Ho appena finito di vedere Il re (The King), film del 2019 dell’australiano David Michôd. Il quale con quello che, per luogo comune, viene comunemente definito un cast stellare (Timothée Chalamet, Robert Pattinson, Sean Harris) affronta l’impresa di riportare sul grande schermo le vicende di Enrico V di Inghilterra.

Da quando un certo William Shakespeare, approfittando della vita reale di un grande sovrano, usò il suo genio per mettere in versi l’eterno topos della maturazione del ragazzo che rifiuta le responsabilità e che è costretto dalle circostanze ad accettarle diventando in uomo adulto ed infine un eroe, molti hanno provato a seguire le sue orme.

Ci provò Laurence Olivier nel 1944, Kenneth Branagh ci si cimentò nel 1989, marchiando a fuoco la mia gioventù.

We few, we happy few, we band of brothers;
For he to-day that sheds his blood with me
Shall be my brother; be he ne’er so vile

Nel 2019 ci ha provato anche Netflix. Il risultato non è malvagio, anzi. Timothée Chalamet si dimostra all’altezza della sua fama. Vedendolo in azione qui si può capire perché è stato scelto a coprire il ruolo, molto simile, di Paul Atreides in Dune.

La storia fluisce, la trasformazione del giovane principe di Galles, dedito a godersi la vita e darsi alla baldoria, nel Sovrano che si copre di gloria è ben fatta. Il compito è eseguito con sapienza e sensibilità dagli attori e dal regista.

Mi ha soddisfatto persino il principale cambiamento della storia, Falstaff non muore più solo e abbandonato dal suo vecchio amico, ma viene richiamato e lo segue in Francia per trovare una morte, gloriosa questa volta, sul campo di Angincourt.

Intendiamoci, in questa maniera viene troncato brutalmente uno dei principali filoni narrativi sviluppati dal Bardo. La morte solitaria e inutile di Falstaff ha un suo preciso significato nella logica dell’arco di vita di Enrico, bisogna rendersene conto.

Inoltre, la nuova trama è molto più banale e scontata, una  roba da filmetto, ma, io sono un animo romantico che tifa per gli sconfitti della vita e nel profondo ho sempre sognato una versione della storia in cui il buon Falstaff potesse redimersi e, se non vivere felice e contento, potesse almeno dimostrare il suo valore nascosto.

Ma…

Si dice che quando qualcuno mette un “ma” a metà discorso, tutto quello che è scritto prima non conta, in cauda venenum. In questo caso no, i complimenti fatti finora valgono tutti e il film si può vedere con piacere, ma c’è un aspetto veramente terribile. Tipico di molti film e romanzi moderni.

Come abbiamo detto, la storia che ci è tramandata è una e una sola: la trasformazione di un ragazzo in un uomo. L’avversario da affrontare è la vita e le sfide che ci getta addosso. È la storia di tutti noi: l’avversario, il nemico siamo spesso noi stessi che soffriamo nel trasformarci, evolvere e crescere.

Questo è inaccettabile per le scuole di scrittura creativa moderna, ci deve essere la classica ripartizione di Field, ci deve essere un Eroe e ci deve essere un Cattivo. Un Cattivo in carne e ossa, ormai, lo ficcano pure nei disaster movies.
Qui il Cattivo è scontato, Enrico V combatte i francesi, per cui il nemico  deve essere il capo dei Francesi, ovvero il Delfino di Francia (Robert Pattinson).

Diciamoci la verità, Pattinson fa pure un buon lavoro nel rappresentarlo, povera animella, ma gli danno in mano, non un personaggio, un cartonato prestampato.
Il Cattivo fa quello che fanno tutti i Cattivi nelle tre scenette (non voglio chiamarle addirittura scene) che gli sono dedicate.

Nella prima, rifacimento di quella in cui il nobile Araldo Montjoy viene a chiedere la resa agli inglesi, il Delfino parla tanto, ma davvero tanto, in una scena sublimamente orrida, per descrivere in toni crudeli e psicopatici le orribili morti che farà subire ai nostri eroi, e alle famiglie piangenti sui loro cadaveri.
Il tono è quello del cattivo dei fumetti che invece di chiudere la vicenda uccidendo l’eroe passa a descrivere dettagliatamente i suoi malvagi piani di dominazione galattica dandogli il tempo di preparare il contrattacco.

Nella seconda scena, o beh se non l’avessi vista, non ci crederei, fa uccidere dei bambini! O sì, proprio dei bambini, i paggi di Enrico spediti nel bosco a far legna, dei bei putti dai capelli biondi vestiti in candide camiciole bianche. Lo giuro: hanno le tunichette bianche a rimarcare, se lo spettatore fosse veramente deficiente, che sono bimbi innocenti.

Per confermare la sua psicopatica sete di sangue ne lascia in vita solamente uno. A cui, dopo avergli parlato con i toni suadenti del serial killer che si diverte a terrorizzare la propria vittima, affida le teste mozzate dei compagnucci da riportare al campo inglese con la tunichetta bianca lorda di sangue. Insomma, lo avete capito che son kattivo?!

Nella terza scena, l’unica in cui potrebbe realmente agire sfidando a singolar tenzone l’Eroe, dopo un paio di mosse spavalde da spadaccino (che ricordano parodisticamente la famosa scena di Indiana Jones che, annoiato, ammazza con un colpo di pistola lo spadaccino mascherato), riesce solo a cadere rovinosamente a terra, nel fango, incapace di tenersi in piedi. Dimostra tutta la sua incompetenza, idiozia e incapacità.

Così invece di Montjoy che nobilmente concede la vittoria agli inglesi abbiamo un coglionazzo che si rotola nella melma.
Invece di un mitico scambio di nobili battute, passato alla storia della letteratura mondiale, abbiamo una scenetta da commedia sgangherata.

Henry V. – How now! what means this, herald? know’st thou not
That I have fined these bones of mine for ransom?
Comest thou again for ransom?

Montjoy. – No, great king:
I come to thee for charitable licence,
That we may wander o’er this bloody field
To look our dead, and then to bury them;
To sort our nobles from our common men.
For many of our princes—woe the while!—
Lie drown’d and soak’d in mercenary blood;
So do our vulgar drench their peasant limbs
In blood of princes; and their wounded steeds
Fret fetlock deep in gore and with wild rage
Yerk out their armed heels at their dead masters,
Killing them twice. O, give us leave, great king,
To view the field in safety and dispose
Of their dead bodies!

Henry V. – I tell thee truly, herald,
I know not if the day be ours or no
For yet a many of your horsemen peer
And gallop o’er the field.

Montjoy. – The day is yours.

Henry V. – Praised be God, and not our strength, for it!
What is this castle call’d that stands hard by?

Montjoy. – They call it Agincourt.

Henry V. – Then call we this the field of Agincourt,
Fought on the day of Crispin Crispianus.

Insomma, anche qui il solito problema delle sceneggiature moderne che prendono e rovinano, senza mezzi termini, l’esistente, tentando di semplificarne e banalizzarne la trama e l’arco narrativo.

Non si capisce il perché di questa assoluta necessità di personificare il cattivo, nemmeno l’avversario, ma il cattivo. Attenzione alla differenza. L’avversario è un essere umano tridimensionale che si oppone al protagonista, con le sue motivazioni con cui è persino possibile si possa empatizzare.

No, gli scribacchini  hollywoodiani cercano il Kattivo, un essere con scopi fumettisticamente malvagi, o quanto meno psicoticamente crudele e che si crogioli visibilmente nella sofferenza altrui, specialmente se di persone innocenti. Oltretutto deve obbligatoriamente torturare lo spettatore con la sua insensata loquacità.

Appena avrò tempo dovrò farmi un corso di sceneggiatura americano, per provare a capire cosa diavolo insegnano, perché la motivazione di tali idiozie va oltre la mia capacità immaginativa.

Piccola nota a margine. Se qualcuno vuole provare a difendere l’indifendibile, sostenendo che sono cambiamenti necessari al gusto moderno, che la storia sarebbe una palla noiosa senza un “cattivo” del genere… beh, siamo in un paese libero, fate pure, ma io sarò libero di spernacchiarvi.