Nella Costantinopoli del IX secolo l’asticella della pubblica indignazione era posizionata piuttosto in alto.
Non scandalizzava più di tanto il ricorso al veleno, nemmeno nel caso della moglie desiderosa di sbarazzarsi di un marito ingombrante o comunque sgradito.
Certo, se quella stessa donna ordinava anche l’accecamento del figlio, qualche mormorio iniziava a udirsi.
Una cosa però i Bizantini del tempo non potevano proprio tollerare, l’idea cioè che sul trono del loro potentissimo Impero, accanto alla basilissa, sedesse un barbaro analfabeta che, con indosso un paio di ridicole braghe gialle, parlava una lingua incomprensibile e per apporre la propria firma in calce ai documenti necessitava di una dima.

Alla basilissa Irene fu dunque l’insistenza con la quale coltivò il progetto di unirsi in seconde nozze con Carlo Magno, re dei franchi e Imperatore d’Occidente, che costò il trono.
Infatti i ministri, gli alti funzionari statali e i generali, tutti riuniti nell’Ippodromo di Costantinopoli il 31 ottobre dell’802, la deposero condannandola all’esilio nell’isola di Lesbo, dove sarebbe spirata a distanza di un anno.
La vicenda di Irene costituisce un unicum nella più che millenaria storia dell’Impero Romano d’Oriente. Fu infatti la sola donna a potersi fregiare, oltre che del titolo di “Imperatore”, anche di quello di “Autocrate dei Romani”, non come consorte del “Basileus” regnante, bensì in proprio.

Nata ad Atene attorno al 752 nella famiglia dei Sarantapechos, una volta rimasta orfana di padre fu inviata dallo zio a Costantinopoli, nel 769, per tentarvi un colpo di fortuna.
L’Imperatore Costantino V cercava una sposa per l’erede al trono Leone e per individuarla pensò bene di far sfilare le “papabili” nel cortile del palazzo imperiale, in modo da scegliere la più bella e aggraziata di tutte.
Irene sbaragliò la concorrenza guadagnandosi la mano del futuro Leone IV, insediatosi sul trono di Bisanzio nel 775, alla morte del genitore.
Dovette però prima giurare di mantenersi fedele in materia religiosa all’iconoclastia, al ripudio cioè delle immagini sacre diffusosi da qualche decennio nel mondo del cristianesimo orientale sulla spinta dell’islamismo, non senza violenze e spargimenti di sangue.
Per lei, fedele alla religione tradizionale, si trattò di un duro colpo, tanto più che l’iconoclastia, con la conseguente distruzione di migliaia di icone, mosaici e opere d’arte d’incommensurabile bellezza, le faceva orrore.
Da qui il suo paziente lavorio ai fianchi del marito Leone IV affinché, diversamente dal padre defunto, ammorbidisse certi rigori dottrinali, almeno finché quest’ultimo restò in vita, perché, a soli 30 anni d’età, calò nella tomba a causa di una misteriosa malattia che le malelingue attribuirono alla mano venefica della moglie.

Proclamatasi reggente dell’Impero in nome e per conto del figlio novenne Costantino VI, dopo aver domato nel sangue un’insurrezione capeggiata dai fratelli del defunto sovrano, Irene riallineò la posizione di Costantinopoli in materia di immagini sacre con quella di Roma, reintroducendo nell’Impero l’iconodulia al termine del Concilio ecumenico di Nicea del 787.
Inebriata dal successo, finì però con l’esagerare ordinando che il proprio nome sui documenti ufficiali e sulle monete fosse anteposto a quello del figlio, tanto da provocare l’ammutinamento di parte dell’esercito che acclamò Basileus Costantino VI.
Giovane e inesperto, quest’ultimo in soli due anni si giocò la sua già scarsa credibilità inanellando una dopo l’altra pesanti sconfitte militari contro il potente califfo Harun al-Rashid e contro i bulgari, tanto da vedersi costretto a restituire lo scettro alla madre, che però il potere lo voleva gestire in solitaria.
Indusse dunque il figlio a ripudiare la prima consorte per sposare una cortigiana cui era legato da tempo, così facendo gridare allo scandalo clero e benpensanti.

Abbandonato da tutti, il 17 luglio del 797 Costantino VI cadde in un’imboscata e, poco dopo, fu fatto accecare, per ordine della madre, tanto che fu condotto alla morte.

Nonostante tanto orrore, Irene avrebbe forse potuto continuare a regnare, ma la testardaggine con cui tentò di risposarsi con il “barbaro” Carlo Magno le fu fatale.

Da qui, il colpo di stato con conseguente esilio a Lesbo accompagnato dall’ordine di filare la lana, come tutte le donne del tempo.

A un secolo dal decesso, Irene fu canonizzata come protettrice del clero e restauratrice dell’iconodulia. La sua venerazione prosegue sino ai giorni nostri presso le Chiese ortodosse orientali.


(Immagine d’apertura: Irene con il figlio Costantino VI presiedono il Concilio di Nicea II. Qui sopra: santa Irene nella pala d’oro di fattura bizantina del IX secolo, basilica di San Marco, Venezia)

 

 

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