JONBENÉT, LA BAMBINA PIÙ BELLA DEL MONDO È STATA UCCISA

Boulder è una città piuttosto nota in America, anche se non ha nemmeno centomila abitanti. Qui sorge l’università statale del Colorado, che negli anni sessanta fu la “capitale” del movimento hippy.
La città ha fatto da ambientazione per il telefilm Mork e Mindy ed è diventata la “roccaforte del bene” in un romanzo di genere fantastico, L’ombra dello scorpione, scritto da Stephen King.
Però, in questo centro adagiato su un altopiano delle Montagne Rocciose, non tutto è sempre vivace e colorato, come dimostra la vicenda della piccola JonBenét.

John Bennet Ramsey è il presidente di una importante azienda informatica, mentre sua moglie Patricia, chiamata Patsy, è una bella donna che nel 1977 era stata eletta Miss West Virginia.
La coppia ha due figli: un maschietto di nome Burke, nato nel 1987, e una femminuccia, JonBenét Patricia, nata tre anni dopo. Il primo nome dell’ultimogenita è una combinazione dei due nomi del padre.

I coniugi Ramsey, seguendo una moda abbastanza diffusa in America, truccano e vestono la loro bambina come se fosse una modella. Per Patsy è assolutamente normale passare buona parte della giornata curando il look della bella figlia dai boccoli biondi e dagli occhioni azzurri.

Nel 1993, a soli tre anni, JonBenét viene fatta partecipare a un recital di danza. Nel 1994, la bimba vince il concorso di bellezza “Little Miss Charlevoix”.
L’anno successivo ottiene altri due premi: “Colorado All Stars Christmas Pageant” e “Little Miss Colorado Sunburst”.
Sempre truccatissima, partecipa anche alla sfilata annuale della sua città. Nel 1996, l’ultimo anno della sua brevissima vita, un servizio fotografico la immortala come reginetta di bellezza.

JonBenét vince altri concorsi e partecipa a una produzione musicale per il teatro.
La mamma la iscrive anche a diversi corsi, tra quelli in voga nelle famiglie altolocate della città: dalle lezioni di violino all’arrampicata su roccia.

Il giorno di Natale del 1996, la famiglia Ramsey va a festeggiare da amici e torna a casa verso le 22. La loro è un’abitazione molto grande su tre piani, con un seminterrato adibito a palestra e lavanderia.
All’ultimo piano vivono i coniugi, in quello in mezzo i figli, al primo ci sono la cucina e vari salotti.

Dopo la mezzanotte, i vicini sentono l’urlo disperato di un bambino che all’interno della casa, però, non viene percepito.
La mattina dopo, mamma Patsy si alza presto come al solito.

Alle 5.30 del 26 dicembre scende la scala a chiocciola per andare in cucina, ma si arresta di colpo perché sui gradini trova tre fogli scritti a mano, nei quali si dice che la piccola JonBenét è stata rapita. Per riaverla indietro, i genitori dovranno pagare un riscatto di 118mila dollari.

La donna corre nella camera della figlia, che è vuota, poi sveglia il marito. Anche John legge la lettera: è strano, perché nessun rapitore scrive a mano correndo il rischio di essere identificato attraverso la calligrafia.
Inoltre, i fogli sono stati compilati proprio in quella casa, perché provengono da un blocco che si trova in cucina. Curiosa anche la cifra richiesta, troppo bassa per una famiglia che potrebbe pagare molto di più.

La polizia accorre subito ed effettua una sommaria perquisizione dell’edificio senza trovare niente di particolare. John ne approfitta per andare in banca a ritirare i soldi richiesti, in attesa della telefonata dei rapitori che, secondo la lettera, dovrebbe arrivare tra le 8 e le 10 del mattino. Poi torna a casa e, siccome nessuno telefona, lui e gli agenti tornano a esplorare le numerose stanze della villetta con maggiore cura.

Alle 13.05, John scopre il corpo senza vita della figlia in un angolo dello scantinato. La piccola è avvolta in una coperta bianca, con un nastro adesivo sulla bocca e una corda di nylon stretta ai polsi e al collo.
Il manico rotto di un pennello è infilato nel nodo intorno al collo della bambina: JonBenét è stata strangolata con quella rudimentale “garrota” (usata un tempo in Spagna per le esecuzioni capitali).

Il corpo della piccola viene subito spostato nel tentativo di rianimarlo, benché sia evidente il rigor mortis. Se a questo si aggiunge che l’ingresso delle persone nella cameretta di JonBenét non viene bloccato dagli agenti, si comprende come i successivi esami della scientifica non daranno elementi utili per le indagini.

Il fatto è che la polizia di Boulder non ha dimestichezza con gli omicidi, perché in questa cittadina tranquilla sono estremamente rari.
In ogni caso, l’autopsia arriva a qualche conclusione: la bambina è stata uccisa all’una di notte. Prima di strangolarla, l’assassino l’aveva colpita violentemente con un oggetto smussato, tramortendola. Alcune escoriazioni sul pube sembrerebbero indicare un tentativo di abuso sessuale.

Sin dall’inizio gli investigatori sospettano dei coniugi Ramsey perché le porte di casa, durante la notte, erano ben chiuse.
Secondo la ricostruzione ipotetica di Steve Thomas, il detective che indaga sul caso, quella sera JonBenét aveva bagnato il letto, come ancora le capitava spesso (sono state trovate tracce di urina). La bambina era andata dalla mamma per chiederle di cambiare le lenzuola, ma Patsy, esasperata dai tanti impegni delle festività, aveva avuto uno scoppio di rabbia.

Dopo avere spazzolato rudemente JonBenét nelle parti intime (da qui l’apparente abuso sessuale) l’aveva trascinata in bagno. Spingendola, le avrebbe fatto involontariamente battere la testa sulla vasca, facendole perdere conoscenza.

Pensando erroneamente di averla uccisa, la donna si era rivolta al marito e i due, per evitare che Patsy venisse condannata per omicidio, avevano simulato l’assassinio da parte di un rapitore. Senza rendersi conto che con la “garrota” formata dalla corda e dal manico di pennello, l’avevano uccisa davvero.

Ad avvalorare la ricostruzione ci sarebbero i legacci intorno ai polsi della bambina, eseguiti così maldestramente che, se fosse stata cosciente, si sarebbe liberata con facilità. E la constatazione degli investigatori che solo chi nutre grande affetto per la persona uccisa, dopo il delitto appoggerebbe una coperta sul suo corpo come per “proteggerlo”.

Inoltre, mamma Patsy si cambiava d’abito ogni giorno, mentre la mattina del 26 indossava lo stesso vestito del giorno prima, come se non fosse mai andata a dormire. E poi un rapitore avrebbe portato via la piccola o il suo cadavere per cercare comunque di ottenere il riscatto.

Gli investigatori finiscono per sospettare anche di Burke, il fratellino di dieci anni. Che sia stato lui a stordire involontariamente JonBenét, inducendo poi i genitori a imbastire la sceneggiata affinché il bambino non venisse condannato?

I genitori avevano detto che Burke aveva dormito fino a tarda mattinata, mentre la sua voce si sente in sottofondo nella registrazione eseguita durante la telefonata alla polizia nel cuore della notte.
Nelle ore successive, il bambino aveva continuato a giocare con il videogame ricevuto a Natale, commentando così la fine della sorellina: «Andrò avanti con la mia vita».

Prove concrete a carico dei Ramsey, però, non se ne trovano. Secondo la perizia calligrafica, potrebbe essere stata la madre di JonBenét a scrivere la lettera, ma non c’è alcuna certezza.

I coniugi, fedeli al loro stile mondano, riescono a spettacolarizzare perfino la morte della figlia, partecipando a numerosi talk show televisivi nei quali si dichiarano innocenti.
Scrivono anche un libro, The death of the innocence, ovvero “La morte dell’innocenza”. Quasi nessuno crede alle loro affermazioni, neppure il governatore del Colorado, che invita i Ramsey a non nascondersi più dietro gli avvocati e a dire la verità.

Negli anni successivi, però, emergono nuovi indizi che cambiano le carte in tavola. Prima di tutto, si scopre che non è vero che nessuno sarebbe potuto entrare nell’edificio, perché una finestra del seminterrato era rotta da circa un anno e non era mai stata riparata.

Da quello scomodo passaggio, stretto e posto molto in alto rispetto al pavimento, qualcuno avrebbe potuto comunque calarsi giù e fuggire. Tuttavia gli investigatori ne dubitano, perché nelle foto scattate il giorno dopo il delitto la finestra appare avvolta da ragnatele. Se una persona fosse passata di lì, le avrebbe rimosse.

Ma proprio sotto la finestra era stata trovata una valigia con dentro un cuscino: forse il rapitore pensava di portarsi via la bambina chiudendola dentro.
Attraverso alcuni esperimenti, la polizia stabilisce che se qualcuno grida nello scantinato della casa, a causa della sua particolare acustica, è più probabile che lo sentano i vicini piuttosto che chi si trova ai piani superiori.

La vera svolta avviene nel 2003, quando, grazie a strumenti più sofisticati, si riesce a decodificare il Dna trovato sulle mutandine e sotto le unghie di entrambe le mani della piccola: non corrisponde a quello dei familiari.
Appartiene invece a uomo sconosciuto di razza bianca.

A questo punto sembra certo che un estraneo sia penetrato in casa nel pomeriggio e abbia atteso il rientro della famiglia nascosto nella stanza degli ospiti, che si trova sullo stesso piano delle camere dei bambini. Il letto era stato trovato in disordine, come se qualcuno vi si fosse seduto.

La lunga lettera con la richiesta di riscatto era stata scritta per ingannare l’attesa, mentre l’intruso aspettava il ritorno dei Ramsey. Forse il cadavere della bambina non era stato portato via a causa della difficoltà di farlo passare dalla scomoda finestra.

Patsy Ramsey muore di cancro alle ovaie nel 2006, ancora sospettata da molti americani di essere l’assassina della figlia.
Nello stesso anno, John Mark Karr, un ex insegnante vicino di casa dei Ramsey, afferma di essere stato lui a uccidere involontariamente JonBenét. Si tratta però di un mitomane, che viene subito scagionato dal Dna.

Solo nel 2008 le accuse rivolte ai Ramsey vengono ritirate con tante scuse. Il procuratore scrive direttamente al vedovo: «Dopo la scoperta del Dna non consideriamo più lei, sua moglie Patsy e suo figlio Burke coinvolti in alcun modo nel delitto. Siamo profondamente dispiaciuti per aver messo la sua famiglia al centro dei sospetti, pur senza avere mai avuto prove sufficienti».

 

Il Dna trovato sul corpo della piccola è stato confrontato senza successo con quello di un milione e mezzo di detenuti.
Ancora oggi, ogni settimana, i computer della polizia continuano a ripetere la stessa operazione con il Dna prelevato ai nuovi carcerati, nella speranza di trovare un giorno l’assassino della bambina.

 

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Di Sauro Pennacchioli

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