"Andrea Antonini" "Giornale Pop"

In Italia gli anni settanta sono stati una faccenda piuttosto unica al mondo. Mentre l’Europa e l’America avanzavano rapide verso un’era di progresso tecnologico e culturale, l’Italia se ne stava beata a discutere se fosse opportuno introdurre le televisione a colori o meno, e proponeva sceneggiati televisivi da oratorio a base di Padre Brown / Renato Rascel. Nel frattempo nel Mare del Nord, da navi ancorate al largo, alcune radio pirata diffondevano rock e idee tipo far l’amore prima del matrimonio o se leggi fumetti non sei cretino.

In quel Paese melmoso che considerava la critica dantesca più importante della ricerca scientifica, e che nella sua mestizia ancora ottocentesca faceva apparire Lugano una metropoli californiana, trovavano spazio avventure all’inizio minori ed epiche al tempo stesso. Una di queste fu la nascita e soprattutto la gestione dei primi anni dell’emittenza radiofonica privata. Sulla sua storia, iniziata attorno al 1975, trovate in rete decine di siti, che però quasi sempre omettono le descrizioni della vita quotidiana delle stazioni, spesso messe assieme riciclando trasmettitori militari della Seconda guerra mondiale che con i loro segnali spuri spesso disturbavano gli aeroporti di mezza Europa; giradischi fregati ai fratelli maggiori, registratori così conciati da cancellare dopo due passaggi i nastri che suonavano.

Ho avuto la fortuna di lavorare in una di quelle radio, e nel mio caso lavorare è il verbo giusto perché ero tra i pochissimi a essere pagati, e non poco, per l’ideazione e la produzione degli spot pubblicitari. Tutti gli altri conduttori erano volontari, a volte ricompensati dalla concreta ammirazione delle ascoltatrici. Certo, arrivava anche qualche marito tradito incazzato, una volta anche dotato di pistola. L’epoca non era piagnona come quella attuale, e in quella occasione a nessuno di noi passò per la testa di chiamare la polizia per allontanare il tizio rovinandogli la vita. Magari presentarsi armati era un pelino esagerato, ma fu chiaro che era una persona disperata e che voleva solo far paura al Dj donnaiolo, nel frattempo scappato dalla cantina. Finì a pacche sulle spalle, il direttore della radio raccomandò maggiore discrezione nelle tresche.

Le radio si divisero subito in due categorie, quelle ricche e professionali come Radio Milano International, e quelle che facevano il possibile con pochi soldi divertendosi pazzescamente, come quella in cui stavo io. Le radio della seconda categoria pagavano le bollette con gli spot di quartiere, la trattoria da Mamma Carla, il negozio di abiti Todisco, il callista di viale Bligny, il fruttivendolo Sciannameo dove si attardava spesso e volentieri Leone di Lernia, che abitava lì dietro.

Chiunque o quasi poteva proporsi alla radio con un programma qualsiasi, l’importante era riempire di conduzione almeno dodici ore al giorno. I programmi che facevano davvero audience erano quelli di dediche: alla gente non pareva vero di poter telefonare alla radio, chiedere una certa canzone da dedicare alla morosa, alla mamma, alla figlia, alla nonna, a chiunque. Gli ascoltatori non andavano ancora in diretta, una invenzione delle radio di sinistra che non facendo dediche si accaparravano ascoltatori con la partecipazione di popolo. Le radio commerciali, anche le più piccole, avevano intuito in modo istintivo che era una buona idea di marketing mantenere una certa distanza tra emittente e ascoltatori, il che aumentava la soddisfazione di questi nel sentirsi nominati durante un programma.

L’unico problema dei programmi di dediche era che li facevano tutte le radio, e i Dj con carisma tale da far preferire una stazione a un’altra finivano subito nelle emittenti più importanti, stipendiati. Per catturare pubblico si ricorreva allora a pratiche goliardiche.

Per i più giovani e gli smemorati, in Italia, un tempo quando telefonavi a qualcuno e poi non mettevi giù, la linea restava connessa a tempo indefinito. Se uno ti chiamava e poi appoggiava male la cornetta rischiavi di restare senza telefono per giorni, facevi prima ad andare a casa dell’amico distratto e citofonargli di mettere giù bene.

Quella tecnologia da età della pietra fu ampiamente sfruttata dalle radio private minori. Durante i programmi di dediche della concorrenza un apposito addetto (cioè uno dei perdigiorno che spesso se ne stavano a sonnecchiare sui divani lisi della radio) era inviato a una cabina telefonica, possibilmente non dietro l’angolo, per chiamare l’emittente concorrente e alla risposta lasciare penzolare la cornetta. Quella radio, per quel giorno avrebbe chiuso con le dediche, gli ascoltatori del quartiere avrebbero trovato perennemente occupato e verosimilmente si sarebbero rivolti a noi.
Certo, anche i concorrenti usavano la stessa raffinata tecnica contro di te, ma invece che provocare incazzature, la cosa prese più la piega della sfida. Si arrivò a organizzare squadre di riparatori, gente che in motorino o in bicicletta o massimo-massimo sulla due cavalli usciva a perlustrare le cabine telefoniche nei paraggi delle radio concorrenti per ripristinare la linea. La cosa andò in crescendo, chi andava a bloccare il telefono si avventurava sempre più lontano, ricordo uno che tornò orgoglioso in sede comunicando che per il consueto sabotaggio era andato fino a Chiaravalle (a sud di Milano, allora in aperta campagna): difficile risalire a noi, pressoché impossibile trovare la cabina sabotata.

Il proprietario della mia radio trovò infine una soluzione, ma non volle spiegarla, credo che avesse scovato un tecnico Sip (come si chiamava allora la Telecom) che, su richiesta e penso in cambio di qualche mille lire, da centrale risolveva il blocco. Sospetto che quel tecnico si fosse venduto a tutte le radio della città, così in breve tempo la guerra delle cabine telefoniche finì. Ben più triste e inevitabile, nello stesso periodo, attorno al 1978, finì anche il periodo d’oro delle piccole radio private italiane.

Nei primi due-tre anni di attività non c’erano stati diritti discografici da pagare, nessuna tassa di concessione governativa, nessun obbligo di trasmettitori certificati, nessun dipendente, e anche le pubblicità erano spesso pagate in contanti, senza commercialisti e fatture. Se qualche radio cercava di fare informazione si registrava come supplemento di qualche periodico locale in cambio di pubblicità, e poi leggeva a sbafo le notizie del Corriere della Sera con il sottofondo di Take Five.
Le cose cambiarono rapidamente e per le piccole radio fu chiaro che sarebbe stato più conveniente cedere le frequenze (e poi le preziosissime concessioni) piuttosto che lottare con i network che si stavano formando rapidamente. Oltre tutto, passata la novità, era diventato sempre più difficile trovare collaboratori volontari.

Alcuni di quei DJ e conduttori di allora sono poi diventati professionisti noti, non solo i Linus o i Gerry Scotti, ma anche giornalisti come Aldo Grasso e cantanti come Enrico Ruggeri, che faceva il programma dopo il mio in quel sotterraneo di Porta Romana a Milano.

Nel bel film Radio Rock Revolution, la storia romanzata di una radio pirata inglese ancorata al largo, uno dei protagonisti dice al più giovane ultimo arrivato: “Tu non lo sai ancora, ma un giorno ti accorgerai che questi saranno stati gli anni più belli della tua vita”. Forse per me non lo sono stati, ma quando ci ripenso vedo un mondo sì sgangherato e provinciale, ma anche una leggerezza oggi impensabile e piccoli colpi di genio, e una creatività sconosciuta in molti altri Paesi del mondo. A volte l’anarchia cazzona fa miracoli.

(Testo e immagine di apertura copyright © 2021 Andrea Antonini, Berlino)

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