Quando era ancora in fasce, fu sottratto ai genitori per essere allevato da un militare tutto d’un pezzo, il vice ammiraglio Kawamura, che ne curò personalmente l’educazione infantile nella propria residenza di Azabu, isolata e lontana dal mondo e da tutti.
Dopo tutto, il destino di quel bambino di aspetto tanto fragile era già segnato perché sarebbe diventato il 124simo “Sovrano Celeste” dell’Impero del Sol Levante.

Questo significa il titolo di “tennō” che un giorno avrebbe assunto, contestualmente con la sua ascesa sul trono del Crisantemo.

All’inizio del Novecento, ininterrottamente da circa 2500 anni, non un singolo giapponese aveva osato mettere in dubbio la discendenza diretta dell’Imperatore e dell’intero Paese da una divinità, non diversamente dalla Roma imperiale che faceva risalire le proprie origini a Enea.

Fu una decisione dura? Per noi di sicuro, ma se tra i propri avi si annovera la dea Amaterasu, cioè una delle principali divinità scintoiste il cui figlio Jimmu Tennō attorno al 600 a.C., secondo la leggenda, divenne l’unificatore e fondatore dell’Impero giapponese, che bisogno si ha del babbo e della mamma?
Nessuno! Quindi, meglio crescere in un ambiente ovattato e asettico dove si impara, tra l’altro, a tenere a freno le emozioni che mal si addicono a un semidio, il quale certo non può piangere, ridere e nemmeno ragionare come i comuni mortali.
Meglio anche stare alla larga dagli intrighi di corte e, per quanto possibile, dalle frequenti epidemie di vaiolo, colera e dissenteria che in quegli anni, insieme ai plebei, non mancavano di falcidiare i principi.
Per giunta, se si fosse ammalato, quale medico avrebbe potuto visitarlo senza commettere sacrilegio solo sfiorandolo con le mani o con qualche strumento medico?
Il piccolo Hirohito, nome pesante che significa “Somma virtù” o “Grande benevolenza”, nacque a Tokyo il 29 gennaio del 1901 dal principe ereditario Yoshihito e dalla principessa Sadako, quando sul Giappone regnava ancora il nonno imperatore Meiji (1852-1912).
Quest’ultimo aveva saputo transitare il Paese dal medioevo all’età contemporanea, facendogli fare in poco meno di 30 anni quel salto in avanti che alle nostre latitudini fu compiuto in oltre sei secoli.
Di una relativa ventata di modernità poté godere pure il piccolo Hirohito, iscritto settenne a una scuola riservata ai futuri dirigenti del Paese ai quali si insegnava in primis l’obbedienza cieca al “Sovrano celeste”.
A dirigerla c’era un altro eroe nazionale, il conte Nogi, samurai figlio di samurai, che prese a benvolere il principe interrogandolo quasi tutti i giorni.
Lo fece anche alla vigilia dei funerali dell’imperatore Meiji, nonno del ragazzo, restando in quella circostanza tanto soddisfatto per le risposte dell’illustre allievo da regalargli un libro.
Grande, pertanto, fu la sorpresa di quest’ultimo, quando l’indomani venne informato che il suo precettore, insieme alla moglie, nella notte si era tolto la vita con il rito del “seppuku”, squarciandosi il ventre con il pugnale dei samurai, per continuare a servire il suo Signore nell’aldilà.
Senza battere ciglio, così come era stato programmato per fare, Hirohito trascorse la giornata come sempre, impegnandosi ancora di più negli studi che avrebbero fatto di lui un uomo di grande e raffinata cultura.
Come principe ereditario, fra il 1921 e il 1922, Hirohito fu il primo componente della famiglia imperiale a lasciare l’arcipelago nipponico per compiere un lungo viaggio in nave in Europa, dove tra tanti Paesi giunse pure in Italia per visitare Roma, Tivoli, Napoli e Pompei, venendo ovunque ricevuto con onori e feste trionfali.
Rientrato in Giappone, si sposò nel 1924 con la principessa Nagako e due anni più tardi, alla morte del padre, salì sul trono per restarvi 62 anni, sino al 7 gennaio del 1989, giorno del suo decesso.
Quando scelse l’appellativo di “Showa” (“Pace illuminata”) per indicare con una parola il suo futuro regno, Hirohito certo non immaginava che, con gli avvenimenti del 1931, per il Giappone sarebbe iniziato un periodo buio e bellicoso.
Una folle deriva nazionalistica avrebbe infatti trasformato il Paese in uno stato imperialistico, rapace, aggressore, invasore della Cina e di gran parte del Sud-est asiatico, responsabile di orribili massacri, attacchi a tradimento, riduzioni in schiavitù, esperimenti batteriologici su civili e prigionieri di guerra, trasformazione in prostitute di decine di migliaia di donne straniere.
Chiuso nel suo Olimpo, Hirohito, sempre in silenzio, fu impenetrabile testimone prima dei successi, poi delle sconfitte delle forze armate imperiali. Tacque anche davanti ai sempre più tremendi bombardamenti che, poco a poco, radevano al suolo le principali città giapponesi.
Nell’estate del 1945, quando in Occidente la guerra era ormai finita, Hirohito non aveva ancora proferito verbo, ma i giapponesi tutti, malgrado indicibili sofferenze e privazioni, non smettevano di credere il lui perché – si sa – il discendente di un dio non può sbagliare, lui la sa lunga, vede lontano…
Pertanto continuavano e avrebbero continuato a combattere sino all’ultimo uomo, anzi ragazzo visto che gli uomini adulti ormai scarseggiavano.
Solo pochissime città erano rimaste quasi intatte, perché risparmiate dai bombardamenti, e fra di esse figuravano Hiroshima e Nagasaki, i cui cieli per giunta in estate sono generalmente sgombri da nubi facilitando i sorvoli.
E se per costringere uno Stato ad arrendersi e (forse) Hirohito a parlare, bisogna testare un’arma nuova, micidiale, terribile, lo si deve fare dove c’è ancora qualcosa da distruggere, non già una sorta di deserto.
Così, solo dopo la deflagrazione degli ordigni nucleari che, vomitando dal cielo un micidiale mix di fiamme e pioggia nera e catramosa, polverizzarono Hiroshima, Nagasaki e buona parte dei loro abitanti rispettivamente il 6 e 9 agosto del 1945, Hirohito finalmente parlò.

Facendo per la prima volta udire la sua voce al popolo giapponese, inginocchiato in lacrime dinanzi agli apparecchi radio disponibili, a mezzogiorno del 15 agosto del 1945 pronunciò il discorso passato alla storia con il nome di “Gyonkuon-Hoso” (“Trasmissione della voce del Gioiello”), registrato alle ore 23 del giorno precedente.

Il “Gioiello” annunciò al suo Paese e al mondo la fine delle ostilità e la resa incondizionata agli alleati perché: “Il nemico ha cominciato a impiegare un nuovo tipo di ordigno, il più crudele che si sia mai veduto” e pertanto “se dovessimo continuare a combattere, si verificherebbe il completo collasso del Giappone e della civiltà”.

Solo dopo milioni di morti, distruzioni, lutti e una deriva autoritaria durata troppo, con le prime parole pubbliche di Hirohito l’età “Showa” (“Pace Illuminata”) poteva finalmente avere inizio.

 

(Foto d’apertura: l’imperatore giapponese Hirohito e il generale americano Douglas MacArthur il 27 settembre 1945)

 

Un pensiero su “HIROHITO E LE BOMBE ATOMICHE”
  1. Bellissimo articolo, forse un po’ troppo breve, ma molto interessante!!
    Spero ce ne saranno altri di questa qualità.
    Grazie.
    gG

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