Con il numero 26 ha chiuso l’ennesima testata della Bonelli: Adam Wild.
Al di là della dimostrazione del perduto feeling dell’editrice milanese con una larga fetta dei suoi lettori, resta il rammarico per quel che poteva essere e non è stato.

Adam Wild, con la sua ambientazione africana e la sua collocazione temporale atipica nel XIX secolo doveva celebrare il ritorno dell’avventura classica, quella che aveva contrassegnato una cospicua porzione della storia del fumetto mondiale. L’esplorazione di terre selvagge e sconosciute, il confronto a viso aperto tra l’uomo e madre natura, l’epicità delle conquiste e la metafora dei viaggi verso l’ignoto dovevano esserne le fondamenta.

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Due anni fa, il progetto di Gianfranco Manfredi partì presentandoci un personaggio decisamente inconsueto per lo stile Bonelli, fin dall’aspetto grafico volutamente retrò (I suoi caratteristici baffi riportano alla mente attori come Errol Flynn, Clark Gable e Douglas Fairbanks). Uno strano eroe Adam, uno che non é senza macchie e senza paura, un tizio dai grandi ideali e dai piccoli scrupoli, un pacifista che combatte le sue guerre con tutta la ferocia necessaria. Uno spirito ribelle dal temperamento forte, vittima di quello spleen dell’anima chiamato mal d’Africa.

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Come sempre, il lavoro preparatorio di Manfredi è eccellente, la ricostruzione degli scenari è puntigliosa e ben calibrata. Non viene lesinata l’attenzione sulla caratterizzazione dei personaggi, anche quelli minori. L’abilità di andare a pescare dalla storia un periodo poco noto (arte in cui l’autore ha gia dato prova di sé con Volto Nascosto e Shanghai Devil) si rivela uno dei punti di forza della serie e la continuity serrata tra i vari episodi, inconsueta in casa Bonelli, rende la lettura avvincente e fascinosa.

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Personaggi come la principessa Bantu, Amina (la fidanzata di Adam) o il conte Narciso Molfetta non si limitano a ruoli da comprimario, ma diventano parte integrante della narrazione. Anche i due principali villain, lo schiavista americano Frankie Frost e la vendicativa lady Gertrude Winter (ex amante di Wild), non sono figure prive di contenuto e personalità. Le avventure si dipanano in un’Africa non di maniera, divorata dalla colonizzazione occidentale e schiavizzata dalle grandi potenze per interesse economico.

A un certo punto avviene una svolta che, secondo me, contrassegna in modo negativo l’evoluzione delle storie. Con un improvviso viaggio in Europa, l’azione si sposta a Londra. Le storie londinesi diventano meno ariose, si dipanano in sequenze e situazioni viste in innumerevoli fumetti, l’ambientazione urbana le rende claustrofobiche, le ingrigisce. Quando, inevitabilmente, lo scenario torna quello consueto, qualcosa non funziona più.

I riferimenti tradizionali vengono sostituiti da riferimenti fantastici, solo in parte compatibili con una serie realistica e il fantastico diventa addirittura fantascienza, quando l’eroe si trova “imprigionato” in una visione del futuro fatta di aerei e di bombardamenti. Nel frattempo, cominciano a circolare voci sempre più insistenti di una imminente chiusura della testata, voci che diventano presto una precisa scadenza. Non a caso alcuni degli ultimi numeri potrebbero essere tranquillamente catalogati come fill-in, storie interlocutorie sganciate dalla continuity.

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Però il leone Manfredi è ancora in grado di ruggire e nell’ultimo numero lo fa in due momenti memorabili: la morte di Frankie Frost, ucciso in maniera brutale da Adam, e il grido disperato di Gertrude quando si accorge che la sua sconfitta è definitiva. E c’è il finale che riappacifica con i lettori, quella scelta di libertà e di anticonformismo della banda di Wild. Alla prospettiva di un’onorata normalizzazione, i nosri personaggi privilegiano la possibilità di rimanere cani sciolti, scelgono l’Africa. La civiltà arriverà anche da quelle parti, ma per il momento c’è ancora spazio per i miti.

Adam Wild aveva grandi potenzialità. Andava a occupare una nicchia vuota, rivolgendosi a un pubblico di lettori ben preparato. Alla resa dei conti non è andata benissimo. All’inizio le vendite si mantenevano su livelli di sopravvivenza ed è bastata una minima erosione per decretarne la chiusura. Serie per palati troppo fini? Onestamente non credo, la scrittura di Manfredi è perfettamente comprensibile da tutti.

Secondo me ha inciso, almeno in parte, la scelta di affidare la parte grafica ad artisti bravi, ma sconosciuti al lettore medio. Anche le copertine di Darko Perovic non sempre attiravano l’attenzione. Bastano questo per spiegare tutto? Certamente no, il problema è che da noi l’avventura non ha mai attecchito, non lo ha fatto quando il mercato era scoppiettante, figurarsi se poteva farlo in regime di vacche magre. Eppure l’avventura è come la fenice e prima o poi, da qualche parte, si riaccenderà la misteriosa fiamma della regina Loana

 

2 pensiero su “L’ADDIO ALLE ARMI DI ADAM WILD”
  1. Paolo MG Maino
    16 minuti fa
    Manfredi sulla chiusura di AW rispetto all’articolo di Sauro Pennacchioli:
    Ringrazio per l’attenzione e le parole di stima, però devo precisare che la ricostruzione cronologica della scelta di concludere la serie è sbagliata e non ha nulla a che vedere con lo scenario londinese. E’ stato dal terzo numero della serie che abbiamo affrontato il problema di quanti numeri fare, cioè da quasi subito. Le nostre aspettative di vendita erano maggiori (ciascuno ha le aspettative sue, ovviamente). Il calo dei lettori era evidente già al terzo mese d’uscita. Con quei numeri era impossibile pensare a una serie lunga. Dunque si è studiato un percorso narrativo, accentuando la continuity, in modo da poter concludere al n.26 (che comunque non è poco). Dunque il discorso, al di là di AW, riguarda più in generale le serie lunghe, che nelle condizioni attuali, presentano problemi piuttosto delicati di gestione. Sono convinto che si debba andare necessariamente verso moduli diversi, più snelli nella gestione, pensati per cicli , e anche produttivamente più rapidi nella realizzazione. Non significa affatto che certi temi o generi non possano essere trattati, significa solo (e non è poco) che il lavoro va organizzato diversamente e in modo più mobile per poter reagire meglio a una situazione che cambia in fretta, a partire dalle edicole, ma anche considerando le abitudini reali dei lettori di oggi, assai più mobili e incostanti di quelli di ieri.

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