Dick Tracy Giornale Pop

Di recente mi è capitato di rivedere in internet quello che nei primi anni settanta è stato il mio primo ingranditore fotografico, il Durst modello Reporter, prestatomi allora da uno zio. Montava un obiettivo delle Officine Galileo di Firenze, che oggi sono nel ramo della tecnologia militare e aerospaziale.

INVIARE FOTO IN RETE PRIMA DI INTERNET
Ingranditore fotografico modello “Reporter” costruito dalla Durst di Bolzano negli anni cinquanta (foto di Marco Foti Giannotti)

 

Per gli ignari e gli smemorati, un ingranditore serve a proiettare su un foglio di carta fotografica l’immagine negativa di una pellicola. Ingrandendola, per l’appunto. La carta fotografica produce anch’essa un’immagine negativa e dall’incontro dei due negativi si ottiene, una volta sviluppata la carta, un’immagine positiva: una fotografia. La altoatesina Durst è stata la più importante azienda produttrice di ingranditori fotografici per uso sia amatoriale sia professionale. Adesso  si occupa di stampa digitale industriale, con altrettanto successo.

INVIARE FOTO IN RETE PRIMA DI INTERNET
La sede della Durst a Bressanone oggi. Immagine © Durst Phototechnik AG, Fotografo: Rolf Nachbar

 

Il Durst Reporter risale alla metà degli anni cinquanta. Il suo nome non aveva un carattere pubblicitario-evocativo, ma ne definiva piuttosto l’utilizzo principale. Era uno strumento destinato ai fotoreporter, quei professionisti che da soli o con un giornalista raggiungevano le località in cui era accaduto qualche fatto di cronaca cruento e lo documentavano per immagini. Raggiungevano perché è una categoria professionale oggi scomparsa.
Una volta fatte le foto del caso, che per un delitto comprendevano qualche immagine truce (cadavere mutilato da vendere a giornali scandalistici, cadavere ricoperto da lenzuolo per i quotidiani), qualche immagine di carabinieri che prendono appunti e di testimoni narcisisti, e la cosiddetta “testina”, il volto del delinquente sparato o della vittima che le autorità offrivano ai reporter attraverso la fototessera della sua carta di identità, il fotografo fuori sede correva in albergo a sviluppare la pellicola e a stampare le immagini con il suo Durst Reporter, che era sì portatile, ma i suoi dieci chili li pesava tutti. Se non c’era un albergo, andava bene qualsiasi altro posto buio: sul sito di “Time” che segnalo più avanti si vede un fotografo intento a stampare le sue foto chiuso nel portabagagli dell’auto.

Sviluppare il negativo e stampare una foto in bianco e nero è una faccenda di soli quindici  minuti, se si usa qualche accorgimento. Un vecchio fotoreporter mi insegnò un trucco per fare asciugare alla svelta la carta fotografica appena sviluppata e sciacquata, ovvero immergerla in alcol e darle fuoco: l’alcol brucia, la foto si asciuga all’istante. Da ragazzo ci ho provato qualche volta e in effetti funzionava, anche se i bordi del foglio restavano sempre bruciacchiati. E soprattutto mia madre cominciava a sbraitare che c’era puzza di bruciato in casa, che cosa cavolo stavo combinando in bagno?

INVIARE FOTO IN RETE PRIMA DI INTERNET
L’ingranditore Durst M 601 tuttora usato dall’autore. Le tre manopole illuminate servono a regolare l’intensità dei filtri dicroici necessari per la stampa a colori

 

Una volta che il fotografo aveva la sua bella stampa c’era il problema di farla arrivare alla redazione. Portarla da Cantù a Milano è un conto, ma spedirla con corriere o portarla personalmente a Milano dall’entroterra pugliese o a Roma dall’agordino sarebbe stata una faccenda lunga: non avrebbe mai raggiunto il giornale per l’edizione del giorno dopo. E poi, a quel punto, si faceva prima a mandare il negativo esposto. Molto più semplicemente la foto si inviava elettronicamente. Il fotografo raggiungeva in fretta la sede regionale del proprio giornale o agenzia giornalistica, o di un quotidiano con cui la sua testata aveva accordi, inseriva l’immagine in uno scanner a tamburo e via telefono o linea (una rete) dedicata la inviava in pochi minuti a Milano, Roma o New York. Dove l’avrebbero pubblicata magari il giorno stesso nel caso di quotidiani del pomeriggio come “La notte” o “Il Corriere di informazione”. Negli anni settanta comparvero gli scanner/trasmettitori portatili, collegabili a una qualsiasi linea telefonica, e con quelli si arrivò a qualcosa di simile agli allegati delle email. In effetti, affiancato all’immagine era spesso inviato un breve testo dattiloscritto a descrizione del contenuto. Una email chimica.

Il sistema si chiamava telefoto, la sua introduzione risaliva agli anni venti. L’agenzia giornalistica americana Associated Press l’utilizzava quotidianamente dal 1930 soprattutto per distribuire le immagini di cronaca a tutti i giornali abbonati al servizio, ed era molto apprezzato dalla polizia americana, che poteva diffondere in pochi istanti in tutto il Paese le immagini dei ricercati. Il personaggio dei fumetti Dick Tracy ne faceva ampio uso, probabilmente appoggiandosi a una rete privata indipendente da quella telefonica, così come faceva l’Associated Press. Devo però dire che delle “linee XA” citate nella striscia (che in italiano diventano un più misterioso “circuito X”) non ho trovato traccia documentaria nella realtà.

Dick Tracy telefoto
Nel 1955 Dick Tracy distribuiva correntemente le telefoto, utilizzando una rete dedicata, analogamente a quanto accadeva per il  servizio telex

 

Il sistema era tecnologicamente ingegnoso: con un sensore che lentamente si spostava lungo l’immagine rotante, lo scanner leggeva le tonalità di grigio dal bianco al nero trasformandole in suoni. Quei suoni, ricevuti dalla redazione, modulavano l’intensità luminosa di una lampadina che man mano impressionava un foglio fotografico anch’esso montato su un tamburo rotante. Scanner e ricevitore dovevano all’inizio sincronizzarsi, essere cioè sicuri che i tamburi ruotassero alla stessa velocità, e poi era una faccenda di minuti.

A metà anni settanta la Associated Press cominciò a dotarsi di stampanti fotografiche laser, per abbattere i costi, e di linee dedicate digitali che portarono il tempo medio di trasmissione da otto a due minuti.

In questo breve video  si può vedere un trasmettitore portatile di telefoto in azione e sentire il suono che demodulato in ricezione avrebbe prodotto l’immagine.

Esistevano altre, molto più rudimentali e caserecce possibilità di ricostruire le immagini. Fino a non molti anni fa, parecchie telefoto erano diffuse via radio in onde corte, e con sistemi tanto ingegnosi quanto cervellotici si riuscivano a recuperare a scrocco immagini inedite di cronaca senza una costosissima stampante di telefoto. Inutili, ma di soddisfazione.

Ecco un documentario del 1948 sulla distribuzione delle telefoto via radio.

 

In queste pagine del settimanale “Time“ si può leggere in inglese una bella storia della telefoto (wirephoto), e soprattutto vedere un vecchio video autocelebrativo della Associated Press. Il video non è pubblicabile qui separatamente dalla sua pagina originale.

Le immagini viaggiano in rete da ottant’anni, da ben prima che esistesse internet.


Permettetemi una considerazione generale e personale al tempo stesso. Nel caso delle telefoto è rimasto parecchio materiale documentario, soprattutto statunitense. Ma in generale la storia della tecnologia del XX secolo, quella grazie a cui sto scrivendo ora su un computer o che permette di essere operati da un robot senza che esca un filo di sangue, si sta avviando a un rapidissimo oblio. Le fonti scompaiono: interi archivi aziendali sono mandati al macero. Gli ingegneri, i tecnici che hanno  progettato e materialmente costruito le magnifiche architetture di telecomunicazione del Novecento muoiono o non sono interessati a raccontare del proprio lavoro. Da anni raccolgo quanto più materiale primario possibile (manuali, cataloghi, immagini aziendali, progetti originali eccetera) riguardante soprattutto la tecnologia delle telecomunicazioni, nella speranza di salvarne una quantità sufficiente a essere da me o da altri organizzata in conoscenza storica.

Solo negli Stati Uniti è vivo un interesse sull’argomento, sono pubblicati in continuazione libri divulgativi su temi tecnici anche piuttosto complessi. Nell’Europa tronfia della propria eredità umanistica andata a male, la tecnica è sempre stata considerata qualcosa di non davvero importante. Quante migliaia di volumi tutti uguali sono stati scritti su Dante Alighieri? E quanti sulla storia della Pirelli, produttrice per decenni dei cavi sottomarini che attraversano gli oceani di tutto il mondo? La nave Elettra su cui Marconi fece importanti esperimenti nel campo delle microonde (quelle che oggi vi collegano al router wifi) è il migliore esempio del disprezzo verso la propria storia migliore. Visto che non saltavano fuori i soldi per restaurarla, fu tagliata a  pezzettini senza senso: che significato storico può avere un pezzo arrugginito di carena esposto nel cortile di un museo?

Un disinteresse sprezzante che esonda anche nella politica industriale: un caso relativamente recente di alta tecnologia italiana emigrata nell’indifferenza generale è quello della Telettra di Vimercate, senza la quale mezzo mondo starebbe ancora comunicando con i segnali di fumo. Un anno fa sono andato a intervistare il fondatore di un’azienda che ha contribuito in modo fondamentale a mettere in piedi la rete telefonica italiana. Questo gentile e simpatico signore ottantenne, che indossa solo maglioni dell’identico colore rosso della sua Ferrari, mi guardava incuriosito: in sessant’anni nessuno era mai andato a intervistarlo per il suo lavoro.

La storia della tecnologia è un argomento avvincente e per certi aspetti persino romantico. Ne riparleremo.

 

(Testo copyright © 2020 Andrea Antonini, Berlino. L’immagine dell’ingranditore Durst “Reporter” è stata gentilmente fornita da Marco Foti Giannotti, creatore del Museo della macchina fotografica e storia della fotografia Photosfera di Roma. L’immagine della sede Durst è stata fornita dalla stessa azienda © Durst Phototechnik AG, Fotografo: Rolf Nachbar).

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *