chi ha potuto farlo ricorderà certamente l’uso sapiente del buio, capace davvero di suscitare un’angoscia sottile nello spettatore. Alcune scene sono talmente oscure che ancora oggi Quattro mosche di velluto grigio è, per ovvie ragioni, uno dei film di Argento meno trasmessi in televisione.

Naturalmente ogni confronto col capolavoro del maestro romano è improponibile. Tuttavia Fede Alvarez, regista di Man in the Dark (al suo attivo il remake di La casa, folgorante esordio di Sam Raimi, qui produttore), sembra volerne seguire l’esempio. D’altra parte, il titolo scelto per la distribuzione italiana (quello originale è Don’t Breathe) lo fa capire abbastanza chiaramente.
La vicenda può essere riassunta in poche righe: tre giovani ladri decidono di rubare in casa di un anziano cieco e apparentemente innocuo, ma scoprono che in realtà è un pericoloso maniaco.
Il buio voluto da Alvarez, che potrebbe voler rappresentare le tenebre nelle quali si muove l’assassino, sembra però un modo strategico per far vedere il meno possibile. Ora, un conto è la celebre teoria newtoniana dell’ombra e di ciò che non si vede, un conto è non mostrare perché ciò che mostreresti risulterebbe ben poco interessante. Se scriviamo questo è perché, quando la scena è luminosa, quello che vediamo non è di gran pregio.

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Dieci minuti, un quarto d’ora di dialoghi iniziali (alcuni dei quali ambientati in un’automobile, altri in un appartamento e in un bar), soliti primi piani, una coccinella che si muove sul braccio della protagonista, forse anche questo di ispirazione argentiana, con un richiamo ai fiori di It Follows (condividono anche uno degli interpreti, Daniel Zovatto).
Sorta di versione rovesciata di film come Gli occhi della notte (1967, Terence Young) e Terrore cieco (1971, Richard Fleischer), nei quali le vittime erano non vedenti e si trovavano ad affrontare criminali e serial killer, Man in the Dark non aggiunge nulla di nuovo al genere thriller.
In alcuni momenti crea una discreta suspense ed è montato piuttosto bene, ma si capisce subito dove vuole andare a parare.
Tra gli interpreti, oltre al già citato Zovatto nel ruolo del capobanda e alla graziosa Jane Levy, spicca Stephen Lang nel ruolo del cattivo. Lo ricordiamo come reporter bruciato vivo da Dolarhyde nello straordinario Manhunter – Frammenti di un omicidio (1986, Michael Mann). E chissà, forse è stato scelto da Fede Alvarez proprio per omaggiare quella breve ma memorabile performance.

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