Per la comprensione di questo articolo è raccomandata la visione del cortometraggio di Walt Disney Puss In Boots del 1922, della durata complessiva di 9 minuti: qui.

Questo è il terzo articolo di un ciclo sull’arte disneyana del periodo giovanile a Kansas City. L’intento di questa ricerca è quello di trovare il “Disney factor”, ossia ciò che ha reso Walt Disney qualcosa di unico.

Dopo le sue prime esperienze professionali (vedi qui e qui), nella primavera del 1922, Walt Disney a soli 21 anni si ritrovava presidente della Lough-O-Gram con sede nel McConahay Building, 1127 East 31st St.
L’edificio era appena stato ultimato nel South Central Business District, una delle aree più commerciali di Kansas City, opera dell’architetta Nelle E. Peters, specializzata in edifici commerciali e condomini. Alla fine della sua carriera questa prolifica architetta, classe 1884, ne aveva realizzati più di 1000. Nel 2021 la città le ha assegnato un’onorificenza postuma introducendola nella Star Women’s Hall of Fame.

Walt Disney, a sei settimane dall’annuncio pubblicitario, contattò la L.J. Baer & Company “Real Estate Managers of Income Property and Agents” e affittò 5 stanze al primo piano dell’edificio.
Sappiamo che ne fu in possesso da domenica 28 maggio 1922 al giugno del 1923.

IL LINGUAGGIO DI WALT DISNEY

McConahay Building, 1127 East 31st St.


Al piano terra si trovavano il Forest Inn Cafè di Jerry Raggos e Louis Katsis, e lo studio fotografico LeMorris. Sarebbero diventati entrambi piuttosto rilevanti per Walt Disney qualche mese più avanti, quando in seguito al totale depauperamento economico della Laugh-O-Gram, il ristorante non lasciò mai Walt senza un pasto a credito e quando l’amico Siroon “Baron” Missakian, di origine turca, uno dei fotografi di LeMorris, collaborò con Walt a un progetto per famiglie che comprendeva filmati e ritratti fotografici per bambini.

Per il momento era la primavera del 1922 e lo studio di Walt aveva tutto quello che serviva per realizzare cartoni animati nel miglior modo possibile: locali luminosi e arredi moderni, attrezzature adeguate fornite dalla Franz Wurn Hardware & Paint Company e soprattutto giovani e volenterosi collaboratori.

Quale che sia stato l’esito economico è con questi investimenti che  Walt produsse i seguenti 5 cartoons delle Fairy Tales (a partire da Jack and the Beanstalk), ciò che gli permise di arrivare a un livello qualitativo in grado di interessare un grande distributore di livello nazionale quale Margareth Winkler. Ma questo avverrà l’anno successivo.

Ora Walt è impegnato con Puss in Boots, realizzato probabilmente nel settembre del 1922.
Il sesto e penultimo dei Feary Tales, della durata di 9 minuti è, come suggerisce il titolo, la rivisitazione moderna de Il Gatto con gli Stivali.
I protagonisti sono ancora una volta i due ragazzini e due animali da compagnia rappresentati sul  frontespizio della Laugh-O –Gram.

Il gatto, che ricordiamolo è anonimo e che solo in seguito si è voluto riconoscere come lo stesso Julius delle Alice Comedies, pur non variando il proprio aspetto, qui non interpreta una parte maschile, bensì femminile.
Al ragazzino, che impersonava Jack nelle due precedenti pellicole e che qui è tornato senza nome, spetta la parte dello spasimante della figlia del re.
Il ragazzo, pur presentandosi come un piccolo borghese raffinato e di buoni sentimenti, sia nell’abbigliamento che nei modi, viene violentemente rifiutato dal re.
Il ragazzo e il suo gatto vengono spietatamente scaraventati dalle scale di una lussuosissima magione antica inserita nel pieno centro di una tipica cittadina americana.
Visivamente scoraggiato il ragazzo sembra gettare la spugna, senza alcuna prospettiva di poter ottenere i favori del potente monarca.

A questo punto l’astuzia spregiudicata del gatto diventa il perno della vicenda.
Promette al suo padrone di svelargli un piano per esaudire il suo desiderio se egli è disposto a regalargli un paio di stivali, con il quale egli sogna di poter diventare più attraente agli occhi di un cane poliziotto.
Il gatto, all’interno di una sala cinematografica, non manca di far la corte al suo stesso padrone: atteggiamento di spiazzante promiscuità tra l’animale da compagnia e l’essere umano!
Vedremo una situazione analoga negli anni successivi, quando il gatto (Julius), questa volta in versione definitivamente maschile flirterà con Alice! (Alice and the three Bears, 1924).

I due stanno guardando un film su un matador, Rodolf Vaselino (parodia di Rodolfo Valentino), da qui nasce l’dea di far diventare il proprio padrone un eroe dell’arena. Il piano è che il re e sua figlia dovranno essere invitati alla prossima corrida e assistere al trionfo del novello torero, che indosserà una maschera allo scopo di non farsi riconoscere dal re. A quel punto sarà il re stesso a offrire la mano di sua figlia a un uomo tanto temerario. Solo allora potrà togliersi la maschera.

Come farà il ragazzino a sconfiggere il toro? Con un apparecchio ipnotizzatore a onde magnetiche che il gatto manovrerà a distanza!
Il piano si dimostra ben congegnato fin quasi alla fine: Il re offrirà la mano della figlia al torero mascherato, ma quando scoprirà che si tratta dello sgradito sbarbatello, il ragazzino sarà ancora una volta costretto a darsi alla fuga, ma questa volta in automobile e insieme alla ragazza consenziente.

Al re arrabbiato, che nella foga perde anche il mantello sembrando quasi in mutande, non rimane che inseguire l’auto, che accelera e si perde in profondità di campo.
Il significato della narrazione disneyana che ne emerge è piuttosto chiaro: come non vedere in tutto questo la moderna società liberale che si abbatte sull’ultima roccaforte dell’autorità patriarcale?
 
Il cartone animato esordisce con questa epigrafe:
Laugh-O-Gram
PUSS IN BOOTS
Cartooned by Walt Disney
Photographed by “Red” Lyon

La prima inquadratura si apre con occhiello in allargamento sul gatto con ombrellino e valigetta, dalla camminata estremamente credibile, l’occhiello si allarga ancora, inquadrando il ragazzo con un mazzo di fiori che precede il gatto, con una camminata molto meno convincente dal punto di vista  tecnico. Si ha la sensazione che cammini su un tapis roulant con dei pesi nelle scarpe.
Le pupille del ragazzo fisse in mezzo ai globi oculari sembrano in stato catatonico. Questo è l’ultimo cartone animato dove tale animazione grezza è così accentuata.

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Puss in Boots: la carrellata iniziale. La camminata del ragazzo è innaturale, diversamente da quella del gatto. Le pupille ancora non si spostano dal centro oculare


Nella seconda inquadratura il ragazzo incontra la ragazza seduta sul dondolo del giardino.
Qui notiamo il forte tratto distintivo di questo cortometraggio.
I personaggi poggiano i piedi in prossimità della linea inferiore del quadro, lasciando spazio per la scenografia nella porzione superiore.

Nei primi 4 minuti ci sono 5 lunghe inquadrature di questo genere. Per il resto il cartone animato fa un larghissimo uso del campo medio e del totale. Tende a mantenere le figure molto grandi, eppure nello stesso tempo riesce a ottenere sfondi narrativi.

A questo scopo adotta inquadrature estremamente elementari, com’è in uso nei bambini, collocando in basso le figure e occupando la parte alta, dove solitamente i bambini collocano il cielo e il sole, con i particolari scenograficamente più interessanti. Prevale la linea di orizzonte, privilegiata dai bambini, su qualsiasi diagonale prospettica.
In generale nella scenografia si evitano le linee oblique se non in quei pochi casi in cui sono del tutto naturali per l’uso del punto di fuga.

Le inquadrature scelte da Walt creano una ben precisa gerarchia che parte dal basso, ove sono posti i personaggi.
Nella parte superiore, con un ruolo narrativo secondario, si posiziona la scenografia.
Indubbiamente questo sistema gerarchico ricorda il linguaggio grafico dei bambini.
Ma questo non gli impedisce affatto di creare una scenografia vistosamente ricercata.
In effetti Walt sembra proprio compiaciuto dal contrasto tra il palazzo aulico del re, che dà sfoggio di eccentriche statue, e gli edifici lineari della cittadina moderna.

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Puss in Boots: la sequenza del dondolo. La composizione del quadro è particolarmente “infantile”, ponendo i personaggi in prossimità del margine inferiore e lasciando ampio spazio superiore a disposizione delle scenografie. Walt cerca di narrare anche per mezzo di esse: l’ampio sfumato e la profondità di campo prefigurano già una concezione anni ’30. I particolari rendono la scenografia viva e autonoma.
Walt Disney non è interessato a un ambiente “grafico”, cerca un ambiente reale.
Il disegno è tecnicamente ancora troppo primitivo per piazzare il muro in pietra dietro ai personaggi e al dondolo senza creare confusione.
Walt preferisce piazzarlo “sopra”, non disdegna una concezione elementare per dare priorità a tutto ciò che vuol comunicare.
Sono evidenti grandi ambizioni comunicative, al limite dei mezzi tecnici a disposizione


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Particolari: la scenografia aulica molto ricercata è corredata da eccentriche statue. Non è detto che vengano sempre notate dallo spettatore, ma Walt Disney cerca di narrare anche a un secondo livello: dissemina la scenografia di particolari che la rendono viva e autonoma rispetto alla narrazione principale; proprio per questo ne fanno da realistico contrappunto.
Nella realtà percepiamo che tutto ciò che ci circonda vive anche senza la nostra presenza.
L’intento di Walt è chiaro: la scenografia dev’essere viva anche senza i protagonisti


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La magione del re con le sue statue e il giardino lussureggiante. Si noti la precisa teoria di alberi. La reiterazione dell’orizzontalità e della simmetria in buona parte delle inquadrature, l’attenzione al dettaglio e le sfumature fanno di questo cortometraggio un primo tentativo di grande favola in miniatura

Una scenografia dal carattere così ricercato è inedita nel panorama della grande distribuzione di cartoni animati.
Walt Disney mette sempre al primo posto la narrazione e visivamente la realizza su due livelli gerarchici che sono allo stesso tempo interconnessi e separati.
Egli parte da un basso profilo: il punto di vista del bambino, ma certamente lo controbilancia con una ricerca professionale che sfrutta al massimo ogni possibilità artistica e comunicativa.

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Analoghe scenografie simmetriche e complementari tra loro, suddivise da un largo elemento centrale. Sopra è “il vuoto”, la porta aperta del negozio indica una possibilità, la vetrina con gli stivali indica un’opportunità; sotto è “il pieno”, il bussolotto di un cinema mette di fronte a un doppio spettacolo: Cinderella della Lough’O Gram e una parodia di Rodolfo Valentino.
I protagonisti occupano soltanto la metà inferiore del quadro. La scenografia è il vero protagonista di queste sequenze



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L’occhiello dei due protagonisti è analogo a quello del film che guardano. Il gatto flirta col padrone così come i protagonisti del film nel film. Allo stesso tempo Disney si paragona al “grande cinema”.
L’ordinata teoria dei 5 orchestrali in basso trova analogie con la teoria dei  5 alberi nel giardino del re.

Per di più la circolarità dell’occhiello ricorda la circolarità del selciato del giardino.
La costruzione delle due inquadrature è in un certo senso verticalmente speculare



L’indole di Walt è già molto chiara: offrirci il punto di vista di un bambino con i mezzi professionali di un adulto.
Questo requisito è il marchio di fabbrica che ne decreterà il successo per il resto della carriera.
Ma facciamo attenzione: in nessun modo possiamo dire che questa caratteristica è banale e tanto meno comune, sebbene si potrebbe ritenere quasi normale in chi realizza cartoni animati.

Per comprendere meglio lo stile del campo visivo disneyano, che si sta definendo già con molta precisione, è necessario un confronto con i principali autori del periodo. Ma prima occorre chiedersi come mai Walt Disney otterrà un clamoroso successo giusto a partire dall’introduzione del suono sincronizzato.
Il motivo è esattamente lo stesso per cui durante l’era del muto il suo successo rimane un paio di gradini sotto quello di altri autori di cartoons.

Da molte caratteristiche e requisiti del suo modo di creare cartoni animati, possiamo riscontrare che essi sono da sempre concepiti con un evidente senso del sonoro.
Il realismo narrativo disneyano richiama fin da subito un “sonoro virtuale”.
Per accorgersi di quanto Walt concepisse già ogni espressione sonora basta cogliere quante note musicali rende graficamente durante il suono di uno strumento, quanti grafemi usa per rendere un urlo, una botta, un rumore.

Durante l’era del muto Walt insisterà perché i suoi animatori usino abbondanti grafemi per indicare gli effetti sonori. Viceversa, quando sarà introdotto il suono vero e proprio, dovrà insistere perché vengano tolti, l’audio li avrà resi superflui.

Cosa ancora più importante: l’andamento narrativo delle sue animazioni ha un ritmo quasi musicale. Sembra di sentire il dialogo tra i personaggi e questo è dovuto a una naturale sinergia tra loro e ogni altro elemento del racconto.
Il senso del ritmo narrativo costituisce un altro dei grandi punti di forza disneyani. 
Questo rientra a sua volta nel contenitore più grande del senso morale del racconto che mantiene l’attenzione dello spettatore sul filo teso tra un quesito iniziale e una risposta finale.
Facciamo un esempio.

Domanda: il ragazzo sarà degno di fidanzarsi con la figlia del re? Risposta: si, la sua intraprendenza merita di svincolare la figlia dal potere atavico di un padre irragionevole.
Altro esempio. Domanda: cosa guadagnerà il ragazzo dal vantarsi di gesta eroiche davanti a una ragazza? Risposta: nulla, lei preferisce andarsene con chi semplicemente le offre un gelato (vedi: Jack The Giant Killer).
Il racconto morale così composto forma il filo teso su cui si mantiene l’attenzione dello spettatore e su cui si costruisce il ritmo realistico-naturalistico della narrazione.

Da un punto di vista semiotico la narrazione disneyana segue leggi fisiche, per cui a un’azione segue inesorabilmente una reazione (come in Chaplin!), ma allo stesso tempo ciò coincide con l’ideale naturalistico, dettato dal deismo disneyano: ossia ciò che accade è giusto che accada, perché dettato da giusti rapporti di forza, la prima cosa che dovremmo considerare sacra.
Secondo questa morale solo gli spiriti umili possono trovare la possibilità di vittoria: così come nella Bibbia, Davide si rende conto che non può battere Golia in uno scontro corpo a corpo e questo gli suggerisce la fionda.

In Brave Little Taylor (1938) Mickey Mouse può battere il gigante solo ammettendo di essere straordinariamente piccolo! Ciò gli suggerisce di legare il gigante con il filo da sarto!
Questo è l’esempio che più si avvicina al Davide contro Golia, ma questa stessa morale è una costante disneyana fin dagli esordi. In Jack the Giant killer Jack tende una corda per far inciampare i giganti dal dirupo. In Puss in Boot il gatto escogita furbescamente il trucco per far sposare la figlia del re al suo padrone, premiando il giovane e punendo il vecchio prepotente.

Come vediamo, Walt Disney (come Charlie Chaplin) non ama ricorrere alla magia o stratagemmi illogici per risolvere il quesito morale della narrazione. Fa un largo uso della comicità e della fantasia (come Chaplin), ma non se ne serve per offrire la soluzione al nodo principale della storia. Questo richiede una soluzione logica, contenente naturalmente il significato simbolico e morale.

Il viaggio dell’eroe verso l’esito finale può essere anche una sconfitta, ma in ogni caso giustificata. Ciò può avvenire per due motivi: l’eroe non ha fatto il giusto bagno di umiltà o i rapporti di forza non consentivano in alcun modo un esito positivo. 

È quasi banale trovare corrispondenze tra l’ideale disneyano e l’archetipo della tradizione greca del buono e bello, racchiuso nell’espressione kalokathia.
Nel racconto disneyano la buona azione dell’uomo si traduce inevitabilmente in qualcosa di bello.
Il ritmo di una narrazione la cui morale non accetta soluzioni illogiche è necessariamente realistico e conseguentemente richiama rumori e suoni, che, se ancora non fanno parte delle opportunità tecniche del cinema, vengono virtualmente richiamati allo spettatore.

Naturalmente l’accompagnamento del pianoforte o dell’orchestra nelle sale cinematografiche degli anni Venti aiuta ma non può offrire la soluzione definitiva, che si può trovare solo con la futura introduzione del suono sincronizzato.
Ma per lo spettatore sensibile l’illusione del suono è comunque presente, per lo stesso principio per cui il lettore di un fumetto o di un romanzo può avere l’illusione di sentire perfettamente la voce di un dialogo.

Ciò che accade per il suono, virtualmente presente, accade anche per il campo visivo.
Walt cerca sempre di suggerire che il mondo dei suoi cartoons non finisce con il perimetro dello schermo. Come abbiamo già visto propone un intero universo alternativo!
Walt suggerisce non solo un “fuori campo”, ma anche un “fuori tempo”: il mondo che lui propone non finisce con l’uscita dal cinema.
Lo spirito di Walt che sfocerà nell’utopia di Disneyworld è già presente nei suoi primi cartoni animati.

Ben diverso è il senso narrativo e semantico che troviamo in Felix The Cat, il personaggio animato più famoso del cinema muto.
Pat Sullivan come produttore e Otto Messmer come regista sono oggi ritenuti entrambi creatori e disegnatori del personaggio, in maggiore o minore misura, in una diatriba mai del tutto risolta sulla paternità.

Felix ricorda un mimo, la sua silhouette nera e spigolosa, la sua espressività magnetica, le sue linee art déco ne fanno un’icona del cinema muto al pari di Buster Keaton, sfinge cubista in carne e ossa.
Felix, come Buster Keaton, vive all’interno di uno spazio appositamente costruito per rendere ogni inquadratura autosufficiente dal punto di vista espressivo.

Nel cinema muto lo spazio scenografico richiede uno sforzo di rappresentazione particolarmente immediato, assumendosi l’onere della totalità del messaggio espressivo e narrativo.
Sia Felix sia Buster Keaton sono gli autentici rappresentanti di questa concezione scenografica, certamente più che Disney o Chaplin, i quali preferiscono affidarsi a una rappresentazione visiva assai più spontanea e naturalistica, che gli varrà la sopravvivenza dopo l’avvento del sonoro.

La particolare formula espressiva di Felix la possiamo vedere quasi in ogni inquadratura.
Le linee art déco conferiscono una felicissima stilizzazione al disegno, la sapiente distribuzione di elementi scenografici negli angoli crea un senso di intima completezza, così come le vaste linee curve dei paesaggi collinari. Ogni inquadratura, nella sua chiara semplicità è un’illustrazione autosufficiente per equilibrio statico. Felix, che si muove in alcuni frangenti come un mimo, cosciente di esistere in un silente spazio teatrale è un vero caposcuola per il cinema degli anni Venti.


Sopra: Felix Save the Day (1922)
Sotto: Felix the Ghost Breaker (1923)






Sopra: Felix Out of Luck (1924)
Sotto: Felix Tries for Treasure (1923)




Esempio di ambienti differenti con punto di vista e linee di forza analoghe, in cui prevale l’orientamento diagonale. Il punto di vista è posto molto più in alto della statura naturale della persona, l’osservatore è collocato su un palco virtuale, ha il controllo dell’intero campo visivo.
Una parete scenografica segue una diagonale che si alza dal lato sinistro e si interrompe più o meno a metà quadro, un elemento scenografico (come un tavolo, un bidone eccetera) fa da contrappeso nell’angolo inferiore del lato opposto, ossia il destro.
Vari altri elementi contribuiscono a racchiudere la coreografia dentro un perimetro scenografico.
Per comodità sono state prese scenografie simmetricamente analoghe, ma naturalmente lo stesso schema può essere replicato specularmente.
Siamo virtualmente come a teatro: la scena che ci viene presentata di volta in volta è semioticamente autosufficiente, non è quindi un frammento di realtà, non suggerisce un mondo fuoricampo, tutto ciò che vediamo è tutto ciò che sta accadendo.
Questo tipo di scenografia ha una perfetta affinità con l’intimità spaziale che richiede il cinema muto, in cui tutto si svolge generalmente dentro il perimetro del campo visivo



A destra Felix Doubles for Darwin del 1924. È possibile che la coreografia sia stata copiata dal semisconosciuto Jack the Giant Killer di Disney del 1922? Personalmente non ho trovato riscontro a questa ipotesi in altri studi, ma è del tutto evidente l’analogia tra le due scene.
Cogliamo l’occasione di mettere in luce in modo diretto le specifiche caratteristiche di due concezioni scenografiche estremamente differenti. In Felix fa da sfondo un orizzonte collinare del tutto stilizzato e teatrale, in Disney il paesaggio è sfumato e naturalistico.
In Felix il pubblico di scimmie che osserva lo spettacolo è posto in diagonale, nell’angolo in basso a destra, in Disney gli animali spettatori sono collocati in linea orizzontale sullo sfondo, dietro le giraffe.

La coreografia disneyana è semplice e naturale, al contrario, quella di Felix, è decisamente strutturata e teatrale.
Si evidenzia in questo confronto anche la differenza semantica: per Disney sarebbe stata una contraddizione logica mettere un filo elettrico collegato a un grammofono tra le 2 giraffe. Se gli animali della giungla avevano accesso alle tecnologie allora perché non sostituire anche le giraffe con due pali?
Nella coreografia di Walt
un serpente sostituisce il filo del funambolo. Per lui nel mondo del cartone animato vige un codice logico di regole non dette, una sorta di limite compensatorio alla fisicità illimitata di cui gode il mondo della fantasia.
Uno degli aspetti fondanti della creatività disneyana è l’apparato logico su cui stava costruendo un vero e proprio universo parallelo.
Questo manuale logico è stato arricchito cartone animato dopo cartone animato, in modo intuitivo e non certo sempre coerente, ma proprio questo lungo percorso lo ha reso assimilabile al pubblico in modo naturale, quasi del tutto inconscio.
Il mondo disneyano è penetrato nell’immaginario collettivo proprio attraverso l’incessante costruzione di una coerenza logica in un mondo di possibilità illimitate. 
Questo è da ritenersi un tratto distintivo disneyano unico e fondamentale



Felix osserva il cartellone di un Circo in Felix Wins Out, del 1923. Abbiamo una scena analoga nel disneyano Jack The Giant Killer del 1922. Anche in questa occasione il confronto semantico, sul significato espressivo delle due scenografie è estremamente prezioso: potrebbero sembrare somiglianti ma sono in realtà perfettamente antitetiche.
Felix si imbatte nel cartellone di un circo incollato a una palizzata di un villaggio in aperta campagna, in un’ambientazione tipica dei suoi cartoni animati.
Notiamo tre elementi che incorniciano la scena: la casetta di sfondo, sul lato sinistro; i rami dell’albero sul lato superiore; il bidone nell’angolo inferiore destro; Felix occupa l’area inferiore sinistra.
Lo spettatore è inconsciamente introdotto in un ambiente intimo, circoscritto, una dimensione dichiaratamente teatrale, pienamente gratificante.
La scenografia disneyana è semanticamente più impegnativa: ci mostra quattro cartelli che raffigurano i freak, le attrazioni grottesche dei circhi, molto in voga all’epoca. I cartelloni corredati di descrizioni vanno molto nel dettagliato. I grossi cordoni dei tendoni attraversano vistosamente la scena. Sullo sfondo a destra, dove finiscono i cartelloni, vediamo in dettaglio le guglie dei tendoni. Tutti questi particolari ci introducono in modo assai realistico nell’atmosfera grottesca del circo dei freak. I quattro personaggi a coppie hanno invece il ruolo di introdurci nella narrazione attraverso la gestualità e il simbolismo di un gioco alternato di bianco e nero, come abbiamo visto nel precedente articolo.
Nelle prime scene di questo cortometraggio ci è stata mostrata una gran calca intorno alle varie attrazioni; ebbene, nella scena dei cartelloni sembra ancora di sentire il rumoreggiare della folla retrostante.
È un realismo sorprendente, nonostante la professionalità ancora acerba di Walt. Gli orizzonti aperti, naturalistici di questo cartone animato rimandano l’immaginazione fuoricampo e oltre il presente, a ciò che è avvenuto prima e a ciò che potrebbe succedere dopo. Siamo davanti a una concezione cinematografica molto avanzata, che secondo certi parametri si potrebbe ritenere al di sopra delle possibilità del cinema muto e non di meno delle capacità tecniche di cui Walt era in possesso all’epoca.
Se guardiamo Felix Wins Out ci rendiamo conto di quanto la concezione scenica di Sullivan e Messmer sia invece perfettamente ritagliata sulle possibilità del cinema muto.
Lo spettatore entra in contatto con una struttura visiva a schema chiuso, una formula grafica del tutto gratificante: non solo concentra l’attenzione dello spettatore sulla scena ma in un certo senso crea una dimensione condizionante, per cui non esiste altro al di fuori del campo visivo
.


Nelle storie di Felix non si trova alcun particolare senso morale, sono legate a circostanze del tutto casuali da cui scaturisce in alcuni casi un cinismo non particolarmente motivato. Anche i gesti benevoli di Felix verso qualche persona in difficoltà non sembrano provenire da un vero sentimento di bontà, quanto da un pretesto qualsiasi per impiegare il tempo. Felix è infatti sempre in giro a cercare qualcosa da fare. Quasi non nascondesse di essere un personaggio dei cartoni animati in cerca di avventure strane per divertire il pubblico.

In realtà proprio la semplicità con cui si pone di fronte al pubblico, senza filtri, senza crearsi un’identità fittizia, un impiego, un qualche obiettivo, sembra rompere la “quarta parete”, quella che lo mette direttamente in contatto con gli spettatori di cui trova l’indubbia complicità.
Come Buster Keaton, Felix combatte contro circostanze avverse, è uno scontro del tutto casuale con l’ineluttabile avversità della natura, non contro la malvagità incarnata nell’individuo.
I nemici di Felix sono mossi da qualunquismo più che da malvagità.

Le forze in campo, che siano positive o negative, in Felix come in Keaton, sono identificabili negli elementi naturali, oppure da un gruppo di esseri umani o animali non dotato di vera volontà, ma piuttosto mosso dall’automatismo tipico delle masse.
Possiamo trovare alcune similitudini tra le allegorie keatoniane del moltiplicarsi degli elementi avversi e quelle di Felix.


Buster Keaton: Cops del 1922. Tutto il corpo di polizia è all’inseguimento di un solo uomo



Felix: Doubles for Darwin del 1924. Un branco di scimmie insegue Felix e un suo compare


In Doubles for Darwin un nutrito branco di scimmie insegue Felix dall’Africa all’America attraverso il cavo elettrico transoceanico, semplicemente perché Felix ha mostrato loro la foto di uno statista moderno e due dandy “effeminati”, chiedendogli se sono loro parenti… L’intento era chiedere alle scimmie se davvero l’essere umano è loro discendente. Non potremmo mai immaginare una reazione tanto accanita e surreale in un cartone animato disneyano, anche soprassedendo sul cinismo discriminatorio che ha innescato cotanta violenza.

In generale la morale disneyana calibra la motivazione e il grado della reazione per cause materiali o moralmente più elevate.
Anche in questa caratteristica troviamo un deciso parallelismo tra Disney e Charlot le cui vicende vengono innescate da bisogni umani fondamentali. Charlot è un vagabondo eternamente a stomaco vuoto, e per di più fortemente empatico con persone altrettanto deboli. 
Sappiamo bene che anche la narrativa disneyana si regge sul senso morale del contrasto tra il debole contro il forte, del piccolo contro il grosso.

Questo doppio parallelismo semantico tra Disney e Chaplin e tra Sullivan-Messmer e Keaton naturalmente non è affatto totalizzante, ha l’intento di mettere il focus su alcune fondamentali analogie, non su ogni sfumatura personale di questi autori.
Se si fa un’analisi a livello semiotico si riscontra che le medesime caratteristiche narrative che riconosciamo in Disney e Chaplin, da cui emerge un racconto di tipo morale, porta determinate similitudini anche sul piano visuale.

Prendiamo in considerazione The Immigrant (1917) come modello particolarmente significativo del linguaggio scenico chapliniano.
Nella sua prima inquadratura frontale Charlot guarda distrattamente in camera sorridendo, quasi fosse un filmato di famiglia. Questa è evidentemente la cifra stilistica che sta cercando: quella della spontaneità.

Naturalmente questa spontaneità è cinematograficamente costruita, non può essere altrimenti, ma tutto viene accolto dallo spettatore come una credibile proiezione del reale: siamo in un teatro di posa, gli attori sono vistosamente truccati, come sempre, ma Chaplin, in qualità di regista, pretende che la nave degli immigrati debba oscillare tutto il tempo.  
Le numerose comparse costituiscono, di contorno alla scena principale, una coreografia realistica in continuo movimento.

Più avanti, nella scena del ristorante, Chaplin divide l’inquadratura verticalmente in due porzioni.
Nella porzione di destra si volge la narrazione vera e propria.
La porzione sinistra è invece occupata dalla coreografia di due orchestrali che suonano ininterrottamente per tutta la durata della scena: si tratta di un valore aggiunto estremamente realistico alla rappresentazione.
Quanto più lo spettatore lo percepisce inconsciamente quanto più ne assorbe l’effetto.
Non possiamo immaginarci una simile soluzione nel linguaggio cinematografico keatoniano, ove regna l’essenzialità che fa convergere ogni elemento sull’azione principale.

The Immigrant: gli orchestrali sono quasi sempre parzialmente coperti dalla massa del burbero cameriere, tanto più la loro presenza è nascosta, tanto più l’effetto è realistico


Sia Disney sia Chaplin si possono ascrivere a quel tipo di rappresentazione visiva che il semiotico francese Louis Marin definisce “trasparente”: è come una finestra sul mondo, se ne fruisce un frammento ma del tutto reale e spontaneo. 
Alla rappresentazione “trasparente” si contrappone quella “opaca” in cui l’autore struttura l’immagine per mezzo di un’”architettura” in modo molto evidente, mettendo in mostra il proprio stile e la propria   soggettività: è una struttura appositamente costruita per lo spettatore.

Non possiamo non pensare in questo caso al quadro scenico di Felix, elegantemente incorniciato da elementi scenografici come arredi, oggetti di ogni tipo o alberi, coprendo soprattutto gli angoli tra soggetto e spettatore. Per quanto riguarda lo stile grafico: come sappiamo è deliziosamente Art Déco.
Più di tutto è importante notare che non viene fatto uso di sfumature, gli sfondi sono lineari quanto i personaggi, virtualmente ogni oggetto è sullo stesso piano: il vero protagonista del cartone animato è il gioco grafico!

Gli autori, Sullivan e Messmer inviano agli spettatori un messaggio sottinteso: state comodi, non tenteremo di rendere realistico questo cartoon con effetti illusori, potete semplicemente rilassarvi e stare al gioco.
Il pubblico degli anni venti non può che premiare questo approccio, così come viene più o meno inconsciamente percepito.

Per contrasto l’astrattezza di Felix, nella sicurezza del suo manifestarsi senza ambizioni realistiche, acquisisce anche un’aurea più intellettuale rispetto ai prodotti disneyani.
Per lo stesso motivo per cui in genere un dipinto astratto viene ritenuto intellettualmente più stimolante di un dipinto realistico. Con la differenza che nel caso del cinema muto non è l’élite ad apprezzare una maggiore stilizzazione, bensì il grande pubblico.

Walt Disney, per propria predisposizione, ha scelto un approccio realistico: sfondi acquerellati, profondità di campo e le molte caratteristiche narrative che abbiamo fin qui analizzato.
il risultato che si vedrà nel decennio successivo è quello che i veterani degli studi Disney, Frank Thomas e Ollie Johnston definiranno The Illusion of Life (1997), fornendo il titolo al loro noto volume sugli anni d’oro dell’animazione.

Le rappresentazioni chapliniane, come quelle disneyane sono composte da una struttura visiva vivacemente casuale, si ispirano organicamente alle esigenze del messaggio, esulano da un particolare ordine stilistico, da un particolare controllo strutturale, perseguendo il concetto di “finestra sulla realtà”.

Si pone al centro la narrazione più che il protagonista, l’attenzione è sul globale, più che sul particolare.
Il significato di queste caratteristiche visive trova corrispondenza con il significato del racconto: il fulcro è sulla morale, ciò significa che è il protagonista che si adatta alle circostanze, piuttosto che le vicenda a plasmarsi sulle caratteristiche del personaggio principale.
La narrazione è “aperta”, ossia ha un punto di partenza costituito dal protagonista, ma si apre man mano verso un lascito finale che è il senso del racconto.

Ciò è ben simboleggiato dalla mancanza di costanti costruttive dell’immagine: il protagonista non è all’interno di un ambiente controllato, in qualche modo chiuso e immutabile, ma è in un ambiente aperto, reale, che alla fine del racconto avrà mutato di senso, ovvero alla fine del racconto il protagonista avrà mutato il suo rapporto di forza con il mondo.
Ci può venire in aiuto un esempio per ogni autore citato.

Il parallelismo tra due autori di cartoni animati e due autori di cinema live action può esserci ancora di aiuto. Tenendo conto delle differenze semantiche, anche molto marcate tra i due linguaggi cinematografici. 
Per esempio: Buster Keaton esprime un controllo sulla rappresentazione svuotandola di vari particolari del tutto casuali che nella realtà generalmente esistono, come persone o oggetti che non hanno alcun ruolo attivo per lo svolgimento della narrazione. Questi sono elementi che sia Disney sia Chaplin ritengono utili per una percezione realistica del racconto. Le scenografie keatoniane tendono invece all’essenzialità formale, pur non sfociando nella dimensione del “finto” o del “teatrale”.

Viceversa Sullivan e Messmer ottengono lo stesso risultato di controllo sulla rappresentazione proprio aggiungendo diversi particolari rispetto a quelli che la spontaneità del disegno animato potrebbe richiedere, posizionandoli inoltre in posti non casuali, ossia nel ruolo di equilibrare e incorniciare l’inquadratura.

Ecco un esempio per ogni autore.

Puss In Boots,  Walt Disney,  1922

Tappe del viaggio di trasformazione:
il protagonista aspira alla mano di una ragazza; subisce un’umiliazione da parte del padre di lei;  segue un fase di avvilimento; arriva l’idea; applicazione dell’idea; ottenimento dell’obiettivo; furia del padre della ragazza.
Il senso della narrazione:
il protagonista ha ottenuto lo scopo, ha attraversato diversi stati emotivi; la situazione principale si è ribaltata in modo definitivo. Si è passati da un ragazzino umiliato e una figlia ostaggio di un padre prepotente, a una fuga d’amore verso l’orizzonte. Il re è privato del mantello, metaforicamente lasciato in mutande.  
Il fulcro non è il personaggio, ma la morale. È stata ottenuta una piccola favola moderna, un piccolo prototipo di ciò che Disney ci mostrerà con i capolavori del decennio successivo.

Felix Wins Out, Pat Sullivan e Otto Messmer, 1923

La vicenda è legata al personaggio:
Felix si annoia; per combattere l’apatia, più che per un bisogno economico cerca di farsi assumere in un circo, il direttore contrariato lo caccia malamente; Felix ruba delle pulci ammaestrate e le getta addosso agli animali circensi, provocandone la fuga; a questo punto il direttore gli promette che se riesce a farli tornare verrà assunto; Felix, che ha precedentemente rubato un flauto a un ammaestratore di serpenti, riesce a farli tornare senza problemi di sorta.
Il meccanismo del racconto:
il racconto inizia espressamente con questo pensiero di Felix: “Questa è una città noiosa, vorrei che accadesse qualcosa”.
Il personaggio non avendo obiettivo alcuno non crea “la tensione verso qualcosa” che è la base del meccanismo narrativo classico.
Egli attua ogni sua azione senza una reale esigenza, senza alcuno sforzo emotivo. Ogni azione di Felix avviene quasi in assenza sforzo, come un automatismo.
Non innescandosi un meccanismo narrativo non ne consegue una morale.
Ogni accadimento è legato al protagonista, quasi come in un videogioco il nostro eroe è tutt’uno con ciò che accade.
Il pubblico non viene affascinato dal senso della storia, ma viene calamitato da una sorta di gioco a tappe, per certi versi ipnotico, come una serie di accadimenti concatenati in sequenza lineare. Il meccanismo richiama indubbiamente quello di un moderno videogioco.
Caratteristiche estetiche:
come in tutti i cartoni animati di Felix nessun personaggio, tanto meno il protagonista, va verso lo spettatore. Anche questa è una caratteristica dei videogiochi: il personaggio principale non può incontrare lo spettatore perché esso stesso lo rappresenta. I movimenti sono per lo più laterali, e in pochi casi in profondità di campo.
Non c’è una gerarchia tra personaggi e sfondo: tutto è rappresentato nel medesimo stile lineare, senza uso di sfumature per gli sfondi.
Ci sono oggetti che pongono l’accento sul perimetro del quadro, ossia sulla natura artificiale del campo visivo, ossia quale costruzione di un autore.
La linea in stile Art Déco pone ancora una volta l’accento sull’autore dell’opera.

The Immigrant, Charlie Chaplin, 1917

Su una nave di migranti verso New York, Charlot conosce una bella ragazza accompagnata dalla madre. Si invaghisce della ragazza e si prende cura della situazione delle due donne.
Più tardi in un ristorante incontra nuovamente la ragazza e le offre un pasto, per poi accorgersi di non avere un soldo. Riescono fortunatamente a cavarsela facendosi offrire il pranzo da un bizzarro impresario teatrale.
Usciti dal ristorante decidono di sposarsi.
I passaggi emotivi di Charlot, alle prese con la minaccia di essere picchiato dal ristoratore e il desiderio di far colpo e sposare la ragazza sono molto forti.
Il film ci restituisce anche uno spaccato della condizione del migrante, almeno nella dimensione emotiva e simbolica: per esempio nell’incessante oscillazione della nave. 

The High Sign, Buster Keaton 1923

Una banda criminale ordina a Buster di uccidere un uomo, ma Buster, che si innamora della figlia dell’uomo, si ribella e sconfigge la banda con l’uso fortuito di varie trappole.
Ogni passaggio avviene senza variazioni emotive da parte dell’eroe, Keaton è famoso per la sua imperturbabilità, ma anche tenendo conto di questo è la vicenda stessa a non raccontarci di un percorso di trasformazione dell’eroe nel corso della vicenda.
Per esempio, non è il fatto di infatuarsi della fanciulla a determinare le sue migliori intenzioni, dato che già in precedenza ci viene presentato come una persona candida.
L’eroe, come in tutte le comiche keatoniane, costituisce il racconto stesso, ne è la componente principale.
Lo spettatore lo segue per vedere quali meccanismi metterà in moto e come ne uscirà.
Una didascalia iniziale ci dice che: “Il nostro eroe è venuto da non si sa dove, non sta andando da nessuna parte ed è stato cacciato via da qualche parte”.
Rompendo la “quarta parete”, la barriera virtuale che divide dal pubblico, l’autore sembra dirci che il protagonista è qui apposta per lo spettatore.
Osserviamo che in altre comiche ci sono da parte dell’autore incursioni della quarta parete ben più dirompenti e inaspettate. Basti ricordare One Week del 1920: la mano che si pone davanti alla cinepresa per impedire la visione di una nudità femminile, oppure nel capolavoro Sherlock Junior, del 1924: le incursioni del protagonista dentro lo schermo cinematografico durante la proiezione di un film.
Tutti i modi in cui il regista ci dice che stiamo guardando un film, possiamo partecipare alla rappresentazione, abbiamo l’opportunità di entrare nello schermo, ma viceversa non troveremo mai il protagonista fuori dalla sala ad aspettarci.
Siamo alla polarità opposta del barbone di Charlie Chaplin che ci illude di avere una vita oltre lo schermo, quasi lo si potesse incontrare casualmente per strada.

Buster Keaton: One Week (1920). La donna si sporge dalla vasca per prendere il sapone, una mano si mette opportunamente davanti all’obiettivo per coprire visioni sconvenienti. Keaton sta rendendo il pubblico partecipe alla regia


Carmelo Bene spiega Buster Keaton in chiave anti-chapliniana: “Keaton scopre che non si può né perdere né vincere, che non ci sono né amici né nemici, scopre forse anche che non si nasce mai, che noi non siamo nella realtà, noi siamo l’unica realtà”.
Keaton porta lo spettatore dentro lo schermo.
Chaplin porta il protagonista del film nel mondo reale.

Buster Keaton: The Goat (1921). La locomotiva con l’accovacciato Buster si ferma un attimo prima di “scontrarsi” con la cinepresa: virtualmente con lo spettatore.
Keaton ancora una volta coglie l’occasione per fare spettacolo con la regia: è dietro e davanti alla macchina da presa! Lo spettatore degli anni venti accetta di essere reso complice del “fare cinema”.
Nel decennio successivo il cinema sonoro diverrà arte dell’illusione al suo massimo grado, per molto tempo non vedremo più registi rompere la “quarta parete” e mettersi a “flirtare” con il pubblico.



Buster Keaton: Sherlok Junior (1924). L’uomo entra nello schermo. Keaton gioca con l’immagine, portando all’apice le potenzialità surreali del cinema muto


Disney si trova in una terra di mezzo: cerca di fare in modo che lo spettatore e il cartone animato si incontrino a metà strada, nel migliore dei mondi reali, nella realizzazione dell’utopia!
Se si coglie pienamente questo aspetto non si può vedere Disney solo come un artista, bensì anche come un imprenditore.
Ma soprattutto non lo si può vedere solo come un imprenditore! Bensì come uno che ha reso indistinguibili l’arte e l’impresa.
Il fine ultimo non è ciò che esce dalla fabbrica, l’utopia disneyana consiste nel rendere il lavoro, ciò che occupa la maggior parte del tempo umano, l’aspetto più soddisfacente della vita.

Walt Disney aveva la convinzione di essere per tanti giovani impiegati il veicolo del coinvolgimento in una missione creativa collettiva, qualcosa di più elevato che lavorare per un salario.
Anche qui è opportuno fare una digressione temporale, perché è particolarmente significativo il trauma emotivo e ideologico che subì a causa del famoso sciopero del 1941.

Non furono i motivi economici che inflissero a Walt la peggior ferita, quanto invece trovarsi di fronte a una situazione per lui inconcepibile: constatare che il 30% dei suoi collaboratori non solo non si sentiva più parte dell’impresa, ma ne era ormai antagonista.
La volontà di scioperare a oltranza per andare contro a interessi collettivi più ampi e positivi, che sono quelli dell’azienda, fu vissuta come lo smaterializzarsi di un mondo ideale.
La missione dell’impresario e quella dei collaboratori era stata fino a quel momento un oggetto inscindibile, per non dire indistinguibile nelle parti.

Lo scoprire che impiegati nel “miglior posto di lavoro al mondo”, quello “al servizio della fantasia”, non erano felici costituiva una minaccia alle motivazioni stesse di tutta la sua vita: era una questione assai più grave del mero fatto economico.
I capi dei sindacati divennero per lui una minaccia ai valori americani: erano sobillatori, promotori di un’ideologia che tendeva a portare le imprese a essere mere distributrici di salari sotto il controllo dello stato.
L’influenza comunista costituiva una minaccia per il sogno americano, così come l’ideologia nazifascista costituiva, in quello stesso periodo, una minaccia alla libertà di tutti i popoli.
Dal 1941 il suo studio iniziò a produrre cartoni animati di propaganda antinazista.
Disney si trovò, nel giro di pochi mesi, a dover difendere il sogno americano e la libertà stessa su due fronti opposti: il comunismo e il nazifascismo. 

In questo aspetto anticipa e rappresenta l’essenza stessa del pensiero del ceto medio statunitense, soprattutto a partire dagli anni della guerra fredda e dal maccartismo.
Il concetto di “maggioranza silenziosa”, così adatto a descrivere lo strato più profondo della società americana della seconda metà del Novecento è la naturale proiezione dei valori disneyani.
La maggioranza silenziosa è quel grande silente strato provinciale che si limita a vivere in modo acritico, pragmaticamente, senza esprimere il proprio pensiero politico se non con il voto.
Ricordiamo che uno dei principi dell’Ordine del DeMolay, a cui Walt fu fedele per tutta la vita, fu quello di non occuparsi di politica e teorizzazioni ideologiche: un modo di vivere squisitamente pragmatico.

Eppure, nonostante tutto questo Walt sfugge alla definizione di “classico conservatore”, tanto meno reazionario.
Come da lui riportato fino allo sciopero del 1941 il suo voto andò regolarmente ai democratici, ciò che rimase di questo retaggio anche dopo la sterzata repubblicana fu il senso collettivo dell’impresa, il rispetto per il “politicamente corretto” e naturalmente la tendenza a porre la fantasia in una posizione privilegiata.
 


(In un prossimo articolo continuerò a parlarvi dei cortometraggi della Lough-O-Gram e il periodo di Kansas City).



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