LA VERA MONACA DI MONZA

“La sventurata rispose”.

Ricordiamo tutti la frase con cui Alessandro Manzoni, nei “Promessi Sposi”, riassunse in sole tre parole il dramma dell’inizio della relazione fra la monaca di Monza e il suo innamorato. La monaca piombò dalla monacazione forzata di tante povere donne impersonate da suor Gertrude, uno dei personaggi immaginari più misteriosi e intriganti del suo scritto più famoso, ispirato però ad una figura storica, alla relazione clandestina con il suo amante.

E “sventurata” lo fu per davvero, perché la pena inflitta a suor Virginia de Leyva (meglio nota come “la Monaca di Monza”), condannata nel 1608 per “plurima gravia et enormia et atrocissima delicta”, consisté in quattordici anni di reclusione in una cella “di braccia tre larga et di lunghezza de cinque” con porta e finestra murate, in modo tale che “non vedesse se non tanto spiracolo bastante per dire l’offizio” e ricevere i pochi viveri che le venivano passati.

Eppure, quando venne al mondo il 4 dicembre del 1575, per la piccola Marianna si prospettava una vita ben diversa, come figlia del nobile Martino de Leyva, conte di Monza, e di Virginia, a sua volta figlia del banchiere Tommaso Marino, l’uomo più ricco della Milano di quei tempi.

Sfortuna però volle che la cosiddetta “peste di San Carlo” le portò via, quando era ancora in fasce, la mamma che prima di morire ebbe appena il tempo di nominarla erede del suo immenso patrimonio insieme al figlio di primo letto Marco Pio, ciascuno per il 50 percento.

Più interessato ai soldi che alla neonata, suo padre impugnò il testamento della defunta in proprio favore, defraudando così la figlia di quanto dovutole per poi trasferirsi in Spagna alla corte di Filippo II, dove si rifece la vita con una nuova consorte.

Sballottata fra zie e balie, e con pochi quattrini a disposizione, per la piccola Marianna si aprì dunque la strada obbligata del chiostro, quando tredicenne varcò per la prima volta il portone del convento monzese di Santa Margherita, dove quattro anni più tardi avrebbe fatto la sua solenne professione di fede assumendo il nome di Suor Virginia, in ricordo della madre scomparsa.

Rispettosa e benvoluta da tutti, dal 1594 assunse il titolo di “Signora di Monza”, esercitando per conto del padre la sovranità sulla città, con emissione di relative gride e amministrazione della giustizia.

La sua strada s’incrociò presto con quella del giovane Giovanni Paolo Osio, un bellimbusto la cui casa confinava con le mura del convento, mettendolo così in condizione di scherzare con le novizie, affacciato alla finestra o appollaiato sui rami di un albero.

Inizialmente insensibile al fascino di quel giovinastro, con il passare del tempo anche suor Virginia si sentì attratta dalla prestanza fisica e dai suoi modi spicci, e con la complicità di alcune consorelle, vinti gli ultimi scrupoli, nell’estate del 1599 accettò d’incontrarlo per la prima volta, dopo un intenso scambio epistolare.

Stando al freddo linguaggio delle future carte processuali, suor Virginia cedette quasi subito, subendo la “defloratio monialis” poi da lei attribuita a quello che avrebbe sostenuto essere un “artifizio malefico”, provocato dall’Osio con un amuleto consistente in una calamita nera fattale baciare con l’inganno.

Da questo “mal d’amore” la Monaca di Monza non si sarebbe più ripresa e il frutto di quella relazione clandestina sarebbero stati prima un bimbo, nato morto, e poi una bambina venuta al mondo nel 1604, subito legittimata dall’Osio.

Le voci della loro tresca giunsero alle orecchie del cardinale Federigo Borromeo, che nel 1606 si presentò di persona a Monza per svolgere le indagini del caso.

Caterina, giovane conversa, minacciò di spifferare tutto e fu per questo uccisa a bastonate dall’Osio, che ne fece poi sparire il cadavere con la complicità di suor Virginia. Si innestò così una spirale di sangue e violenze che coinvolse tutti quanti fossero considerati dalla coppia di amanti diabolici come possibili ostacoli alla loro relazione.

A porre fine alla scia di sangue arrivò nel 1607 il processo voluto dal cardinale, che si concluse con la condanna alla forca dell’Osio, mentre per suor Virginia scattò la pena della reclusione a vita in una cella murata.

Dopo quattordici anni di segregazione vissuta come “la caritativa et sancta medicina delle mie piaghe” la Monaca di Monza sarebbe stata liberata perché considerata “risanata”, sino a meritarsi, per il tempo che le sarebbe rimasto da vivere, la fama di mistica.

Quando morì nel 1650, al posto della bella e spudorata suor Virginia di un tempo non restava che “una vecchia ricurva, emaciata, magra e veneranda”.


Immagine in alto: “Giovane monaca” (1879), Francesco Hayez (quando il maestro aveva 89 anni), collezione privata.




Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *