È il 16 giugno 1944: sono passati due mesi dal processo nel quale il quattordicenne George Stinney è stato condannato a morte. Il suo avvocato difensore non ha presentato appello perché non può pagargli la parcella. Alle 19.30, nel carcere di Columbia, il ragazzino viene condotto nella camera delle esecuzioni.

Solo adesso il boia si accorge che ha una corporatura troppo piccola ed esile per potergli fissare gli elettrodi della sedia elettrica. Allora sfila la grossa Bibbia che George stringe nelle mani tremanti e la mette sulla sedia, quindi lo fa sedere sopra.

Anche la maschera che gli deve coprire il volto è troppo grande per lui. Non aderisce bene e, alla prima scarica elettrica di 2.400 volt, schizza via. Così i quaranta testimoni possono vedere gli occhi sbarrati e rigati di lacrime del ragazzino.

George esala l’ultimo respiro quattro minuti dopo la scossa iniziale, tra gli applausi dei presenti. Si tratta del più giovane condannato a morte negli Stati Uniti nel secolo scorso.

George Stinney nasce nel 1929 in una povera famiglia dalla pelle nera negli Stati Uniti meridionali, ad Alcolu (Carolina del Sud). Un paese abitato da poche centinaia di persone, per la maggior parte impiegate nella grande segheria locale.

Da queste parti le cose non sono molto cambiate da quando, una sessantina di anni prima, era stata abolita la schiavitù. I neri sono ufficialmente liberi, ma in pratica non possono votare alle elezioni e vengono tenuti a distanza dai bianchi. Ad Alcolu la linea di separazione tra le due razze è rappresentata dalla ferrovia che attraversa il paese.
Di fronte alla legge i neri sarebbero cittadini uguali agli altri, ma quando uno di loro viene accusato di un grave reato può ancora finire linciato dai bianchi.

Il 24 marzo 1944, due bambine bianche di Alcolu approfittano dello sbocciare della primavera per andare a raccogliere fiori. Sono Betty Binnicker, di 11 anni, e Mary Thames, di 7. Le due salgono in bicicletta e cominciano a esplorare i tratti di terra non coltivati. Le piccole girano nella “zona bianca” e poi in quella “nera”: per loro la distinzione non ha importanza.

Si fermano davanti a una casa di persone di colore, dove Katherine Stinney, una bambina di 8 anni, gioca a rincorrere il fratello George, di 14. Vicino a loro c’è la mucca Lizzy, l’unica proprietà di famiglia. Betty e Mary chiedono loro se sanno dove crescono le piante di passiflora, dalle quali nascono i fiori azzurri della passione.

Dopo questo incontro, delle due bambine non si sa più nulla. Di sera, vedendo che Betty e Mary non rientrano, i loro genitori danno l’allarme. Radunate dal padrone della grande segheria, centinaia di persone, per una volta senza distinzioni di colore, si mettono alla loro ricerca, anche se, a causa del buio, ben presto sono costrette a tornare a casa.

Soltanto la mattina successiva i corpicini delle due bambine vengono ritrovati dietro la chiesa. Secondo il primo giudizio del medico del paese, sono state violentate e poi colpite in testa con una pesante sbarra di ferro utilizzata negli scambi ferroviari.

Lo sceriffo e tre poliziotti mandati sul posto per indagare ascoltano con interesse un passante che il giorno prima aveva visto le piccole vittime insieme con Katherine e George, i figli degli Stinney.
La bambina di 8 anni viene subito esclusa dai sospettati per ovvi motivi, e ci si concentra sul quattordicenne George.

Gli agenti vanno a prenderlo in casa e lo portano nell’ufficio dello sceriffo, per interrogarlo senza la presenza di un avvocato o di testimoni. Lo accusano subito del delitto, ma il ragazzino nega con tutte le forze. In cambio della confessione prima gli promettono un gelato, poi iniziano a malmenarlo.

Dopo un’ora di questo trattamento, lo sceriffo può andare dal giudice della contea per dirgli che George Stinney ha ammesso l’orrendo crimine: ha violentato le bambine e poi le ha uccise. Il caso, a un giorno dal delitto, è già chiuso.

Appena si sparge la voce dell’arresto, il padre di George viene licenziato in tronco dal mulino nel quale lavora. Senza perdere tempo, torna a casa e, insieme a moglie e figlia, lascia di corsa il paese per non venire linciato.

George Stinney
La polizia manda rinforzi per difendere la piccola prigione di Manning, il capoluogo della contea, dall’assalto dei cittadini bianchi che vorrebbero impiccare il ragazzino. Le autorità hanno deciso di farla finita con i linciaggi negli Stati Uniti del Sud: d’ora in poi avranno tutti diritto a un regolare giudizio.
In prigione, George non riceve la visita dei familiari, troppo spaventati per tornare indietro.

Il processo si svolge a Manning un mese dopo, il 24 aprile. A George viene assegnato come difensore d’ufficio Charles Plowden, un esattore fiscale preoccupato di non rovinarsi la reputazione perché intende intraprendere la carriera politica.
Tutti i 12 giurati sono scelti tra i bianchi, malgrado il fatto che la maggior parte della popolazione della contea sia nera.

Il difensore sostiene che George non può essere incriminato perché troppo giovane, ma il pubblico ministero risponde che, avendo compiuto 14 anni, per le leggi della Carolina del Sud è processabile.

Plowden non solleva altre obiezioni e non chiama nemmeno a testimoniare Katherine, secondo la quale il fratello George avrebbe continuato a giocare con lei anche quando le bambine bianche se ne erano andate.

Gli agenti che avevano interrogato il ragazzino, sentiti in aula separatamente, raccontano versioni non proprio identiche della sua confessione. Della quale, contro ogni consuetudine, manca un verbale scritto.

Tutto il processo si svolge in due ore e mezzo, mentre la giuria impiega appena una decina di minuti per formulare il verdetto di colpevolezza. Condannandolo a morte, il giudice Phillip Stoll si rivolge direttamente al ragazzino impietrito: «Che Dio abbia pietà della tua anima».

Passano gli anni e i neri del Sud finiscono per ottenere l’abolizione della segregazione razziale. Altri anni ancora e un nero, Barack Obama, diventa presidente. In questo clima cambiato, George Frierson, uno storico nato ad Alcolu, riesce a ottenere un nuovo processo simbolico per George Stinney.

Sin da giovane, Frierson aveva sentito voci su quello che sarebbe accaduto veramente quel 24 marzo 1944. Nel 2004 aveva iniziato a fare delle ricerche, dalle quali era emersa la mancanza di prove a carico del ragazzino.

Pare persino che il vero assassino delle due bambine avesse confessato in punto di morte la propria colpevolezza. L’uomo, di cui non è stato divulgato il nome, sarebbe appartenuto a una ricca famiglia bianca, la quale, per salvarlo, con la sua influenza era riuscita a dirottare i sospetti su George, un ragazzino analfabeta e di colore.

Nel nuovo processo, iniziato il 21 gennaio 2014, settant’anni dopo il primo, il giudice Carmen Mullen ascolta i testimoni, ormai molto anziani, presentati dall’avvocato difensore. Prima di tutti, Katherine Stinney, la sorella di George, che era rimasta con lui tutto il giorno. Poi un compagno di cella, al quale il ragazzino aveva dichiarato la sua innocenza e aveva descritto i mezzi violenti con i quali lo sceriffo gli aveva fatto ammettere una colpa non sua.

Viene riesaminato il referto dell’autopsia, dal quale non risulta alcuna violenza sessuale sulle bambine, al contrario di quanto il ragazzino avrebbe ammesso. Il procuratore distrettuale, che rappresenta l’accusa, si limita ad affermare che questa tardiva revisione non ha senso, perché gli atti del primo processo nel tempo sono andati perduti.

Il 17 dicembre 2014, arriva la nuova sentenza. Definendola una “grande e fondamentale ingiustizia”, il giudice Carmen Mullen annulla la vecchia condanna perché quel processo violò i fondamentali diritti stabiliti dalla Costituzione, e ha stabilito che il ragazzino nero era innocente.

Quel processo, secondo il giudice, fu sommario, frettoloso e condotto da una giuria composta di soli bianchi. La confessione del ragazzo venne estorta con la forza. Non c’erano testimoni, né prove concrete della sua colpevolezza.

«Volevano un capro espiatorio e l’hanno trovato», dice Katherine, la sorella di George, che all’epoca aveva 8 anni. «Ricorderò per sempre il giorno in cui hanno portato via mio fratello da casa: da allora non ho più visto mia madre ridere».

 

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Di Sauro Pennacchioli

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