Se si aggiunge una seconda “u” al termine francese “tourner”, che significa girare (anche nel senso di girare un film), si può comprendere che forse Jacques Tourneur era destinato a diventare un grande regista.

Tourneur nasce a Parigi nel 1904 e ottiene la nazionalità statunitense nel 1914, quando si trasferisce nel New Jersey con la famiglia (il padre, Maurice Tourneur, è stato un regista altrettanto importante).

Scomparso nel 1977, Jacques Tourneur ha diretto dai primi anni Trenta alla metà degli anni Sessanta oltre trenta lungometraggi (più numerosi telefilm), con una predilezione per il genere avventuroso. È autore anche di un buon numero di western, ma il suo nome è legato soprattutto al noir e all’horror.

Alcuni registi importanti gli devono qualcosa: Dario Argento, senza dubbio, ma anche Stanley Kubrick e William Friedkin.
Tra i cineasti americani il più tourneuriano è con ogni probabilità Paul Schrader, che nel 1982 ha diretto Il bacio della pantera, rifacimento di uno dei capolavori di Jacques Tourneur. Gli anni Ottanta hanno poi celebrato il regista con un altro remake: Due vite in gioco (Against All Odds, 1984), di Taylor Hackford (che riprende Le catene della colpa).

I LUOGHI ANGOSCIOSI NEI FILM DI JACQUES TOURNEUR
L’uomo leopardo

 

La definizione dark è diventata d’uso comune e a volte viene utilizzata a sproposito. In vari film di Jacques Tourneur, tuttavia, il buio è una componente fondamentale. Nel suo primo e più celebre horror, Il bacio della pantera (Cat People, 1943), la protagonista Irina in una delle scene iniziali dice “I love the dark” (“Amo il buio”).

L’oscurità, il nero della notte sono d’altra parte elementi che caratterizzano il cinema di Tourneur, e non solo gli horror. Lo stesso regista in un’intervista degli anni Sessanta affermò: “Nei miei film horror ci tenevo che tutti gli uomini fossero vestiti in nero-blu, tutte le donne in nero e che la scenografia fosse quasi nera. Si ottiene allora un effetto sorprendente. Si ha l’impressione che i corpi galleggino nelle tenebre” (Cahiers du Cinéma n. 181, agosto 1966).

In L’alibi sotto la neve (Nightfall, 1957), tratto da un romanzo del più “nero” degli scrittori americani, David Goodis, Jim Vanning sottrae a due rapinatori una valigia contenente un mucchio di soldi. Per non essere ritrovato, esce di casa solo quando calano le tenebre.
Nei minuti iniziali, tra i più belli del cinema americano, lo vediamo spaventarsi perché per strada la luce viene accesa all’improvviso.

Dall’oscurità al sovrannaturale e quindi all’orrore il passo è breve, almeno sul grande schermo. Ma in Jacques Tourneur c’è qualcosa di più della semplice messa in scena di situazioni spaventose, che pure non mancano: nemmeno nei noir, basti pensare alla morte di uno dei due rapinatori nel finale di L’alibi sotto la neve.

Tourneur in alcune interviste affermò di credere “al potere dei morti, alle streghe”. Tuttavia nei suoi horror non mancano i personaggi scettici.
In La notte del demonio (Night of the Demon, 1957) John Alden, uno scienziato americano, va in Inghilterra allo scopo di smascherare il dottor Karswell, perché ritiene che non si tratti di un vero mago e intende dimostrarlo.

Certo, nel finale traspare una certa ambiguità: lo stregone ha davvero poteri sovrannaturali o è solo un pazzo, il demone è frutto di un’allucinazione o esiste davvero?
“È meglio non sapere”, dicono i due protagonisti nell’ultima scena.
In La notte del demonio e Ho camminato con uno zombi una linea sottile separa il reale dal sovrannaturale, credenze e superstizioni dalla razionalità scientifica.

Nella commedia horror Il clan del terrore (The Comedy of Terrors, 1963), prodotta dall’American International Pictures e sceneggiata da Richard Matheson, Tourneur ironizza su una figura chiave del cinema del terrore: il morto vivente. Un uomo viene creduto morto e invece si tratta solo di morte apparente.

Sostanzialmente, l’effetto ottenuto è quello di cui ha scritto lo studioso Filippo D’Angelo nel breve saggio “Cat People: come perdere il bus” (in “La cosa di questo mondo – Il New Horror Usa”, Cinema & Cinema, anno 10, gennaio/marzo 1983): “Al punto che la costante incertezza sulla veridicità, oltre a soddisfare quel sentimento di spaesamento che Todorov pone come condizione imprescindibile per l’esistenza del genere fantastico”.

Il sovrannaturale, il mistero e le atmosfere noir sembra dunque che vengano utilizzate da Tourneur soprattutto per raccontare vicende di personaggi immessi in situazioni che li opprimono e li intristiscono. È così per Irina in Il bacio della pantera, senza contare che nello stesso film Oliver, che ha sposato la ragazza, dice di non essere mai stato infelice prima di sposarsi. Ed è così per i fabbricanti di bare di Il clan del terrore.

Tristezza e angoscia in Tourneur permeano ogni sequenza e passano da un personaggio all’altro.
In una delle scene iniziali di Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombi, 1943), l’infermiera Betsy Connell è a bordo della nave diretta a San Sebastian, una località tropicale dei Caraibi. Ci sta andando per assistere Jessica, la moglie di Paul Holland, proprietario di una piantagione di zucchero.

Sulla nave conosce Holland. L’uomo le fa capire che non è solo bellezza quella che la circonda. Guardando una stella cadente, Holland dice: “Everything go dies here” (“Ogni cosa muore”).
Al minuto 13:57 sempre Holland, riferendosi al Fort Holland di sua proprietà, commenta: “This is a sad place”, ovvero “Questo è un luogo triste”.

Il cinema di Tourneur è costruito sui Sad Place, che naturalmente sono anche luoghi mentali.

Il clan del terrore

 

Al minuto 50:14 di L’uomo leopardo (The Leopard Man, 1943) la cantante di night Kiki, protagonista del film, rivolgendosi al suo impresario Jerry Manning, definisce “sad place” il cimitero dove una ragazza, Consuelo, è stata uccisa.

Un luogo triste dopotutto è anche la città sottomarina di 20.000 leghe sotto il mare (War-Gods of the Deep, 1965), l’ultimo lungometraggio diretto da Tourneur. Gli abitanti di questa città non invecchiano mai, ma se salgono in superficie muoiono rapidamente.

Nel noir Le catene della colpa (Out of the Past, 1947) il luogo triste è delimitato dallo stesso spazio filmico e dalle relazioni tra i personaggi. Non a caso, i protagonisti muoiono tutti.

Da non dimenticare poi l’episodio Chiamata notturna (Nightcall), del 1964, uno dei migliori della celebre serie televisiva statunitense Ai confini della realtà (Twilight Zone), scritto nuovamente da Matheson. Ancora una volta la notte, nel titolo di un film di Tourneur (il titolo originale oltretutto è una curiosa variazione di Nightfall).

La protagonista di Chiamata notturna è una donna anziana ossessionata da continue e inspiegabili telefonate notturne. Quando la donna capisce che la voce che sente è quella dell’amato, morto tanti anni prima, è troppo tardi. L’uomo non richiamerà più.

Il cupo pessimismo di questo piccolo gioiello e più in generale dell’opera tourneuriana del resto è confermato dallo stesso regista, il quale una volta, riferendosi al suo brillante film avventuroso La leggenda dell’arciere di fuoco (The Flame and the Arrow, 1950), disse: “È uno dei pochi film ottimisti che io abbia mai realizzato”.

 

 

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