Io colpevole di Cucador?… Ma siamo proprio sicuri?

Vi sembra plausibile che la mia sofisticata persona, già distintasi nella progettazione e nel lavoro redazionale dell’agenda Smemoranda (la prima del 1978-1979 che sostituiva un’anonima agenda precedente), possa avere avuto l’idea di proporre una rivista paninara?

Il logo della “Smemoranda” nasce da una mia svista: avevo passato all’agenzia grafica l’ipotesi sbarazzina di “Melagenda” quando si era già deciso di fare la parodia alla “Memoranda” (l’agenda dei bancari)

Ma lasciamo gli anni settanta, noti come gli anni di piombo (ai quali ho dedicato un articolo), per entrare negli edonistici anni ottanta.

I paninari nascono nella prima degli ottanta tra i “sanbabilini”, giovani di simpatie neofasciste che sono, in realtà, interessati alla moda di Fiorucci, alla discoteca e ad altre facezie. Tanto che i neofascisti veri e propri li malmenano a causa del loro disimpegno (per lo stesso motivo, anni prima, l’estrema sinistra maltrattava i punk). Da non confondere con i sanbabilini degli anni settanta, che erano fasci davvero e a volte pure picchiatori.

La tendenza paninara diventa presto apolitica, anche se le origini “fasce” continuano ad essere evocate dai giornali che ne parlano perché un pizzico di sale non guasta mai.

A rendere popolare il fenomeno anche tra i babbani contribuisce il comico Enzo Braschi, interpretando il personaggio del paninaro nella trasmissione di Italia 1 intitolata “Drive In”, curata da Antonio Ricci (futuro ideatore di “Striscia la Notizia”).


Il primo fumetto a cavalcare la moda dei paninari è, appunto, Il Paninaro della Edifumetto, la casa editrice di Renzo Barbieri specializzata in tascabili erotici come le vampire Zora e Sukia.

“Il Paninaro”, uscito nel 1986, raggiunge ben presto le 100 mila copie vendute.


Nello stesso anno seguono altre pubblicazioni paninare. La qualitativamente migliore è Wild Boys della Ediperiodici, l’altra casa editrice di tascabili erotici, con gli ottimi fumetti sceneggiati da Massimo Vincenti (firmati Elwood).

A questo punto entra in scena Gianni Bono, agente di fumettisti (tra i quali Marcello Toninelli e Corrado Roi) e proprietario di una agenzia di editing. Bono convince Andrea Corno, all’epoca editore della Garden, a pubblicare una rivistina paninara intitolata “Cucador” (in milanese “cuccatore”).


Facendo anch’io parte dello Staff di If in quel periodo, finii per occuparmi della nuova testata firmandola come direttore, anche se non legalmente responsabile in quanto non ero ancora giornalista.

L’impostazione grafica data ai fumetti di “Cucador” era un po’ topolinesca, più vicina a Enzo Braschi che ai paninari veri e propri. Uno stile forse non particolarmente adatto, dato che il pubblico di questi giornalini non era rappresentato dalle famigliole che guardavano lo spettacolo televisivo, ma dagli adolescenti.

Ora leggetevi pure a sbafo questa storia intera di Cucador scritta da me medesimo e disegnata da Luigi Mausoli.
Credo rappresenti una delle vette inarrivate e inarrivabili nella storia del fumetto.

No, grazie, niente complimenti!

Piuttosto, scrivete qualche vostro ricordo di quei tempi nello spazio sottostante dedicato ai commenti.

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Di Sauro Pennacchioli

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4 pensiero su “IO COLPEVOLE DI CUCADOR?”
  1. […] Ma perché il Burghy è stato un fenomeno sociale? Correvano gli anni ottanta, gli anni del disimpegno, dei colori, dell’allegria e dell’edonismo. Degli yuppies e del capitalismo rampante. A partire dal ristorante di piazza San Babila (a cui presto seguono altri cinque locali nel milanese), il Burghy diventa un ritrovo per i ragazzi dell’epoca. Che vestono con Timberland, Moncler e cinta El Charro. Che sgallettano con le squinzie, ascoltando Duran Duran e schifando i ciaina. Esatto, sto parlando dei paninari. […]

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