Il cavolo è ampiamente coltivato in gran parte del mondo con molte varietà, o meglio, con gruppi di varietà: dai broccoli, conosciuti anche come broccoli romani e caratterizzati dalla classica infiorescenza verde piramidale, ai broccoletti, sempre di colore verde, passando per il cavolfiore, chiamato anche cimone, i cavolini di Bruxelles, il cavolo nero, il cappuccio e la verza.

Il cavolo verza (nome scientifico della brassica oleracea) detto anche verzotto, cavolo verza, cavolo sabaudo, o di Savoia o cavolo lombardo/di Milano è un ortaggio conosciuto fin dai tempi più antichi. È originario delle coste atlantiche dell’Europa occidentale.

La pianta è spontanea nelle regioni costiere dell’Europa meridionale e occidentale. A causa della sua elevata tolleranza al sale e al calcare, occupa spesso le scogliere calcaree costiere.


Le lodi del cavolo di Catone

Cavolo cappuccio

Scrive Marco Porcio Catone nel “De re rustica”: «Brassica est quae omnibus oleribus antistat; eam esto vel coctam vel crudam».
Cioè: «È il cavolo quello che supera ogni altro vegetale; si può mangiare sia cotto, sia crudo».
Marco Porcio Catone, De re rustica, 160 a. C. circa.

Catone era preoccupato per la penetrazione della cultura greca nel mondo romano che stava avvenendo ai suoi tempi. Si oppone alla medicina praticata dai medici greci a Roma. I costumi del buon tempo antico, l’uso del cavolo per curarsi come faceva il buon padre di famiglia romano, sono esaltati da Catone.

Nel primo secolo dopo Cristo, Plinio il vecchio nella sua opera enciclopedica “Naturalis historia”, che è una summa di tutto il sapere scientifico della sua epoca, non si discosta molto dal pensiero di Catone. Secondo Plinio la società romana basata sull’agricoltura e sull’esercizio delle armi deve favorire la forza e la robustezza dei cittadini ricorrendo all’uso degli ortaggi come il cavolo che sono anche un toccasana per le loro proprietà curative e medicamentose.
Plinio considera irrispettoso lamentarsi per l’odore che emana il cavolo cuocendo, se paragonato alla virtù curative dell’ortaggio.


Virtù medicamentose del cavolo

Le credenze sulle straordinarie doti medicinali del cavolo sono ancora diffuse oggi giorno. Del resto, la scienza moderna ha confermato tutto ciò che lo spirito di osservazione degli antichi aveva intuito.

1) Il cavolo è la verdura “regina” dei menù salutistici. Il cavolo apporta un mix di sostanze antiossidanti, quindi anti-age, vitamine e minerali. I benefici del cavolo sono tanti e, consumato regolarmente, oltre a un cibo saporito, diventa anche uno strumento naturale di prevenzione.

2) Il cavolo rinforza le ossa in quanto è ricco di calcio. Per questo motivo può essere prezioso per le donne in menopausa, più esposte al rischio di osteoporosi e per i vegani che escludono latte e latticini dalla dieta. Importante per un buon sistema osseo e muscolare anche la vitamina K. Le uniche cautele sono per chi assume alcuni anticoagulanti orali come il Coumadin: in questo caso, dal momento che la vitamina K ne riduce l’assorbimento, meglio moderare le quantità degli ortaggi a foglia verde.

3) Il cavolo difende dall’attacco di virus e batteri. Stimola le difese naturali dell’organismo contro le infezioni e rinforza il sistema immunitario. Il suo segreto di “antivirale” naturale? L’altissima percentuale di vitamina C e vitamina A che contiene. Attenzione, la vitamina C si disperde con il calore, mentre rimane intatta se si consuma il cavolo crudo e fresco. Per assimilare al meglio la vitamina A, che è liposolubile, bisogna invece condire sempre il cavolo con un grasso “buono” come l’olio extravergine di oliva.

4) Il cavolo protegge la vista. Contiene luteina e zeaxantina che lo rendono un ortaggio amico della vista: consumarlo regolarmente contribuisce a prevenire la cataratta precoce e la degenerazione maculare.

5) Il cavolo aiuta la dieta. Permette di dimagrire con meno fatica e in modo più salutare. 100 g di cavolo apportano appena 30 calorie e formano un discreto volume.  Inoltre è ricchissimo di fibre che stimolano l’intestino e permettono di sentirsi sazi prima e più a lungo, regolando anche il livello degli zuccheri e del colesterolo nel sangue.

6) Il cavolo è un anti-age naturale, grazie alla quercetina antiossidante e anti-invecchiamento, agli omega 3 e ancora alla vitamina C che stimola la produzione di collagene e rende tonici i tessuti. Una pelle più bella e giovane è il suo piacevole “effetto collaterale”.

7) Il cavolo rende più energici e sostiene l’umore. Come altre verdure invernali, sembra fatto apposta per affrontare le giornate e le sere di freddo con più energia e con più buonumore. Il merito è delle vitamine del gruppo B e in particolare della B6 rasserenante e dell’acido alfa linolenico (ALA), sulforafano e di folati preziosi soprattutto per la salute delle donne.

8) Il cavolo contiene il sulforafano, che pare svolga un’attività preventiva dei tumori e di tutte le forme infiammatorie. Quindi la scienza ha confermato l’intuizione degli antichi: proprio l’odore nauseabondo del cavolo bollito segnala la presenza del sulforafano, cioè del principio attivo che protegge dal tumore.


Cavoli cappucci sulle navi

Cavolo cappuccio

L’alto contenuto di vitamina C del cavolo cappuccio ha rappresentato una risorsa importante nell’alimentazione umana, soprattutto se si pensa alle popolazioni dell’Europa centro-settentrionale per le quali, durante i mesi invernali, questa pianta è stata l’unico ortaggio fresco disponibile e quindi la principale fonte di vitamine.

Lo scorbuto, una malattia devastante causata dalla carenza di vitamina C, ha mietuto vittime per secoli tra i marinai che, durante i loro lunghi viaggi, non avevano accesso alle verdure fresche, o tra le classi più povere del nord Europa, malnutrite per quanto riguarda le verdure fresche. Si stima che tra il 1500 e il 1700 circa due milioni di marinai morirono a causa dello scorbuto. A titolo di esempio, ricordiamo il caso dell’ammiraglio inglese George Anson che, durante il suo viaggio intorno al mondo (1740-1744), perse, principalmente a causa dello scorbuto, circa 1300 dei suoi 2000 marinai.

Il cavolo ha svolto un ruolo fondamentale nell’eliminazione di questa malattia. L’esempio più importante è rappresentato dal viaggio intorno al mondo (1768-1771) del capitano James Cook.

La dieta tipica dei marinai era a base di carne salata, carne secca, legumi, burro e formaggio, con sufficienti calorie e proteine, ma molto povera di vitamine. Ai tempi di Cook, un medico scozzese, James Lind, dimostrò che le verdure fresche, i crauti e soprattutto il succo di limone erano efficaci nella prevenzione e persino nel trattamento dello scorbuto.

Per il lunghissimo viaggio di Cook era impossibile pensare alle verdure fresche, così venne preparato un succo di limone essiccato che si rivelò inutile (oggi sappiamo che il succo di limone disidratato perde gran parte delle vitamine). Furoni i crauti, grazie ai quali il capitano, con la sua nave Endeavour, non perse nessuno dei suoi marinai a causa dello scorbuto. Cook prese a bordo circa 3,5 tonnellate di crauti (cavolo fermentato), che, grazie al  loro apporto  di vitamina C, impedì  la comparsa della malattia. Il cavolo fresco è di per sé una buona fonte di vitamina C, ma il processo di fermentazione subito dai crauti ne aumenta notevolmente il contenuto e la biodisponibilità.


Lotta allo scorbuto

Interessante anche ricordare come James Cook riuscì a indurre i marinai a mangiare il cavolo fermentato, alimento a cui non erano abituati e che solitamente rifiutavano: ordinò che il cavolo fosse servito solo nella mensa degli ufficiali, come cibo loro riservato. I marinai cominciarono presto a lamentarsi della discriminazione e chiesero di avere anche loro a tavola le verdure che prima avevano disdegnato.

Ecco le sue parole: “I marinai all’inizio non mangiavano i crauti, finché non misi in pratica un metodo che non poteva fallire con loro. Ci sarebbe stata una razione di crauti servita tutti i giorni a tavola, che permetteva a tutti gli ufficiali, nessuno escluso, di consumarli. Ma questa pratica non continuò oltre una settimana prima che io trovassi necessario dare a tutti un premio per l’imbarco; poiché tale è il temperamento e l’indole dei marittimi in genere, che qualunque cosa tu dia loro in modo comune, sebbene sempre per il loro bene, non la consumeranno e sentirai solo mormorii contro colui che dà. Nel momento in cui vedono i loro superiori dargli valore, diventa la cosa migliore del mondo”.
Infatti Cook durante il suo viaggio non perdeva occasione per acquistare verdure fresche, tutte ottime fonti di vitamina C. Così durante il suo soggiorno alle Hawaii spesso imbarcò patate dolci, banane e frutti dell’albero del pane, mentre nella circumnavigazione della Nuova Zelanda enormi quantità di sedano di mare (apio prostrato).

L’uso dei crauti sulle navi divenne in seguito la norma e così i balenieri furono in grado di far fronte anche a crociere di caccia di tre o quattro anni grazie agli stock di crauti.

Possiamo dire che il cavolo ha aperto la strada ai grandi viaggi oceanici, ma ha anche contribuito al massacro delle balene.

Gli olandesi e gli scandinavi conoscevano già le virtù dietetiche del cavolo cappuccio nella prevenzione dello scorbuto durante i lunghi mesi invernali e durante i lunghi viaggi per mare, ma a quanto pare l’informazione non era giunta a tutti. Secondo gli ufficiali della marina britannica, ancora nell’Ottocento, la migliore prevenzione è stata fornita dalla disciplina e dal duro lavoro.


I crauti cioè i Sauerkraut

Sauerkraut

I crauti (in tedesco Sauerkraut, letteralmente “erba acida”) sono un contorno tipico della cucina tedesca, ottenuto dal cavolo cappuccio, tagliato finemente e sottoposto a fermentazione lattica. Tuttavia non sono stati inventati dai tedeschi, pare che la ricetta per preparare i crauti fosse arrivata in Europa con le invasioni mongole alla fine del Duecento.

Sono detti anche salcrauti o sarcrauti (come adattamento dell’originale tedesco), oppure cavoli acidi o anche, in Venezia Giulia, cappucci acidi. A Trieste si chiamano capuzi o capuzi garbi.

I crauti sono uno dei prodotti più frequenti nella dieta germanica, al punto da formare all’estero, insieme a patate e salsicce, il cliché nutrizionale generalmente attribuito ai tedeschi.

La preparazione è a base di cavolo cappuccio, le cui foglie sono tagliate a piccole strisce e sottoposte a fermentazione lattica naturale controllata, per circa due mesi, con aggiunte di sale da cucina, pepe e aromi.

Il procedimento, usato principalmente come metodo di conservazione, modifica il profilo organolettico del vegetale e conferisce ai crauti il tipico sapore deciso e leggermente aspro. I crauti sono sicuramente un alimento molto goloso. Il classico panino che si mangia nelle antiche birrerie di Monaco con crauti, salsicce e/o wurstel e mostarda durante l’Oktoberfest è una vera prelibatezza. Ma nel nostro immaginario (sicuramente nel mio) è considerato un cibo indigesto e poco salutare. Probabilmente le salsicce e i wurstel non sono il massimo per quanto riguarda il colesterolo, ma i crauti sono  un alimento ricco di vitamine e sali minerali.

I crauti favoriscono la digestione, poiché rinforzano la flora intestinale, allontanando così batteri e virus patogeni. Questo risultato lo abbiamo solo se mangiamo i crauti crudi. Infatti nella cottura tutti i fermenti vivi e le vitamine termolabili, così importanti per la nostra flora intestinale e non solo, vengono eliminati. Infatti qualsiasi pastorizzazione distrugge e abbatte le straordinarie proprietà dei crauti.
I crauti in scatola di solito sono pastorizzati. Per poter godere delle straordinarie doti organolettiche dei crauti bisognerebbe armarsi di pazienza e farli. Su internet trovate molti siti (https://fermentalista.com/sauerkraut-fatti-in-casa/) che giurano e spergiurano che fare i crauti è facilissimo e che il risultato è ottimo.  Nella tradizione italiana siamo abituati a conservare alimenti fermentati sotto sale: pensiamo ai capperi, alle melanzane e ai peperoni.


I paesi dove si consumano crauti

I crauti appartengono alla tradizione gastronomica non solo di aree di lingua tedesca come Germania, Austria, alcuni cantoni svizzeri e Alto Adige, ma anche di Paesi come Slovenia (dove li chiamano kislo zelje), Ungheria, Croazia, Polonia (kapusta kiszona), Russia (Квашеная капуста, kvašenaja kapusta), Ucraina, Bielorussia, Repubblica Ceca (kysané zelí), Bosnia ed Erzegovina e Serbia (kiseli kupus).
I crauti vengono usati nei piatti tradizionali anche in Romania, chiamati in lingua romena varză murată. In Italia sono diffusi nei territori ex-asburgici come il Lombardo-Veneto (in alcune varianti della Cassœula) e in Friuli-Venezia Giulia (con il nome di “capuzi”), oltre che nell’Emilia occidentale (con il nome di “sacrao”).

Proprio a Reggio Emila sarebbe nato un piatto piemontese e ligure che è un’antica imitazione dei crauti non di origine popolare ma di origine nobiliare.


Il sancrau, ricetta piemontese

Questa è un’antica ricetta piemontese. Nulla a che vedere con i più noti crauti tedeschi che si ottengono per fermentazione.

La loro storia è tortuosa e affascinante. Li troviamo con il nome “Sal Craud” nel “Libro contenente la maniera di cucinare”, redatto da un anonimo nel secondo settecento per la casa dei conti Cassioli di Reggio Emilia.

La ricetta era un tentativo di italianizzare il “Sauerkraut” tedesco, prodotto con i cavoli fermentati e di non facile reperimento in Italia.

Non nasce, come si potrebbe credere, come pietanza contadina, ma come alimento ricco di spezie e condimenti degno, appunto, della tavola di un conte.

Si diffonderà anche in Piemonte, più come uno sfizio per aristocratici. Solo più tardi, impoverendosi degli ingredienti raffinati e incorporandone altri più poveri come le acciughe e l’aglio comparirà nella cucina popolare.


Sancrau

Ingredienti per 6 persone.

1 cavolo cappuccio medio (io adopero una bella verza bianca e croccante)

½ bicchiere di vino bianco dolce (vernaccia, moscato eccetera)

¼  di bicchiere di aceto di mele (o di vino bianco)

½ bicchiere d’acqua

1 cucchiaio di zucchero

50 gr. di filetti di acciuga dissalati

Uno spicchio d’aglio

Olio extravergine d’oliva q.b.

Una noce di burro.

Sale q.b.

Procedimento.

Lavate e tagliate a striscioline sottili il cavolo.

Mettete l’olio, il burro l’aglio e i filetti d’acciuga in una pentola capiente, rosolate dolcemente per qualche minuto poi aggiungete il cavolo tagliato a listarelle sottili.

Lasciate insaporire per qualche minuto rimestando spesso.

Aggiungete l’aceto, il vino, lo zucchero, e l’acqua. Rimestate e portate ad ebollizione.

Abbassate la fiamma al minimo, coprite la pentola e lasciate cuocere per 40 minuti.

Tutto il liquido dovrà evaporare. Lasciateli riposare 24 ore e poi, gustateli caldi di contorno alla salciccia, ai wurstel,  al cotechino, ai batsuà, alla frittata eccetera. Io aggiungo un paio di mele a tocchetti al posto dello zucchero.


La fiera del cavolo di Montaldo Dora

Di novembre si tiene la fiera del coj ariss (cavolo riccio) a Montaldo Dora, in Piemonte nel Canavese. Montaldo Dora è un ameno paesino di circa tremila abitanti, che si trova nella provincia di Torino sulla strada che porta in Valle D’Aosta.

La cittadina e la campagna circostante sono famose per la produzione di cavoli verza particolarmente croccanti, teneri e bianchi. I venti freddi e le gelate provenienti dalla Valle D’Aosta e il particolare metodo di coltivazione conferiscono ai cavoli di Montaldo Dora una croccantezza e una dolcezza particolari. 

Quando la produzione del coj ariss entrò in crisi, gli abitanti di Montaldo Dora pensarono di organizzare una fiera che celebrasse il loro prodotto agricolo più conosciuto e che attirasse i margari della Valle D’Aosta con la loro fontina e i loro rinomati  formaggi, in modo che i visitatori della fiera potessero fare acquisti in vista del Natale. Nacque così questa magnifica fiera che è ripresa dopo il Covid.

La supa ed coj (zuppa di cavoli) è preparata dalle vecchiette della pro loco, non dai catering tutti uguali dell’Emilia Romagna come succede purtroppo in altre fiere. Quando sono andata alla fiera del cavolo a Montaldo Dora mi sono fatta spiegare dalle vecchiette come facessero a preparare quella prelibatezza. All’epoca io cuocevo nel brodo le foglie di cavolo e stop.

La supa ed coj di Montaldo Dora si presenta in forma di un parallelepipedo abbastanza alto e con una deliziosa crosticina dorata sopra e piuttosto umida sotto senza essere acquosa. La supa è sistemata in teglie rettangolari che vengono divise in rettangoli. Sul fondo ci sono sistemate fette di pane casereccio abbrustolito (strofinate con aglio se piace), poi c’è una copertura di foglie di cavolo sbollentate nel brodo di carne, ci sono quindi delle fette di cotechino ben cotto e sopra ancora parmigiano grattugiato. Sopra ancora altre foglie di cavolo ben cotte nel brodo private delle parti dure e coriacee. Infine, nella parte più alta della supa ed coj le foglie di cavolo sono coperte da uno strato di parmigiano. La supa viene passata in forno fino a doratura. 
L’ideale è gustarla il giorno dopo a quello in cui è stata preparata in modo che tutti le componenti, cavolo, pane, cotechino, parmigiano si amalgamino e si insaporiscano.

Il brodo è fondamentale. L’ideale è preparare il brodo del bollito misto piemontese usando un pezzo di carne con l’osso, un pezzo di lingua, un pezzo di zampa di vitello e/o zampa di maiale, ossa da brodo. Far bollire con sedano, carota, cipolla steccata con tre chiodi di garofano, sale quanto basta. Estrarre progressivamente la carne quando è a cottura. Filtrare il brodo. Sgrassarlo e usarlo per cuocere le foglie di cavolo mondate delle parti coriacee.


Confort Food

Quando ero bambina nei giorni intorno ai Santi andavo al cimitero centrale di Torino a portare i fiori. Avevo sui dodici anni e mia madre mi lasciava andare da sola in tram. Ero molto orgogliosa di avere questo incarico. Mi sembra che facesse molto più freddo di quanto faccia adesso. Alcune volte nevicava a folate. Il tram faceva capolinea al cimitero. Così, al ritorno, il tram era quasi vuoto e trovavo un posto per  sedermi vicino al finestrino. Le mani erano molto fredde e io le nascondevo dentro le maniche per tentare di scaldarle. Le strade diventavano buie e man mano si accendevano i lampioni. Alla mia fermata scendevo e mi avviavo verso casa di corsa perché mia madre mi aspettava. Prendevo l’ascensore. Abitavamo al quinto piano. Io avevo suonato il campanello da basso e mia madre mi faceva trovare la porta dell’alloggio aperta. Sul pianerottolo si sentiva il profumo di cibo che veniva da casa nostra e per me non era sgradevole anche se mia madre aveva cucinato la zuppa di cavoli. C’era una pentola di terracotta un po’ panciuta colma di cavoli sul fornello a gas. La nostra zuppa di cavoli era casalinga, non era buona e ricercata come la supa ed coj di Montaldo Dora, ma ci scaldava lo stomaco..


Ricetta della supa ed coj

Ingredienti

1 cavolo verza di circa 1 kg

200 g di fontina

1 manciata abbondante di grana

8 grosse fette di pane raffermo

1 l di brodo

uno spicchio d’aglio

1 cipollina

50 g di burro

olio, sale, pepe, salvia

Procedimento

In un largo tegame soffriggere la cipolla in 2-3 cucchiai d’olio e aggiungere le foglie di verza a striscioline, dopo averle lavate e private del torsolo duro. Aggiungere sale e pepe e un mestolo di brodo caldo e cuocere coperto. La verza deve appassire ma restare croccante.

Tostare nel forno le fette di pane e quando sono ancora calde sfregarle con l’aglio (se piace).

Sistemare in una pentola di coccio 4 fette di pane, coprire con metà delle verze e metà della fontina e spolverare di parmigiano. Ripetere fino all’esaurimento degli ingredienti.

Coprire la zuppa di brodo fino a metà. Irrorare con burro fuso e salvia e infornare a 180° per 30 minuti. Servire calda.


Il cavolo si mangia in compagnia

Il cavolo si mangia in compagnia. Le belle teste bianche possono raggiungere anche i tre chili.
I nostri amici milanesi, che venivano al mare dove andavamo noi, quando organizzavano loro la rimpatriata invernale prenotavano in una osteria che faceva la cassoeula. Sui tavoli di legno c’erano le tovaglie a quadretti.

Mangiavamo insieme ridendo e scherzando e sono nati degli amori fra i ragazzini che venivano a mangiare la cassoeula insieme ai nonni.

L’unione di carni, insaccati e verdure sono tipiche dell’area di cultura celtica che ha lasciato la sua tradizione anche gastronomica nella Gallia Cisalpina, l’attuale Lombardia, nella zona Occitanica del Sud Est francese, nella Galizia, dove si trova la caoeûla, la potée e il pote gallego.

Pietro Verri annota nella sua “Storia di Milano”, riferendosi alle usanze dell’XI secolo, che “quando le campagne avevano bisogno di pioggia si poneva una grande caldaia sul fuoco in sito aperto e vi si facevano bollire legumi, carni salate ed altri commestibili; poi si mangiava e si spruzzava d’acqua i circostanti”.

La grafia della cassoeula varia in casoeûla o cazzoeûla, per indicare il piatto tipico della cucina milanese. Nel tempo ha subito cambiamenti delle carni e degli insaccati cotti lungamente con le verze gelate che si disfano al calore.
I buongustai apprezzano i sapori del piatto tipico del tardo autunno e dell’inverno.
Ottorina Perna Bozzi lo considera un piatto rituale dedicato a S. Antonio, festeggiato il 17 gennaio quando “el mazzô” abbatteva il maiale e ne lavorava le carni. La scrittrice milanese propone la sua ricetta fra le innumerevoli citate in tutti i testi più o meno autorevoli.


Ricetta della cassoeula

Ingredienti
600 grammi di costine di maiale (costaiooeul);
qualche cotica di maiale fresca;
un piedino di maiale;
300 grammi di ” salamitt di verz” (salsiccia legata in piccoli tronchetti);
carote, sedano, cipolle bionde;
una verza
20 grammi di burro.

Procedimento
Far rosolare la cipollina affettata nel burro, aggiungere le cotiche fresche passate prima alla fiamma per rasarle bene e il piedino di maiale spaccato a metà, farli insaporire e coprire di brodo, salare e lasciar cuocere lentamente finché l’acqua si è asciugata.

Aggiungere le costine di maiale, farle insaporire cuocendole per mezz’ora, unire sedano e carote
affettate e quando anche queste sono cotte aggiungere la verza a foglie dopo averla lavata e aver tolte le coste più grosse e dure.

D’inverno la verza cuoce in 20 minuti, ma se è gelata, va messa in pentola prima, almeno per 45 minuti.
La cassoeula deve essere umida, ma non troppo bagnata, ossia “la gh’ha de vess tachenta e minga sbrodolada e sbrodolenta” come si dice a Milano. Se invece fosse troppo acquosa, scolare il sugo, farlo restringere a parte e aggiungere poi l’insieme facendola cuocere ancora per qualche minuto.

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