Corsica. Lungo la strada dipartimentale D81, in prossimità del colle di Teghime, a pochi chilometri dalla città di Bastia, c’è una fontanella dove i viaggiatori assetati non disdegnerebbero di fermarsi e abbeverarsi nei caldi giorni d’estate se non fosse per la scritta: “Acqua non potabile”.
È nota come la Fontana del Boia, ma non perché bevendo le sue acque si rischierebbe di vedersi passare un cappio al collo per avere ignorato l’avviso. La fontana si chiama così perché un tempo, così dice la leggenda, il boia della città usava lavarvi i suoi strumenti di tortura e di morte ancora grondanti del sangue delle sue vittime.

Ma perché andare così in alto e lontano dalla città? A Bastia non sono mai mancate le fontane pubbliche. Il fatto è che, almeno in un lontano passato, il boia ispirava tanto orrore che la popolazione preferiva tenerlo in disparte, costringendolo a vivere in periferia e a non inquinare le fontane della città lavandovi i suoi ferri.

Pasquale Paoli (1725-1807), il generale che si era battuto per l’indipendenza della Corsica dalla Francia, affermava: “Così come abbiamo bisogno di sarti e calzolai è necessario avere un boia corso”. Nessuno nell’isola avrebbe mai accettato una funzione così disonorevole ed esecrabile. I corsi avrebbero forse preferito morire piuttosto che diventare il carnefice.
C’era anche il fatto che la giustizia in Corsica aveva un suo decorso storico basato sulla vendetta, la quale rendeva inutile il ricorso all’esecutore di giustizia. Perciò fece molto scalpore il caso di un assassino che, per ottenere la grazia da Pasquale Paoli, accettò l’incarico vacante. Gli uomini del condottiero, indignati, erano convinti che l’infamia e il disonore sarebbero ricaduti sull’intera nazione corsa.

Se in quei tempi remoti vivere da boia significava essere confinati ai margini della società, più recentemente l’esecutore di giustizia aveva cominciato a vedere se stesso come un impiegato dello Stato, e cercava di integrarsi quanto più gli era possibile nel tessuto sociale. Nel 1853, per esempio, il carnefice dell’Alta Corsica era un certo Vincent Bornacini.
Oltre che boia, era anche falegname. I suoi concittadini gli ordinavano armadi, letti, tavoli, sedie e comodini. Vestito di tutto punto, andava a fine mese alla prefettura e alla procura a incassare il suo onorario di onesto professionista. Come un cittadino qualunque, frequentava i “luoghi di perdizione” dove la gente beveva e partecipava a violente risse.

Non era comunque facile per il boia lottare contro i pregiudizi che la gente nutriva nei suoi confronti. Nessuna donna avrebbe voluto sposarsi e avere dei figli con lui, costringendolo, quindi, a restringere la scelta della sua moglie nella sfera del proprio mestiere e a sposare la figlia di un altro boia.

Fu così che nel 1826 il boia della Corsica, Jean-Baptiste Simaliot, che quell’anno era subentrato al padre nella funzione e di cui parleremo più avanti, chiese al Presidente della Corte Reale l’autorizzazione di recarsi sul continente perché essendo l’unico esecutore di giustizia dell’isola non poteva procurarsi né moglie né amanti sul posto.

Se la popolazione corsa era in genere ostile al boia, lo erano ancora di più quelli che avevano la maggior probabilità di morire tra le sue mani: i banditi. Ma dovevano riuscire a scampare alle pallottole dei gendarmi e dei loro nemici.

Lo stesso padre di Jean-Baptiste, Louis Simaliot, fu vittima dell’odio di un certo Cecco Sarocchi, il quale propose alla comunità dei banditi, composta da circa 150 membri, di uccidere il boia per vendicare l’amico Ancino ghigliottinato a Bastia.
Il 24 gennaio 1824 Louis Simaliot e il suo aiutante e genero Matthieu Alvida erano a caccia nello stagno di Chiurlino, quando caddero in un’imboscata tesa da Sarocchi e da alcuni complici. Simaliot riuscì a scappare, ma l’aiutante rimase nelle mani dei banditi. Fu chiesto un riscatto, ma al momento del pagamento Sarocchi e complici furono arrestati.
Il corpo dell’aiutante fu trovato pochi giorni dopo, sgozzato con un pugnale.

Cecco Sarocchi fu ghigliottinato il 31 maggio 1825 sulla piazza Saint-Nicolas di Bastia dallo stesso Simaliot.

A partire dal 1870 il decreto Crémieux soppresse i boia di provincia, lasciando in carica un solo carnefice con cinque aiutanti per tutta la Francia. Questi dovevano spostarsi per ogni esecuzione, portandosi appresso la pesante ghigliottina.
Nel 1888, alla vigilia del suo primo viaggio in Corsica, dove doveva ghigliottinare il bandito Xavier Rocchini, il boia Louis Deibler ricevette un consistente numero di lettere minatorie. In una di queste si poteva leggere: “Per Taffari e Per Bellaciosa, se vai a Sartene, non ne farai ritorno”. Lettera firmata con una testa di morto tra due tibie.
Deibler sbarcò nell’isola scortato da tre compagnie di fanteria e dalla gendarmeria a cavallo.

Nel 1898 tornò a Bastia per esecuzione del bandito Fazzini. Questa volta nessun albergatore fu disposto a ospitarlo. Nonostante le autorità avessero requisito una camera d’albergo dove avrebbe potuto anche consumare i propri pasti, Louis Deibler preferì dormire e mangiare a bordo del Cyrnos, la nave con cui aveva fatto l’attraversata da Marsiglia.

C’era un aspetto di quel mestiere che, in qualche modo, permetteva di integrare il boia nella società. La costante frequentazione del patibolo, il dispensare regolarmente la morte trasformavano agli occhi della gente il boia in un conoscitore dell’anatomia umana quasi allo stesso titolo dei grandi medici.
Così come era capace di uccidere, per una sorta di compensazione magica, il boia era considerato in grado di curare le ferite. Non erano rari i carnefici che dedicavano un po’ del loro tempo alla cura dei malati che si presentavano timorosi alla loro porta.

 

 

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