Le due file di humandroidi si estendevano per tutto il corridoio centrale. Come ogni mattina, una buona mezz’ora veniva impiegata per l’auto riparazione e il settaggio delle macchine. Gli humandroidi erano in tutto simili all’uomo solo che non necessitavano di pausa pranzo, non avevano ferie né diritti di sorta, ma ricevevano un mini stipendio che poi andava dritto nelle tasche del proprietario. Chiunque, infatti, poteva procurarsi un humandroide e farlo lavorare al posto suo ma, visto il costo proibitivo, come al solito erano pochi quelli che se lo potevano permettere. Non certo Peppino e il suo amico che, proprio a causa di questi robot, il posto lo avevano perso davvero più di sei mesi prima. Le due macchine che li avevano sostituiti, in effetti, costavano meno della metà all’azienda e producevano per almeno un terzo di più. I due però, dopo un primo momento di sconforto e dopo aver provato invano a rimettersi sulla piazza, avevano avuto la pensata del secolo: si sarebbero finti humandroidi e avrebbero lavorato come prima per conto di sedicenti lavoratori (sempre loro due) irreperibili perché trasferiti momentaneamente alle Canarie. Non sarebbe stato facile accettare i turni massacranti, nascosti in quelle armature di plastica, mangiando fugacemente un toast nascosti in qualche sgabuzzino e riducendo al minimo la sosta nei bagni, ma piuttosto che rimanere a casa a farsi prendere dalla depressione, in attesa di altri tre anni prima di andare in pensione, si sarebbero giocati anche quest’ultima chance.

Così, dopo aver provato e riprovato davanti allo specchio le movenze e i comportamenti “robotici” per due settimane, Peppino e l’amico, nascosti nei due scafandri, si presentarono il due settembre davanti agli stabilimenti, confusi assieme ad altri duecento humandroidi praticamente indistinguibili dai “vecchi lavoratori umani” ormai superati…

Proprietà letteraria riservata © Pietro Vanessi 2017

 

 

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