GUELFI E GHIBELLINI PRIMA DI SINISTRA E DESTRA

La bagarre in campo politico fa parte, non certo da oggi, del Dna italico. Già nel medioevo, infatti, un odio viscerale contrappose i guelfi ai ghibellini.

Questi termini corrispondono alla traslitterazione italiana dei nomi che in Germania designavano i sostenitori dei pretendenti alla corona imperiale della casata bavarese dei Welfen, da un lato, e i fautori degli Hohenstaufen, signori del castello di Wibeling, dall’altro.

Nella loro forma italianizzata, essi iniziarono a diffondersi nella nostra Penisola durante lo scontro tra il papato e l’imperatore Federico II di Svevia, dove i guelfi parteggiavano per il primo, i ghibellini per il secondo.

In verità, sia agli uni che agli altri delle sorti rispettivamente del papa o dell’imperatore presto iniziò a interessare poco, perché a determinare la sempre mutevole composizione degli schieramenti concorrevano piuttosto interessi economici e situazioni socio-culturali peculiari a ciascuna città e, dentro di essa, a certe famiglie piuttosto che ad altre.

In particolare, nella Firenze del Duecento l’oligarchia al potere si distribuiva tra i due partiti più o meno nel modo seguente: l’antica aristocrazia feudale “di censo” si sentiva più vicina all’impero, mentre quella relativamente recente “di denaro”, cioè i cosiddetti “parvenus” (come li chiameremmo oggi) arricchitisi in poco tempo con il commercio della lana e le prime spericolate operazioni finanziarie, tifavano per il papa.

Nel panorama toscano, Firenze era in maggioranza guelfa, al contrario delle principali città rivali quali Pisa e Siena, che erano ghibelline.

Verso il 1240, quando Federico II al culmine del suo potere rese più rigido il controllo imperiale sulla Toscana, nella vita pubblica fiorentina si affermò prepotentemente la figura di Farinata degli Uberti, guida della più potente consorteria ghibellina cittadina.

L’uomo era dotato d’audacia, oltreché di continenza grave (astinenza dal peccato), eleganza e parlare civile. Insomma, aveva tutte le qualità per assurgere al ruolo di capopopolo.

Il suo curioso soprannome, richiamante una specie di pizza di farina cotta sull’acqua, finì con il sovrapporsi a Manente, suo nome di battesimo.

Fazioso, ambizioso e privo di scrupoli, esercitò per un ventennio circa la sua influenza politica con somma alterigia, quella stessa che, facendogli dimenticare il tristissimo luogo in cui si trovava, l’indusse a squadrare dall’alto in basso, come se l’avesse “in gran dispitto”, un intimorito Dante per chiedergli in modo sdegnoso, nel Canto X dell’Inferno: “Chi fuor li maggior tui?” e, saputolo, avere una reazione di sufficienza, “ond’ei levò le ciglia un poco in suso”, perché, a differenza sua, Dante e i suoi avi di quarti di nobiltà erano privi.

Con questo personaggio si scontrò furiosamente il capo della fazione guelfa fiorentina, cioè il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, rampollo di una ricchissima famiglia ghibellina del Mugello poi convertitosi per interesse alla causa avversaria fino al punto di diventare, pur essendo ateo, un principe della Chiesa.

Nel febbraio del 1248, dopo l’ennesimo furibondo conflitto cittadino combattuto torre per torre, i capi guelfi tagliarono la corda nottetempo, lasciando campo libero a Farinata e ai suoi ghibellini. La morte nel 1250 di Federico II rovesciò però nuovamente i rapporti di forza in città, costringendo i ghibellini a darsela a gambe.

A seconda di chi andava e veniva, le proprietà della parte soccombente venivano saccheggiate e devastate, tanto che verso la metà del Duecento si presume che Firenze fosse ridotta più o meno a un cumulo di macerie, visti i frequenti cambiamenti di fronte.

Dopo un decennio circa di scaramucce, il “redde rationem” si ebbe il 4 settembre del 1260, quando a Montaperti, nei pressi di Siena, si scontrarono la guelferia e la ghibellineria di mezz’Italia, con circa 50.000 uomini in armi, più o meno equamente distribuiti fra le due parti, a combattersi all’ultimo sangue.

Terribile fu “lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso” (Inferno, Canto X), lasciando sul terreno circa 12.000 morti, ma ancor più tremenda fu la disfatta dei guelfi tra i quali si contarono numerosissimi prigionieri, gli ultimi dei quali sarebbero stati liberati dalle prigioni senesi soltanto dieci anni più tardi.

Quando però re Manfredi, figlio di Federico II, progettò di radere al suolo la sconfitta Firenze, tra i vincitori fu proprio Farinata ad alzare la voce affinché la propria città fosse risparmiata.

Avrebbe poi di fatto governato la città come suo signore “de facto” sino all’11 novembre del 1264, giorno in cui spirò appena in tempo per risparmiarsi di dover assistere a un nuovo capovolgimento di fronte quando, con la discesa in Italia del francese Carlo d’Angiò, paladino del connazionale papa Clemente IV, Firenze si sarebbe sottomessa “agli ordini del signor Papa”.

La vendetta del partito guelfo, di nuovo in sella, non si sarebbe fatta attendere: due figli del defunto Farinata sarebbero stati decapitati sulla pubblica piazza, mentre i suoi poveri resti, a vent’anni circa dalla scomparsa, sarebbero stati disseppelliti e arsi sul rogo, a seguito di un macabro processo post mortem.

Guelfi e ghibellini


“Ritratto di Farinata degli Uberti”, affresco di Andrea del Castagno, 1448-1451, Complesso Museale di Villa Carducci-Pandolfini, Firenze

Un pensiero su “GUELFI E GHIBELLINI PRIMA DI SINISTRA E DESTRA”
  1. Ma fu’ io solo, là dove sofferto
    fu per ciascun di tòrre via Fiorenza
    colui che la difesi a viso aperto».

    Dante – Inferno, canto X – 40

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