Frankenstein di Mary Shelley (1994) è la storia di un uomo dalla mente contorta e della sua creatura nata dalla sofferenza e dall’ossessione. Suppongo che la scrittrice Mary Shelley (1797-1851) non immaginasse neanche lontanamente che con il suo romanzo avrebbe dato vita a un marchio ancora remunerativo duecento anni dopo.

Il regista Kenneth Branagh è solo uno dei tanti che ha provato a sfruttare questa specie di specchio distorto della condizione umana. È un’esplorazione avveniristica del nostro bisogno di stranezze, raccontata da una ragazzina di appena diciannove anni due secoli fa.

 

Frankenstein di Mary Shelley, ma di Kenneth Branagh…

FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA

La cosa strana sta nel fatto che, nel raccontare di Frankenstein, Branagh ha dato vita a una specie di creatura tutta sua.

Sì, Frankenstein o il moderno Prometeo venne scritto da Mary Shelley, e fin qui, d’accordo. Tuttavia, il titolo come Frankenstein di Mary Shelley necessita di una breve parentesi esplicativa.

FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA

Allora, Frankenstein di Mary Shelley è stato prodotto da Francis Ford Coppola, due anni dopo il suo famoso Dracula di Bram Stoker.

Questi due film, insieme ai successivi Wolf – La belva è fuori con Jack Nicholson e Mary Reilly con John Malkovich, fanno tutti parte di un unico progetto. Ovvero una serie di film d’autore che, su carta, avrebbero dovuto riportare in auge i mostri dell’orrore gotico.

FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA

Inizialmente anche il film su Frankenstein lo avrebbe dovuto dirigere lo stesso Coppola, che poi fece un passo indietro lasciando la regia a Kenneth Branagh. In seguito Coppola si disse pentito di averlo fatto, siccome durante le riprese i due non andavano d’accordo quasi su niente.

Alla fine, Coppola insistette per tagliare la prima mezz’ora del film, mentre Branagh non ci pensava nemmeno. Quindi Coppola contestò pubblicamente il film senza mezzi termini. Come se non bastasse, pure Frank Darabont, lo sceneggiatore, ci mise del suo.

A proposito di Frankenstein di Mary Shelley, Darabont disse: “La migliore sceneggiatura che io abbia mai scritto e il peggior film che abbia mai visto”. Secondo lui Kenneth Branagh aveva gestito male il progetto.

Un’altra bella sassata, a tradimento, Branagh se la prese da Christopher Lee. Anche se maggiormente ricordato come Dracula, Lee ha interpretato pure la creatura in La maledizione di Frankenstein del 1957. Venne invitato alla première del film e gli chiesero un parere sulle differenze tra la sua dell’epoca e la versione di Branagh, Lee disse semplicemente: “Circa quarant’anni e quaranta milioni di dollari”.

FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA

Praticamente Frankenstein di Mary Shelley sembrava non finire mai di farsi rampognare, più o meno, da tutti. Metti pure che in patria fu un bello schifo al botteghino: costato circa quarantacinque milioni di dollari, ne incassò poco più di venti. Furono i novanta milioni al box office internazionale a salvarlo dal fiasco totale.

A questo punto la domanda è lecita: Kenneth Branagh e il suo Frankenstein di Mary Shelley se li sono davvero meritati tutti questi biasimi? Eh… in buona parte, assolutamente sì.
Il fatto è che il mostro, la creatura di Frankenstein è sempre stato il vero soggetto della storia. Una storia che, del resto, si apre a raggiera su una pletora di temi e argomenti.

Tratta della paternità e del concetto di vita e morte. Dell’arroganza dell’uomo rispetto alla natura e, finanche, dell’amore nelle sue varie forme. Kenneth Branagh l’ha capito più che bene e nel suo film c’è tutto questo e pure di più.

FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA

Breve parentesi: mentre veniva girato Dracula, Mike Mignola (l’autore di Hellboy) si occupava della novelization a fumetti. Coppola era così affascinato dai disegni che li prese a modello per le scenografie del film. Invece, l’approccio stilistico per Frankenstein di Mary Shelley viene dal lavoro di un altro fumettista, Bernie Wrightson.

A coinvolgere Wrightson nel progetto fu Frank Darabont, lo sceneggiatore del film. Il quale mostrò a Branagh le iper-dettagliatissime tavole del disegnatore che lo infognarono da morire. Lo portandolo a inserirle nello script e impostare il film su quelle suggestioni.
Credo che i problemi di Frankenstein di Mary Shelley comincino proprio da qui.

Non mi riferisco al coinvolgimento o al lavoro di Bernie Wrightson, eh. Piuttosto, al fatto che tutto nel Frankenstein di Branagh viene portato all’esacerbazione. Le notti buie e tempestose, i fulmini, il laboratorio, i personaggi, le loro relazioni.
Tutto è… troppo esagerato. Certo, il centro del film, più tranquillo e riflessivo, contiene la vera storia: quello che c’è attorno è il problema.

Solo per iniziare le riprese ci sono voluti dieci mesi di preparazione. L’intero film, a parte poche scene, è stato girato in interni. I set sono stati tra i più complicati mai creati fino ad allora. Per metterli in piedi ci sono voluti ben sette teatri di prosa, più cinque set speciali appositi. Lo sforzo è stato incredibile e, generalmente, questo è considerato l’adattamento cinematografico più fedele del romanzo di Mary Shelley.

Come nel romanzo, il film si apre e conclude con la spedizione artica del Capitano Walton, ossessionato dall’idea di trovare il passaggio a nord-ovest tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico. A un certo punto, la nave resta intrappolata nel ghiaccio del Mar Artico e qui l’equipaggio si imbatte in un uomo che sta attraversando l’Artico da solo.

Una volta a bordo, l’uomo dice di chiamarsi Victor Frankenstein e inizia a raccontare a Walton, e all’equipaggio, la storia della sua vita. Ecco, questa è la parte che Coppola voleva eliminare. È vero che sono tratti dal romanzo ma, in questo caso, prologo ed epilogo non erano necessari. Immagino siano una giustapposizione per evidenziare la differenza fra tenacia e ossessione e i rischi che questa comporta.

Questo è un punto che il film continua a rimarcare più e più volte. Branagh è, in buona sostanza, un attore shakespeariano. Attaccato quasi morbosamente al melodramma, porta tutto all’iperbole. Succede anche quando non ce n’è bisogno. Gli anni novanta sono stati un periodo di transizione tecnologica, in bilico tra reali possibilità e fantasie sfrenate.

Immagino sia logico il fatto che Frankenstein di Mary Shelley sia un mezzo sfruttato da Branagh per sollevare domande morali all’epoca in cui l’ingegneria genetica veniva considerata alla stregua della magia nera. Il problema sta nel fatto che Branagh solleva una questione e, prima ancora di dare una riposta adeguata, si affretta a passare alla domanda successiva, senza mai arrivare a nessun punto.

La Creatura (Robert De Niro) è, de facto, il punto fermo del film. Rispetto a tutte le creature dei film precedenti, è profondamente consapevole di ciò che è e di come appare. Sa delle proprie origini, grazie al diario di chi lo ha creato. Pensa ed elabora ragionamenti complessi. Addirittura si chiede se abbia un’anima e, nel caso, in quale parte del suo corpo dovrebbe risiedere, visto che ogni parte proviene da un individuo diverso.

L’intero film si concentra su una sola domanda: il dottor Victor Frankenstein ha creato un uomo o un mostro? Sfortunatamente il film liscia di brutto il punto della questione, con Branagh che continua, melodrammaticamente, a ficcarci dentro qualunque cosa a più non posso.

La creatura riportata in vita in una vasca metallica, per esempio, viene da Frankenstein. Un cortometraggio del 1910 prodotto dalla Edison Studios, e primo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo. I pezzi di cadavere che Victor recupera da un criminale condannato all’ impiccagione vengono dal Frankenstein di James Whale del 1931.

Fondamentalmente, la storia della rianimazione tramite scariche elettriche è un’invenzione di Hollywood, che viene da La moglie di Frankenstein del 1935. Mary Shelley non ha mai specificato come o in che modo Victor crea/anima la Creatura. Victor che usa il cervello di un brillante scienziato, suo mentore, si trova ne La maschera di Frankenstein del 1957.

Sempre il mentore di Victor, che apre la strada ai suoi esperimenti, riporta in vita il braccio reciso di una scimmia. Esattamente come in Frankenstein: The True Story del 1973. Ancora, Elizabeth resuscitata solo per togliersi nuovamente la vita poco dopo, mentre Victor e la Creatura si battono per lei è quasi uguale in Frankenstein oltre le frontiere del tempo del 1990.

Nonostante tutto Frankenstein di Mary Shelley sembra più fedele al romanzo originale, tanto quanto le dozzine di film che l’hanno preceduto se ne allontanano. Victor Frankenstein e la Creatura sono splendidi e perfettamente centrati così come il loro rapporto e le questioni che solleva, d’altronde.

Branagh è stato preso dalla foga di voler portare tutto agli estremi in modo frenetico e maniacale, senza mai fermarsi un attimo. Questo Frankenstein di Mary Shelley avrebbe potuto benissimo essere il nuovo punto di riferimento per ogni film a venire. Invece, paradossalmente, si è trasformato ne Il mostro di Branagh.

Ciò non toglie che, nonostante tutto, tolti Frankenstein Junior, Frankenstein del 1931 e La moglie di Frankenstein, questo resta il mio quarto film preferito di sempre sul personaggio.

 

Ebbene, detto questo credo che sia tutto.

Stay Tuned, ma soprattutto Stay Retro.

2 pensiero su “FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY HA TROPPA ROBA”
  1. Il romanzo di Dracula è proprio un capolavoro, pensato come 4 piccoli romanzi con un loro svolgimento, un apice emozionale e una chiusa che confluiscono poi nell’ultimo che chiude e riassume tutta la vicenda. Il romanzo di Frankenstein è comunque un libro molto bello ma ha molti cambi di ottica che ti fanno prima empatizzare con Frankenstein poi col mostro poi con nessuno dei due e verso la fine la vicenda un po’ si trascina. Mi sembra comunque un romanzo più difficile da portare in pellicola. Robert de niro poi ha troppi ruoli incollati al suo volto per vederlo come un mostro credibile.

  2. Entrambi i romanzi sono due immensi capolavori. Se letti più volte nella vita ci danno, come tutti i capolavori dell’arte,sensazioni sempre nuove, e si prestano a chiavi di lettura sempre diverse, pur rimanendo loro sempre gli stessi. Questo è il significato di “CAPOLAVORO”. Un prodotto dell’animo umano che è in grado di parlarci sempre in modo diverso, trascendendo il tempo e superandolo. Sono entrambi unici e capostipiti di un genere nuovo, oggi come ieri. Insuperabili e insuperati. Ma sono due opere profondamente diverse. Trattano lo stesso tema , in fondo, ma in modo diametralmente opposto. Entrambi parlano di AMORE, ma i protagonisti delle vicende rispecchiano due archetipi molto distanti tra loro. Il Dracula di Stoker è sicuramente più agevole da rappresentare sullo schermo. Lo splendido film di Coppola si rifà infatti quanto più possibile alla struttura del romanzo e ne asce fuori un bellissimo film. Lo stesso fa Branagh nel suo Frankenstein, ma come abbiamo visto, ne esce un film piuttosto bruttino. Questo non perché il regista non sia un ottimo regista, ma perché, mentre è relativamente più filmico l’amore del conte Vlad per la sua Elisabetta, l’amore del dottore per la sua creatura è cinematograficamente più impegnativo da trasmettere. Seguire la traccia del romanzo nel farne un film è, per l’opera di Shelley, perdente, così come è vincente per l’opera di Stoker. Frankestein così come è stato letterariamente concepito funziona solo nel romanzo. Prova ne è che i migliori film su questa opera sono quelli che più si discostano dal libro, pur prendendone spunto. La creatura impersonata dal mitico Boris Carloff negli anni trenta o il leggendario Frankestein Juinior, nulla hanno a che vedere con la struttura del romanzo, e alla fine sono quelli che funzionano meglio. Quindi io dividerei il fronte cinematografico da quello letterario, ma vorrei sottolineare l’immensità del romanzo di Shelley, tanto grande da far si che il grande Wrightson gli dedicasse tutte le energie del suo genio, tanto da finire completamente distrutto dal lavoro che ne fece (in questo mi ricorda Raviola con TEX).

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