Il 13 maggio 1994 usciva nelle sale Il Corvo. Instant-cult poi ridimensionato in base alla scuola di pensiero del: “Eh, ma se non moriva Brandon, Il Corvo restava un filmetto da venerdì sera su Italia 1”.

Beh, questa non è la nostra filosofia.

 


Tra i miei cinecomic preferiti Il Corvo è quello che riguardo di meno. Sarà la sua fama di film maledetto, sta di fatto che quando l’ho visto una volta è crollato un pezzo di cornicione da casa, un’altra volta mio padre ha avuto una emorragia dal naso e ho dovuto portarlo di notte al pronto soccorso. Insomma, come si dice: “Non è vero, ma ci credo”.

Vabbé, finite le note autobiografiche (e sperando di arrivare vivo alla fine dell’articolo), partiamo con la sigla.

Una vecchia leggenda narra che, quando accade qualcosa di troppo triste e ingiusto, i corvi possano far tornare un’anima dall’aldilà il tempo necessario perché questa possa fare giustizia mettendo le cose a posto.

La notte del 31 ottobre, un corvo riporta in vita il chitarrista Eric Draven (Brandon Lee), esattamente un anno dopo che lui e la sua fidanzata Shelly erano stati uccisi dai balordi T-Bird, Skank, Funboy e Tin Tin poco prima del loro matrimonio.

Guidato dal corvo, truccato alla Pierrot e invulnerabile alle ferite, Eric affronta e uccide uno alla volta tutti i suoi aguzzini. Trova anche il tempo per donare un po’ di serenità al poliziotto Albrecht (Ernie Hudson), l’unico che aveva seriamente cercato di far luce sull’omicidio suo e di Shelly, e alla piccola amica Sarah (Rochelle Davis), alle prese con una madre eroinomane nonché amante proprio di uno degli aguzzini di Eric.

Alla fine, con l’aiuto della ragazzina e dello sbirro Eric affronterà il vero mandante del suo omicidio, lo spietato boss Top Dollar (Michael Wincott), del quale Shelly stava intralciando le speculazioni edilizie: uno psicopatico che tiene la città in pugno e la polizia sul libro paga, e che pianifica di bruciare l’intera metropoli in occasione della notte di Halloween.


Prima ancora che uscisse nelle sale, nel 1994, Il Corvo era già un cult per via della prematura scomparsa di Brandon Lee, morto tragicamente sul set e ‘resuscitato’ dalla computer grafica per completare alcune scene (furono utilizzati anche Chad Stahelski e Jeff Cadiente, stuntmen amici di Brandon).

Ma Il Corvo aveva fama di opera ‘maledetta’ fin dalle sue radici fumettistiche.
L’autore, James O’Barr, si arruola nei marines in seguito alla morte improvvisa d’una persona cara. Mentre si trova sotto le armi in Germania inizia a progettare un fumetto ispirato alla cultura dark, alla musica dei Cure e dei Joy Division, e a un fatto di cronaca: una coppietta uccisa per un anello da trenta dollari.

Nel corso degli anni ottanta il fumetto trova un editore, la Caliber Press, che però è in cattive acque e l’ultimo capitolo rischia di rimanere inedito. Nel 1990 il fumetto viene completamente ristampato e portato a termine da un’altra casa editrice, la Tundra (cresciuta grazie alla popolarità delle Tartarughe Ninja). Nel 1993 la Kitchen Sink riunisce il tutto in un volume unico aggiungendo materiale inedito.

L’edizione del fumetto attualmente in vendita in Italia, per le Edizioni Bd

Arriviamo quindi al film.
Sulla morte di Brandon si fecero parecchie ipotesi. C’è chi parlò di una maledizione dato che anche suo padre, il grande Bruce Lee, il re dei film di kung fu, morì prematuramente. Altri pensarono a un omicidio, dato che Brandon aveva preferito lavorare negli Stati Uniti anziché a Hong Kong, dove l’industria del cinema è in mano alla mafia.

In realtà si trattò d’una disgrazia. Durante le prove, il bossolo d’un colpo sparato a salve rimase incastrato nella canna della pistola e, quando la scena fu girata, un secondo colpo lo sparò come una vera pallottola.

Il triste destino di Brandon e quello del suo personaggio, realtà e fantasia, si sovrappongono e Il Corvo diventa un cult per una generazione di ragazzi cresciuta in un’epoca dove la cultura dark (depressione, cupezza e romanticismo) è di moda.

Molti detrattori sostengono che senza la risonanza mediatica data dalla morte di Lee il film sarebbe passato inosservato: in fondo, l’esordiente regista Alex Proyas (noto anche per Io, Robot con Will Smith), non ha girato altro che un videoclippone dalla trama banalissima e dal maledettismo costruito a tavolino.
E questo, in un certo senso, è verissimo.
Eppure siamo di fronte a uno di quei casi dove quelli che dovrebbero essere dei difetti funzionano lo stesso a meraviglia e il film esercita un fascino tutto suo anche su chi dark o metallaro non è.

Va chiarito che, al di là della sua morte, Brandon Lee sarebbe stato comunque ricordato per la sua convincente e carismatica interpretazione. E gli altri attori non sono da meno, dal compassato Hudson (meglio noto come Winston in Ghostbusters) alla piccola Davis (peccato che crescendo non sia divenuta una star), per non parlare del villain Michael Wincott, che già si era fatto notare nei panni di Sir Guy di Gisborne in Robin Hood Principe dei Ladri, e che qui si conferma uno splendido supercattivo delirante, sopra le righe, ma con un che di malinconico da poeta romantico.


Per quanto riguarda il maledettismo “fasullo per adolescenti”, bisogna dire che alcune battute, prese in sé e per sé, suonano banali e adatte per essere scritte sul diario di scuola. Tuttavia, inserite nel contesto del film, diventano memorabili.
Come scordare frasi come “Non può piovere per sempre”, con cui Eric si rivela a Sara, o “Vittime: non lo siamo tutti?” messa in bocca a un mesto Top Dollar. Per non parlare di “Madre è il secondo nome di Dio sulla bocca e nei cuori di tutti noi”, quando Eric convince la madre di Sarah a smettere di drogarsi, o ancora “Credimi, nulla è insignificante”, pronunciata da Eric quando, parlando con Albrecht, ricorda la sua amata. Menzione speciale per “Sbalordito rimase il diavolo quando comprese quanto osceno fosse il bene”, una citazione dal Paradiso Perduto di John Milton, letta a Shelly da uno dei suoi assassini.

E l’estetica da videoclip? Beh, diciamo che se tutti i videoclip fossero così curati e suggestivi, non potrebbero che essere opere d’arte.

Il Corvo è il Batman che abbiamo sempre sognato, con una Detroit degradata, quasi esclusivamente notturna e piovosa (da far sembrare Sin City il villaggio dei puffi), e con le atmosfere gotiche e quelle underground che si amalgamano alla perfezione spinte ai massimi livelli. Peccato che, dopo il bellissimo e sottovalutato Dark City, Proyas non abbia più realizzato opere dark-fantastiche.

Arriviamo infine all’ultima accusa: l’eccessiva essenzialità della trama. A volte una trama banale simile a infinite altre si rivela un vantaggio poiché rende la storia universale.
Eric Draven (il cognome suona come raven, sinonimo di crow: corvo) è un chitarrista metallaro, ma anche un bravo ragazzo innamorato e fiducioso nel futuro, che dopo la sofferenza subita si trasforma non in un vendicatore come nel fumetto, ma in un angelo della morte ancora in grado di distinguere il Bene dal Male, e che quando uccide lo fa in maniera meno sadica e compiaciuta rispetto alla pagina disegnata (il che rende la pellicola politically correct e quindi accessibile al vasto pubblico).

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Eric è l’essenza dell’eroe giustiziere: come il Conte di Montecristo di Dumas, come lo straniero senza nome dei film western e come mille altri esempi. È il castigo per quei malvagi senza ombra di redenzione, ma anche il paladino e la speranza dei giusti.
È quella giustizia che, pur avendo il sapore della vendetta, riesce a essere pura. Il richiamo a quell’eroe che tutti abbiamo dentro, che forse non tireremo mai fuori, ma che sentiamo gridare di fronte all’ingiustizia. E, al tempo stesso, è quella luce nell’oscurità, la speranza di un giorno senza pioggia. C’è una vita oltre la morte, e anche se dell’aldilà non ci viene detto nulla si può continuare a vivere nel cuore di chi non ci dimentica.

“Le case bruciano. Le persone muoiono. Il vero amore è per sempre”.

 

TRIVIA SU “IL CORVO”

– Ho volutamente sorvolato sui seguiti cinematografici: un capitolo 2 appena mediocre, e un 3 e un 4 tanto scarsi da uscire direttamente in home video. Esiste anche una serie tv in 22 episodi The Crow: Stairway to Heaven (1998) che dai noi è circolata a tarda notte su Rai Due.

Michael Wincott è uno di quei pochi fortunati bastardi che migliorano invecchiando. Confrontate il racchio che era in Robin Hood e Il Corvo e com’è nel più recente (e bellissimo) western Forsaken – Il Fuoco della Giustizia (2015) con Kiefer Sutherland e Demi Moore: ora sembra quasi affascinante.

Chad Stahelski, il già citato stuntman di Brandon Lee, è divenuto regista e ha diretto la trilogia di John Wick.
A costo di sembrare cinico devo dirlo: se la pallottola l’avesse presa lui anziché Brandon, non avremmo avuto John Wick. Spesso la vita sembra insensata, poi il tempo passa e il Grande Disegno ricomincia ad avere un senso…

 

(Immagini trovate su internet: © Degli aventi diritto)

 

 

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