Gli anni del fascismo avevano esaltato l’immagine convenzionale della donna arrendevole, mansueta e sottomessa. Immaginiamoci lo stupore quando nelle edicole italiane del primo dopoguerra fece la comparsa una donna libera, forte e coraggiosa, in grado di affermarsi perfino nello scontro fisico con gli uomini.

Il 24 aprile 1948 Pantera Bionda irrompeva sulla scena da grande protagonista. Con impavido coraggio e ottimo fiuto, l’Editrice Arc di Pasquale Giurleo affidò allo sceneggiatore Gian Giacomo Dalmasso e al disegnatore Enzo Magni (in arte Ingam) la realizzazione di una Jungle Girl all’italiana.
Le ragazze della foresta avevano alle spalle una prestigiosa carriera fumettistica nella loro patria d’origine, ovviamente gli Stati Uniti. Dopo il periodo iniziale sulle “Pulp Magazines” (riviste di racconti avventurosi in gran voga tra gli anni dieci e quaranta del secolo scorso), si erano trasferite nei comic book (albi a fumetti).

Avevano nomi esotici (Sheena, Nyoka, Pantha…) e una forte valenza erotica, grazie alle chiome fluenti, le bocche carnose e gli abitini succinti. La giungla diventava un pretesto per svestire le protagoniste e metterne in evidenza seni turgidi e glutei torniti, anche se solo parzialmente.
Il fenomeno era approdato anche in Europa con la francese “Durga-Rani, Reine des Jungles” di René Pellos, un’eroina violenta e passionale in accesa lotta contro il progresso forzato e la meccanizzazione dell’uomo.

Dalla Francia all’Italia, il passo fu breve. Pantera Bionda partì come quindicinale (12 pagine a grande formato verticale) ma l’ottima accoglienza (si dice 100mila copie vendute) la portò a diventare settimanale dal numero 6. Per accelerare i tempi di esecuzione, gli autori si fecero aiutare da un nutrito stuolo di assistenti, dal ventenne Mario Cubbino, “specializzato” nella raffigurazione del corpo dell’eroina, ad autori come Chiomenti, Savi, Pini-Segna, Guarnieri e Arselli.

La giovane e flessuosa Pantera Bionda indossava un minuscolo bikini leopardato che ne metteva in risalto muscoli e curve, ma soprattutto esibiva un caratterino che la portava a comportamenti aggressivi e spregiudicati. Al suo fianco c’erano l’innamorato tontolone Ted (un esploratore americano), la vecchia e fedele nutrice cinese Fiore di Loto e l’orango Tao, controparte maschile della Cita di Tarzan.

Le storie erano ambientate nella foresta del Borneo e nell’arcipelago della Sonda, luoghi misteriosi in cui la bionda ragazza occidentale era venerata dai nativi come un’autentica dea. I nemici, vista l’epoca e la localizzazione geografica del Sud-Est asiatico, erano soprattutto soldati giapponesi sbandati dalla guerra, ma anche contrabbandieri e trafficanti.
14593642_10207325324440190_45115524_nTutto procedeva al meglio fino a quando le generose forme di Pantera Bionda suscitarono le ire di varie associazioni cattoliche, che fecero partire una serie di denunce per offesa al comune senso del pudore. Al coro si unirono le Case Editrici concorrenti, magari invidiose del successo e, in breve tempo, arrivò la censura. Dopo 40 numeri, Pantera Bionda venne bloccata! Per tornare nelle edicole, l’editore fu costretto ad accettare un compromesso: l’eroina doveva rivestirsi da capo a piedi!

Le pagine già disegnate vennero grossolanamente ritoccate: il ridotto ma elegante perizoma divenne un insulso gonnellino che arrivava fino al ginocchio, il reggiseno originario venne ricoperto da una morigerata camicetta e persino i piedi non potevano più essere mostrati nudi. Era il trionfo del bigottismo, una “violenza” che sviliva totalmente l’effetto glamour suscitato di Pantera Bionda.

Il 10 giugno del 1950, dopo 108 numeri, l’editore fu costretto alla resa, le vendite erano in netto calo e i continui attacchi della magistratura lo avevano stremato. L’eroina chiuse la sua storia editoriale con il matrimonio che santificava la lunga convivenza con Ted: la “regolarizzazione” era ormai completata e il moralismo spicciolo aveva vinto la sua battaglia.

Quello che “spaventava” non era solo la parziale nudità della ragazza; disturbava la sua vocazione all’indipendenza e la sua incapacità di accettare un ruolo subalterno. Era una donna troppo avanti rispetto ai tempi. Pantera Bionda sparì dalle edicole ma entrò nella piccola storia del fumetto italiano, stampando una solida e persistente impronta nell’immaginario collettivo di una intera generazione.

 

Le prime pagine di Pantera Bionda

 

 

 

4 pensiero su “LE CURVE PERICOLOSE DI PANTERA BIONDA”
  1. Interessante articolo, ottimo il disegno introduttivo dipinto da R.Felmang (after Iaia,after Ingam), tratto dalla collezione di Roy Mann

  2. Ho un numero della Pantera vestita (anche se incompleto) e non mi sembra così brutto, più che altro è simile ad altre serie.
    Come riportato dalla rivista “Ink” anche in rete, ad inizio anni ’50 l’editore Pasquale Giurleo fu invitato ad un convegno, ma come provò ad intervenire una volta giunto il suo turno la platea, formata tra gli altri da concorrenti, prelati e politici, urlò impedendogli di parlare, cosa che si commenta da sola.
    E la pur buona Enciclopedia del fumetto di Gaetano Strazzulla (1970, quando ormai certi fatti erano lontani e poco documentati) aveva due schede veramente da buttare, ed una era proprio quella di Pantera Bionda (l’altra quella di Mickey Finn), dove si dice, capovolgendo la situazione: “Per la pessima qualità del disegno non ha mai riscosso molto successo, anche se in seguito si cercò di spogliarla ulteriormente per far maggior presa sui lettori”.
    Negli anni ’60 provarono a resuscitarla con due tascabili, il primo introvabile, il secondo … diciamo che il personaggio avrebbe meritato un trattamento migliore.
    La ripescassero oggi probabilmente farebbero ancora peggio.

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