“Sì, io sogno! Perché bisogna sempre sognare per concretizzare l’Utopia…”
“La città che non esisteva”, Pierre Christin e Enki Bilal

“All’inizio di ogni narrazione si può notare: un ordine sociale minacciato e/o un misfatto da riparare e/o un enigma da risolvere… “
“I fumetti: libri a strisce”, Pierre Fresnault-Deruelle


Sembra che parlare di utopia con i fumetti sia abbastanza difficile. Il mondo del fumetto non ha mai avuto un dialogo come quelli intitolati “Timeo” e “Crizia”, in cui Platone descrive l’ideale civiltà di Atlantide, o un romanzo come appunto “Utopia”, in cui Thomas More nel lontano 1516 creò la sua isola immaginaria, un’isola il cui nome in greco significa “Nessun luogo”.

Si tratterebbe in questo caso di un fumetto didascalico, in cui esporre dei principi di convivenza politica e sociale, senza poter raccontare nessuna vera storia. Neanche un sognatore come Corto Maltese è mai riuscito a vivere un’avventura del tutto priva di conflitti o di violenze, appunto perché è proprio questo tipo di cose che trasforma un semplice viaggio in un’avventura.

UTOPIA

Infatti nell’episodio “Corte Sconta detta Arcana” (uscita a puntate su Linus dal 1974 al 1977), il personaggio di Hugo Pratt tenta per l’ennesima volta di leggere l’Utopia di More senza riuscirci. Il fatto è che una società in cui non esistono più minacce, né misfatti, né enigmi, perché tutti ormai vivono felici e contenti nell’ordine più perfetto, è esattamente il contrario di quello che un personaggio dei fumetti può desiderare, è la negazione stessa dell’azione, del cambiamento e, in ultima analisi, della vita.

Non è un caso se i paradisi di molte culture antiche, dal Dilmun babilonese ai Campi elisi greci, dall’Eden ebraico alle Celesti praterie dei nativi americani, sono descritti come luoghi di pace e di abbondanza. Per quanto siano visti in una luce positiva, si tratta in effetti dei regni della morte, in cui non esistono più difficoltà semplicemente perché chi li abita non è più vivo.

Forse l’unica eccezione è il Valhalla scandinavo, in cui i guerrieri continuano a combattere per l’eternità, così da essere ben allenati per opporsi alle armate del regno della Morte, quando queste daranno la scalata al cielo nel giorno del Ragnarok, l’Apocalisse nordica. È un esempio di come non rassegnarsi neanche di fronte all’inevitabile, che nella sua rozzezza è una metafora calzante del perseguimento, se non di una felicità definitiva, almeno di un costante impegno per migliorarsi.

I protagonisti di molte leggende e racconti, però, non si rassegnano a dover aspettare un luogo ideale in cui vivere nell’aldilà, e pretendono che lo si possa trovare anche su questa Terra, in località misteriose, che possono riaffiorare dalle acque o emergere tra le nebbie, essere sepolte nel sottosuolo o appollaiate su altopiani irraggiungibili.

Di volta in volta questi luoghi dell’utopia si chiamano Hy Brasail, Tir-Nan-Og, Avalon, Eldorado, Agarthi, Shangri-La, o con molti altri nomi, tra cui i più antichi hanno significati come “Terra dei Viventi”, “Isola dei Beati”, o “Terra della Gioventù”, ma ciò che ha veramente un senso, per il protagonista di una qualunque epopea, non è tanto la loro scoperta definitiva, quanto il viaggio da compiere alla loro ricerca.

È il viaggio stesso, le difficoltà da superare durante il percorso, le prove da affrontare e da vincere, che danno all’eroe la sensazione di avere uno scopo, anche quando arriva solo a intravedere per un attimo la sua meta da lontano, prima che scompaia di nuovo all’orizzonte.

Non ci sono quindi molti fumetti che raccontano di un’Utopia in sé, ma ce ne sono vari che mostrano i tentativi fatti per raggiungerla. C’è ad esempio Zio Paperone che, in una classica storia di Carl Barks del 1954, “Zio Paperone e la dollarallergia”, per guarire dallo stress di amministrare le proprie ricchezze si rifugia in una valle dell’Oriente dove il denaro è sconosciuto e non esiste quindi avidità né competizione. Lui stesso distrugge quel paradiso con l’introduzione di rarissimi oggetti provenienti dal mondo esterno, dei comuni tappi di bottiglia, che scatenano il desiderio ossessivo degli abitanti per quei “preziosissimi tesori”.

UTOPIA

C’è poi Asterix che, nell’episodio “La galera di Obelix” (1996) scritto e disegnato da Albert Uderzo, si trova di passaggio in una buffa versione della mitica Atlantide, dove tutti possono ridiventare bambini, cavalcare mucche volanti e nutrirsi di frutta gigante, ma l’eroe gallico non vi trova ciò che cercava (un incantesimo per far tornare adulto il suo amico Obelix) e non può ovviamente fermarsi, se vuole continuare le sue avventure.

UTOPIA

I fumetti in cui appaiono versioni più o meno fantasiose di Atlantide sono molti, dall’episodio degli anni cinquanta “L’Enigma di Atlantide”, appartenente alla serie di Blake e Mortimer del belga Edgar P. Jacobs, fino alla relativamente recente miniserie “Le Cronache di Atlantide” di Peter David ed Estaban Maroto, senza dimenticare la saga fantasy “Yor il Cacciatore”, degli argentini Ray Collins (Eugenio Zappietro) e Juan Zanotto, o la serie del detective dell’impossibile Martin Mystère, creata in Italia da Alfredo Castelli e Giancarlo Alessandrini.

In tutte queste versioni, però, il primato di Atlantide sta nella sua precoce ed avanzatissima tecnologia, di cui vengono fornite diverse spiegazioni, più che in un carattere utopistico della vita dei suoi abitanti, anche se naturalmente il benessere generalizzato può portare a migliori condizioni di esistenza, almeno per una parte della popolazione…

Tornando alle utopie vere e proprie, troviamo l’eroe fantasy Zephyd, creato nel 1978 dagli spagnoli Saiz Cidoncha e Alfonso Azpiri, che lotta contro i signori della guerra di Shamballah fino a veder emergere rapidamente, dalle rovine del loro regno, la città della luce di Agarthi.

Un cammino molto più lungo è quello di Menone e dei suoi seguaci, che nel ciclo di Iberland, realizzato dal 1982 dagli italiani Ottavio De Angelis e Franco Saudelli, viaggiano tra le nevi di una futura glaciazione alla ricerca della mitica “Reggia del Sole”, una sorta di terra promessa che soprattutto sia libera dai ghiacci.

Una delle poche storie a fumetti incentrata sulla creazione ex-novo di un’Utopia che sembra riuscire perfettamente è “La città che non esisteva” (1977), scritto da Pierre Christin e disegnato da Enki Bilal. Questa volta siamo lontani sia dai toni umoristici sia da quelli mitici, si tratta di una storia con precisi riferimenti politici ed economici alla realtà della società contemporanea.

Non a caso fa parte di un ciclo di romanzi a fumetti denominato “Leggende d’Oggi”, in cui tutto si svolge nell’ambito di una perfetta verosimiglianza, anche quando degli elementi fantastici si inseriscono nei racconti.

La storia prende le mosse da un paese, se non realmente esistente, del tutto simile a qualunque piccola cittadina francese di provincia, in cui tutta la vita, o meglio la sopravvivenza, dei cittadini ruota attorno alle fabbriche della famiglia Hannard.

Anche la scuola del paese porta il nome del capofamiglia Jules Hannard, al tempo stesso padrone, sindaco e senatore del paese, fino al momento in cui, mentre la sua fonderia è in sciopero, il vecchio muore, lasciando tutto alla nipote Madeleine.

Questa torna in paese accompagnata da un misterioso amico (già apparso col ruolo di testimone degli eventi in altri romanzi del ciclo) e approfitta dell’occasione per riconvertire tutto in una vera e propria città ideale indipendente dall’esterno, in cui la produzione è autogestita dai cittadini stessi, che progettano e realizzano liberamente tutto ciò di cui hanno bisogno, dagli abiti agli arredamenti. Alla fine, anche se sembra che tutto funzioni alla perfezione, non tutti sono felici del risultato.

La città è ora racchiusa all’interno di una cupola, di cui a un certo punto si cominciano a sorvegliare gli ingressi, non solo per fermare chi dall’esterno cerca di entrare per rubare o per fare comunque danni, ma anche per impedire agli abitanti di uscire.

La città continua a “vivere”, nella sua presunta condizione di perfezione ideale, praticamente chiusa all’interno di sé stessa, con i cittadini che dovrebbero essere teoricamente felici, ma che a quanto pare non lo sono del tutto, anche se rifiutano di ammetterlo.

Vivono come dentro un sogno, ma a volte sognano invece la vita reale che non possono più avere. Il testimone misterioso naturalmente riparte poiché, a causa della sua “perfezione”, nella città ideale ogni spinta vitale si è definitivamente spenta e al suo interno non potranno più esserci eventi rilevanti a cui assistere, non ci saranno più problemi, non ci saranno più avventure.

Fuori, con lui, si ritrovano altri tre profughi della città, due operai e un bambino, che subito cominciano a fare nuovi progetti per il futuro, come per ricominciare a vivere.

Un’Utopia che non viene raggiunta con la scoperta o la creazione di un luogo fisico, ma con la conquista di un livello più elevato di coscienza, si trova invece in un altro “romanzo a fumetti”, che ha per protagonista il mago supremo dell’editrice americana Marvel Comics: il Dottor Strange.

Il volume, scritto da J. Marc De Matteis, si intitola “Shamballa” (1986), ed è realizzato con tecniche pittoriche dall’illustratore Dan Green.
La sua conclusione, dopo un lungo percorso attraverso una serie di ostacoli esterni e interiori, di cui via via si scopre l’inconsistenza illusoria, porta Stephen Strange a una più completa identificazione con l’Assoluto, in cui può infine rendersi conto per esperienza diretta di come tutte le cose siano legate tra loro, di come l’Utopia ultima sia in realtà già presente in ogni cosa… e in ognuno di noi.

(Da Segreti di Pulcinella).

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