JOHN KENNEDY, L'OMICIDIO E I FALSI MISTERI

Si parla spesso dei misteri che ammanterebbero l’omicidio di John Kennedy, il presidente degli Stati Uniti ucciso a Dallas nel 1963, ma esistono davvero?

Il nome di Lee Harvey Oswald diventa tristemente famoso il 22 novembre del 1963.
Quella mattina, a bordo di una limousine scoperta, il presidente John Kennedy, 45 anni, sta percorrendo la Houston Street di Dallas, la metropoli texana nella quale è in visita ufficiale.
Insieme a lui, come al solito elegantissima, c’è Jacqueline, la bella moglie di 34 anni.

 

L’omicidio di John Kennedy

All’improvviso, alle 12.30, un colpo di fucile manca per un pelo il presidente. Il quale non può chinarsi per mettersi al riparo, dato che il rigido corpetto ortopedico che ha sotto i vestiti glielo impedisce. Lo porta sempre, perché da anni soffre di forti dolori alla schena.

E proprio alla schiena lo colpisce un secondo proiettile che, uscendo dalla trachea, ferisce leggermente il governatore del Texas seduto accanto a lui. Pochi secondi ancora e un terzo colpo, mortale, entra nella testa del presidente.

Un omicidio terrificante ripreso casualmente dalla cinepresa “8 millimetri” di un sarto, Abraham Zapruder, che si trovava lì per seguire il corteo presidenziale e che verrà ritrasmesso da tutte le tv del mondo.

Alcuni testimoni dichiarano di aver sentito gli spari provenire dal sesto piano di un edificio scolastico, dove si trova un deposito di libri.
Proprio da lì altri hanno visto fuggire un uomo alto e pallido.

Il presunto omicida viene identificato e catturato alcune ore dopo: è Lee Harvey Oswald, un giovane di 24 anni con una vita già piena di fallimenti.

 

L’infanzia difficile

Lee Harvey terzogenito di Marguerite e di Robert Oswald, nasce a New Orleans, nello stato della Lousiana, il 18 ottobre 1939.
Il padre non fa in tempo a vederlo perché muore di infarto due mesi prima. Marguerite, non essendo in grado di mantenere i bambini da sola, manda i due più grandi in un orfanotrofio e tiene con sé Lee Harvey, che però viene sballottato da un parente all’altro.

La sua è un’infanzia triste e priva di amici, circostanze che lo rendono un bambino chiuso. Quando la madre si risposa, lo porta con sé a Dallas, in Texas, ma il matrimonio finisce presto e i due si trasferiscono a New York.

Qui, alle scuole superiori, Lee Harvey diventa improvvisamente violento, tanto che viene sottoposto a un esame psichiatrico. I medici stabiliscono che il ragazzo soffre di delirio di onnipotenza e di un marcato narcisismo.
Insomma, si crede più in gamba di quello che è in realtà e pensa di poter fare tutto quello che vuole.

Il giudice ordina che Lee Harvey venga curato, ma la madre non se ne preoccupa e lo riporta a New Orleans.

 

Un comunista americano in Russia

In 18 anni, il ragazzo ha cambiato casa già una ventina di volte, finché, nel 1957, essendo la leva allora obbligatoria, si arruola nei marines.
I commilitoni non lo trovano simpatico, perché si dichiara comunista mentre Stati Uniti e Unione Sovietica sono in piena guerra fredda.

Però Lee Harvey ci sa fare con le armi e ottiene la qualifica di tiratore scelto, riuscendo a fare 48 centri su 50 a una distanza doppia da quella che in futuro lo separerà dal presidente John Kennedy.
Questa passione, allo stesso tempo, finisce per rovinare la sua carriera militare, dato che spesso viene sorpreso mentre spara in aria senza autorizzazione, solo per il gusto di farlo.

Nel 1959, abbandonati i marines, parte per Mosca, dove chiede la cittadinanza sovietica. I russi, non fidandosi, la respingono.
Disperato, l’americano tenta il suicidio tagliandosi le vene. Si salva per un pelo e, a questo punto, le autorità credono nella sua sincerità e gli offrono un posto di operaio in Bielorussia, una delle regioni dell’Unione Sovietica.

Pochi mesi dopo, Lee Harvey sposa una collega di lavoro, Marina Prusakova, ma la sua vita in terra sovietica non gli piace più e ottiene l’autorizzazione di andarsene con la moglie e la figlia June, nata all’inizio del 1962.

 

Farla pagare a John Kennedy

A 22 anni torna in Texas, a casa della madre, ma dopo aver litigato con lei si stabilisce con la nuova famiglia in una catapecchia.
Nel suo diario racconta di una rivoluzione immaginaria, fabbrica documenti falsi e legge libri di spionaggio.

Ormai vive in un mondo di fantasia, tanto che la moglie preferisce passare il tempo nella comunità russa texana.
Lee Harvey trova lavoro in una tipografia e con i primi soldi compra delle armi, con le quali si esercita al poligono di tiro.

Acquista anche un Carcano, un buon fucile fabbricato in Italia, a Terni, nel 1940. Un’arma usata da qualche soldato italiano durante la Seconda guerra mondiale, magari proprio contro gli americani, e ora in vendita per soli dieci dollari.

Trova un nuovo lavoro in un’azienda che produce caffè e cerca di fondare un’associazione a sostegno del governo comunista di Cuba.
Licenziato per scarso rendimento, cade in depressione.

Cercando di scacciare il senso di inutilità, Oswald spara alla finestra di un generale e il fatto che nessuno lo abbia scoperto gli fa pensare che potrebbe puntare più in alto. Magari, perché no, al presidente degli Stati Uniti.
Secondo quanto diranno i suoi conoscenti, Lee Harvey odia John Kennedy a causa del suo tentativo di rovesciare il regime di Fidel Castro, a Cuba, con la spedizione fallita alla Baia dei Porci.

Nel 1963 la moglie Marina si trasferisce insieme alla figlia da un’amica e lui, rimasto solo, il 15 ottobre trova lavoro come magazziniere nel deposito di libri delle scuole di Dallas.
Poco più di un mese dopo, apprende che l’odiato John Kennedy, nella sua visita in città, passerà in auto proprio davanti al deposito: è un’occasione fantastica per compiere un atto rivoluzionario e dare finalmente un senso alla sua vita.

 

Ucciso a sua volta

La mattina del 22 novembre scende in cantina, prende il fucile, lo smonta e lo mette in una borsa. Alle 7.15 si fa accompagnare al lavoro da un collega.
Poche ore dopo, al sesto piano, sposta gli scatoloni davanti alla finestra che dà su Houston Street, lasciando ovunque le proprie impronte.
Poi gli spari al presidente…

Mentre all’esterno infuria il panico, Lee Harvey Oswald lascia il posto di lavoro. In maglietta, malgrado il freddo, si mette a correre nella città.
Durante la fuga, Oswald uccide a colpi di pistola l’agente J.D. Tippit, che lo riconosce e cerca di fermarlo. Poi entra in un cinema senza pagare il biglietto e per questo la cassiera chiama la polizia.

Viene identificato dagli agenti come la persona sospetta che stanno cercando.
Il fucile, abbandonato davanti alla finestra del magazzino, risulta di sua proprietà e il guanto di paraffina sulle sue mani conferma che ha sparato da poco.

Il 24 novembre, due giorni dopo l’omicidio di John Kennedy, mentre dalla centrale di polizia sta per essere trasferito in prigione, un uomo gli si avvicina e gli spara gridando: “Hai ucciso il mio presidente, topo di fogna!”.
Oswald, colpito all’addome, muore sul colpo.

Il suo assassino si chiama Jack Ruby, gestore di un night club malfamato: si era intrufolato nella centrale di polizia con la pistola in tasca.
Condannato all’ergastolo, Ruby morirà di malattia quattro anni dopo.

L’eclatante omicidio di un presidente e quello successivo del suo assassino hanno scatenato tutta una serie di ipotesi complottiste, che hanno tirato in ballo i servizi segreti, la mafia, i cubani e persino il vice di John Kennedy, Lyndon Johnson, subito succeduto a lui alla Casa Bianca.

Ipotesi che non hanno mai trovato riscontri. Ciononostante ancora oggi metà degli americani, come risulta da alcuni sondaggi, è convinta che il killer non abbia agito da solo.

 

 

(Per leggere gli altri articoli sui delitti famosi pubblicati da Giornale POP clicca QUI).

 

 

Di Sauro Pennacchioli

Contatto E-mail: info@giornale.pop

3 pensiero su “JOHN KENNEDY, L’OMICIDIO E I FALSI MISTERI”
  1. Caro Sauro, da un articolo intitolato I FALSI MISTERI mi aspettavo l’elenco di quei misteri e l’esposizione delle ragioni che ti inducono a ritenerli falsi ma non ho trovato ne’ gli uni ne’ le altre. Non capisco, pertanto, il senso del tuo articolo. Cordialmente.

  2. Ho letto l’articolo di Nick Gerlich che ritengo molto ben argomentato e, quindi, convincente; mi era sfuggito il “link implicito” che avevi inserito nel corpo del tuo articolo. Sono tutto tranne che un complottista ma devo ammettere che il film di Oliver Stone era un po’ la summa di tutto quanto periodicamente leggevo sull’argomento su un personaggio che era un mito della mia infanzia (sic!) a causa di alcuni libretti agiografici che venivano distribuiti nelle scuole (o nelle parrocchie?) negli anni ’70. La macchinazione infernale sembrava più degna, visto il mito che ammantava JFK all’epoca, rispetto all’iniziativa di uno squinternato solitario. In ogni caso, l’ossessione per le teorie del complotto ha almeno un pregio, credo infatti che il meraviglioso ciclo di storie di Blueberry capro espiatorio del tentato omicidio del presidente Grant sia ispirato al caso JFK e alle suggestioni che ha generato.

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