Parleremo di fumetti anni novanta o magari, più nello specifico, di quelli su cui buttavo l’occhio più volentieri. Questo succedeva trent’anni fa, quando la carta stampata non era in competizione diretta con tutto quello che oggi rientra nel vasto concetto di home entertainment.

Parlando di fumetti, se uno volesse scendere nel dettaglio, si muore di vecchiaia prima di arrivare manco a metà strada. Meglio darsi una linea di condotta, stringendo il brodo a tre momenti chiave. Almeno come tentativo… in realtà parlerò soprattutto di quello che mi torna alla mente, senza alcuna pretesa sistematica.

 

Tutto quello che avreste voluto sapere sui fumetti anni novanta, ma non avete mai osato chiedere

Quelli che, comunque, possono essere considerati punti di svolta nell’ambito dei fumetti anni novanta nel panorama italiano sono Dylan Dog, Marvel Italia e i manga. Messa così, è roba che fa a cazzotti l’una con l’altra.

Facciamo giusto giusto un passo indietro. Nei primi anni sessanta Andrea Corno, appoggiato dal cognato Luciano Secchi (conosciuto ai più con lo pseudonimo Max Bunker), fonda la storica Editoriale Corno.

Nel 1970, la Corno si accaparra i diritti italiani della Marvel e, fino alla prima metà degli anni ottanta, pubblica le storie dell’Uomo Ragno, Devil, Fantastici Quattro, Thor, Capitan America e compagnia cantante. “Perché stiamo tornando al pleistocene?”, dirai. “Non bisognava stringere il brodo?”, aggiungerai.

D’accordo. Cosa c’entra questo con i fumetti anni novanta? Semplicemente che con la chiusura dell’Editoriale Corno scomparvero dalle edicole pure i supereroi. A a quel punto non si capiva più una beata mazza.

Dopo il maldestro tentativo di Labor Comics, che sparì nel giro di pochi mesi, piombarono Star Comics, Play Press, Comic Art, lo stesso Luciano Secchi con Max Bunker Press. Tutti, chi più chi meno, grandi o piccoli editori che fossero, ottennero i diritti per pubblicare alcune serie di Marvel e poi Dc (inizialmente nelle mani della Milano Libri).
Peccato che, per la maggiore, era uno scivolare sui dolci pendii del cazzomannaggia.

FUMETTI ANNI NOVANTA IN ITALIA

Tanto per dire, il primo episodio de Gli Incredibili X-Men pubblicato da Star Comics si intitola Stella Binaria. Bene, parte manco dall’inizio, ma ben oltre la metà di una run che di suo è già parecchio avanti nella storia generale di questi personaggi.

Oppure, prendi la rivista All American Comics di Comic Art. Una specie di contenitore che, nella cagnara generale dei fumetti anni novanta che affollavano le edicole, era veramente ai limiti dello sclero. Metti ché dentro c’era la qualunque e la qualsivoglia.

Nel primo numero ti trovi con le storie di Deadman e Outcasts della Dc insieme a una versione a fumetti di The Shadow. In quello dopo, l’Uomo Ragno, Batman e Ghost Rider. Tutte insieme, senza soluzione di continuità. Sì, erano tempi, come dire… affascinanti, ecco.

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Tra parentesi, All American Comics è stata l’unica rivista dove sono apparse le storie di Rom the Spaceknight. Rom nasce come action figure ideata e venduta dalla Parker Brothers.

Alla Marvel venne affidata la licenza per una serie a fumetti il cui scopo era quello di sostenere la linea di giocattoli (come faceva per G.I. Joe, Transformer e Micronauti, questi ultimi rimasti inediti in Italia). Ecco, il fumetto di Rom andò discretamente bene. Anzi, in America la serie è andata avanti per quasi dieci anni. Mica fischi.

Rom giocattolo, invece, era una poverata, fatta talmente al ribasso che il pupazzetto non aveva manco un solo punto d’articolazione. Fu un disastro.
Addirittura, in fase di progettazione era previsto che gli occhietti di Rom avrebbero dovuto illuminarsi di verde. Però il verde costava troppo e quindi, giustamente, ripiegarono sull’economicissimo color rosso-fallimento. Alla fine, il pupazzetto scomparve dopo il primo lotto di poche migliaia di pezzi.

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Tornando ai fumetti anni novanta, la cagnara andò avanti fin quando la Marvel Comics non decise di tagliare le gambe a tutti gli editori italiani che la stavano pubblicando.
Nel 1993, gli americani si riprendono i diritti della roba loro e fondano una filiale italiana. Nasce così il marchio Marvel Italia (che in seguito passerà alla Panini). Bello, allora così è risolto tutto? No.

A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, giusto? Quindi, per capire gli altri punti che hanno caratterizzato il panorama dei fumetti anni novanta che uno si trovava davanti nelle edicole dobbiamo fare, per forza, un altro paio di piccoli passi indietro.

Nel 1986 nelle edicole esce il primo numero di Dylan Dog. Che te lo dico a fare: “l’indagatore dell’incubo” di Tiziano Sclavi edito da Bonelli, tempo un rutto e diventa un’icona culturale. A pensarci un attimo, tra il 1989 e il 1994, più o meno, era impossibile non vedere in giro qualcuno con un numero di Dylan Dog in mano.

Adolescenti, adulti, bambini, chiunque e ovunque. Alla fermata dell’autobus, in treno o magari a scuola… oh, c’era sempre qualcuno che stava lì con il giornaletto. Vuoi mettere? Dylan Dog era una bomba da 400mila copie al mese.

Considerando questo, qual è la conseguenza naturale del successo? Esatto. Più o meno dal 1990 o giù di lì, si alza all’orizzonte un plotone di fratelli poveri e cugini scemi di Dylan Dog pronti a prendere d’assalto le edicole. In altre parole, comincia l’era dei bonellidi.

Giusto per chi non lo sapesse, il termine bonellide serviva a indicare tutta quella roba che si rifaceva a Dylan Dog, chi più chi meno, con lo stesso formato brossurato 16 x 21.
Sul serio, se parli dei fumetti anni novanta da edicola non puoi saltare i bonellidi, ché ce n’erano un fottìo: Dick Damon, Dick Drago, Nick Turbine, Cobra, Elton Cop, Dagon, Full Moon Project e qualcun altro.

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In generale, si trattava di prodotti di bassissima qualità, sia nella forma sia nella sostanza. Infatti, la durata media di questa roba era di cinque o sei numeri. A stento.
Però Il fatto che fossero tanti è il sintomo di un periodo di grande fermento creativo.

Appunto, alcuni di questi bonellidi sono andati avanti proprio perché non erano per niente male. Anzi. Addirittura a buttarci un occhio adesso, tolta qualche lisciata di troppo, sono piuttosto buoni. Tra questi ce ne sono un paio di cui varrebbe la pena recuperare anche solo qualche numero, giusto per lo sfizio.

Per esempio, Dario Argento presenta Profondo Rosso. Un progetto editoriale simile agli albi come Tales from the Crypt della vecchia Ec Comics. La serie antologica era supervisionata da Dario Argento e curata dal regista, sceneggiatore e collaboratore di lunga data Luigi Cozzi.

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Le storie, di volta in volta, andavano dall’horror alla fantascienza e seppur troppo “ispirate” a quelle di film famosi, erano divertenti. Comunque, la cosa sfiziosa per gli amanti del genere erano le interviste e gli articoli d’approfondimento su registi e produzioni del panorama horror in generale.

Profondo Rosso chiude i battenti dopo solo una quindicina di numeri e un paio di speciali.
Arrivato un po’ più in là, invece, Gordon Link. Con quasi due anni di vita e ventidue numeri, Gordon Link era palesemente ispirato a Dylan Dog.

Si tratta dell’esordio fumettistico di Gianfranco Manfredi, che in seguito diventa uno degli sceneggiatori proprio di Dylan Dog e in seguito autore di Magico Vento.

Prima c’è stato Ronny Balboa, a un certo punto diventato Ronny Ross, di Sauro Pennacchioli. Un po’ crime drama, un po’ police procedural, un po’ così così (“così così” a soreta: hai letto le storie del Sauro o solo quelle degli altri? eccone una qui, e poi perché non parli del suo fantastico nuovo Intrepido? – NdR).
Balboa è una specie di Law & Order ante litteram, se vogliamo metterla in questo modo. A ogni modo, andando parecchio forte con i suoi ottantuno numeri dal 1989 al 1996, Balboa è stato uno dei bonellidi più longevi.

A proposito di longevità, un altro che se l’è cavata alla grande è stato Demon Hunter. Ideato da Gino Udina, tra i fumetti anni novanta e tra i bonellidi nello specifico, Demon Hunter era uno dei più divertenti. Un mischione pauroso di robe e concetti anni ottanta.

A partire dal protagonista: un detective della omicidi bizzarro incrocio fra lo Steven Seagal pre-parto, quando aveva ancora un mento solo, e Lorenzo Lamas. Che all’epoca, spopolava su Rete 4 in sella alla muturetta coatta, con cui andava in giro ad acciuffare gaglioffi per le Americhe.

La serie di Demon Hunter, andata avanti per tre anni e una quarantina di numeri circa, era chiaramente indirizzata a un pubblico adolescenziale, centrando quasi perfettamente il bersaglio. In quanto le storie non perdevano mai di vista le “tre A”, fondamenti del genere action: azione, attenzione e tette (tette non comincia per A e “attenzione” qui cosa vuol dire? – NdR).


L’ultimo “gruppo” di fumetti degli anni novanta è rappresentato dai manga, lanciati in grande da Granata Press, con serie come Ken il guerriero e I Cavalieri dello zodiaco, ma la mia attenzione era più rivolta a qualcosa di contiguo.

Dalla casa editrice Ediperiodici di Giorgio Cavedon, specializzata in tascabili porno, prese vita un sottogruppo editoriale voluto e gestito dal figlio Giacomo. A differenza di Granata Press e Star Comics, concentrati sui manga, la Ediperiodici comincia a importare manhua cinesi prodotti ad Hong Kong.

La Ediperiodici, diventata poi Jade Ediperiodici / Edi J e infine JeMM Edizioni, a partire dal 1993-1994 fa sbarcare in Italia i fumetti della Jademan Comics di Tony Wong. L’equivalente cinese di Stan Lee e Marvel Comics.
I primi ad arrivare sono stati i lavori di Lee Chung Hing e Hui King Sum, gli autori di punta della Jade. Oh,  mettila come vuoi, ma per chi ama il genere d’azione quella era roba veramente diversa.

Per la roba cinese della Jade, seriamente, ci vorrebbero due righe a parte. 5a Generazione, 6a Generazione, Blood 13, King of Fighters, Solar Lord, tutte le assurdissime serie su Street Fighter… questo discorso non può essere riassunto con tre-quattrocento parole e via. Magari verrà ripreso.
In realtà manco con i bonellidi si doveva andare così veloci, ma tant’è.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.

 

 

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