Etan Patz

A SoHo, il quartiere degli artisti di New York, tutti conoscono Etan Patz, un bel bambino di sei anni con un caschetto di capelli biondi. Suo padre Stan è uno dei fotografi più affermati della città, usa il figlio come modello senza sapere che quei suoi primi piani, così nitidi ed espressivi, diventeranno tristemente famosi. La famiglia Patz, di religione ebraica come quasi un quinto degli abitanti della grande metropoli americana, abita al numero 113 di Prince Street, dove la loro vita scorre serenamente. 

Il 25 maggio 1979, mamma Julia guarda Etan dalla finestra. Il bambino è sceso di corsa dalle scale e ora trotterella verso la vicina fermata dello scuolabus. Questa è la prima volta che lo fa da solo, ormai ha 6 anni e non vuole più essere trattato come un bambino piccolo («Non vado più alla scuola materna, io!»).

Camminare per strada senza che la sua manina sia stretta da un adulto fa sentire Etan già grande. In tasca ha un dollaro, potrà entrare in un negozio e spenderlo a suo piacimento, magari per comprare una bibita. Dall’alto, Julia continua a non perderlo di vista, segue con lo sguardo la piccola figura finché scompare dietro la montagnola di casse vuote del vicino ristorante. Con sua grande sorpresa, la donna non lo vede spuntare dall’altro lato del cumulo. Cosa può essere successo? Come mai Etan non ha raggiunto la fermata dell’autobus, che si trova pochi passi più avanti?

Spaventata come solo una mamma può esserlo per la sorte del suo piccolo, Julia corre in strada chiedendo ai passanti se hanno visto un bambino di sei anni. A New York la gente tira dritto senza perdere tempo, si limita a scuotere la testa o a scrollare le spalle. No, nessuno ha notato niente di strano. Sembra incredibile, ma come in un gioco di prestigio suo figlio è svanito nel nulla praticamente sotto i suoi occhi.

La signora Patz corre nello studio fotografico del marito e insieme a lui fa nuove ricerche. I due entrano nei negozi, guardano nei vicoli ciechi, e dopo alcune ore convulse decidono di chiamare la polizia. Gli agenti, in un primo momento, sospettano che a fare sparire il bambino siano stati proprio loro due, tanto appare strana la faccenda. Ma alla fine le lacrime dei genitori li convincono della loro sincerità e danno il via a indagini su larga scala.

Per settimane, un centinaio di agenti e una squadra di cani da fiuto battono palmo a palmo il quartiere, purtroppo senza scoprire nulla. Del caso parlano giornali e televisioni di tutto il mondo. Molti dicono di avere avvistato il bambino in diversi stati americani, ma sono false piste. Sulla fiancata degli autobus di New York viene messa la gigantografia del volto sorridente di Etan Patz.

Le stese immagini vengono proiettate sugli spazi pubblicitari di Times Square, la piazza più importante della città, e stampate sui cartoni del latte consegnati a domicilio ogni mattina alle famiglie americane (un metodo che, in seguito, verrà adottato per cercare tanti altri bambini). Ciononostante, malgrado gli sforzi, non viene trovato nemmeno un elemento concreto sul quale indagare. La scomparsa di Etan rimane un fatto inspiegabile.

I genitori americani diventano improvvisamente ansiosi e se prima era raro che accompagnassero i loro bambini a scuola, anche nelle grandi città, ora non si fidano più a lasciarli da soli. E fanno bene, perché in questo periodo negli Stati Uniti scompaiono ogni giorno quasi mille ragazzini sotto i quindici anni.

Il più delle volte se ne vanno volontariamente e quasi sempre riescono, in qualche modo, a rifarsi una vita altrove. Se i genitori vengono a sapere qualcosa di loro, in genere, è perché a un certo punto finiscono all’ospedale o in carcere. Alcune volte a rapirli è il genitore divorziato che non ne aveva ottenuto l’affidamento, il quale, spesso, riesce a fare in modo che la polizia non li trovi affidandoli a lontani parenti. In ogni caso, è impossibile stabilire quanti finiscano nelle mani di maniaci.

La scomparsa dei bambini è un doppio dramma, perché, negli Stati Uniti, in ogni contea c’è una centrale di polizia del tutto indipendente dalle altre. L’Fbi, la polizia federale, invia a tutte le centrali le foto dei ricercati più pericolosi, ma non lo può fare con i bambini scomparsi, dato che non hanno commesso delitti.

Questa situazione assurda viene risolta solo all’inizio degli anni Ottanta da Ronald Reagan, appena eletto presidente, rendendo obbligatoria la comunicazione dei dati riguardanti i bambini scomparsi alle polizie di tutti e cinquanta gli stati dell’Unione. Reagan prende molto a cuore la terribile vicenda che ha sconvolto la vita dei Patz. Oltre a ricevere i genitori alla Casa Bianca, dichiara ufficialmente il 25 maggio giornata nazionale dei bambini scomparsi.   

Solo quattro anni dopo la scomparsa, il nome di Etan Patz ricompare durante un’indagine di polizia. Nel 1983 si sparge la voce che il bambino sia stato trovato in una fattoria del New England, dove è stato scoperto un bordello clandestino per la prostituzione minorile. La foto di uno dei due dodicenni tenuti nella fattoria per essere offerti ai clienti pedofili assomiglia a Etan Patz, ma in realtà si tratta di un altro.

Nel 1985 nessuno, salvo i genitori, spera più di trovare Etan vivo. Sarebbe già tanto scoprire chi l’ha ucciso. Il procuratore Stuart GraBois (la maiuscola in mezzo al cognome non è un refuso) mette finalmente un nome tra i sospettati, o tra gli indagati, come si direbbe in Italia. Si tratta di José Antonio Ramos, un molestatore di bambini amico della baby sitter che lavorava per i Patz. Gli sfortunati genitori, non lo avevamo detto, hanno due altri figli: Shira e Ari.

Ramos, che si trova in una prigione della Pennsylvania per aver abusato di un bambino di 8 anni, confessa davanti agli inquirenti. Dopo sei anni non può ricordarsi i particolari, ma conosce ancora bene il tragitto che da casa Patz porta alla fermata dello scuolabus. Inoltre, di questo è sicuro, proprio il giorno della scomparsa di Etan ha violentato un bambino. Il piccolo, alla fine, gli era scappato via. Guardando la foto che gli viene mostrata, dice che al 90% era proprio Etan Patz, anche se non sapeva il nome.

Queste dichiarazioni porterebbero alla sua condanna certa in un tribunale italiano, dove basta una confessione coerente con gli indizi raccolti. In America, invece, ci vogliono prove certe e concrete. Se, per esempio, Ramos dicesse di aver ucciso Etan Patz e indicasse il posto dove lo aveva sepolto, il ritrovamento del cadavere sarebbe considerato una prova valida.

Tenuto conto che negli Stati Uniti di norma si celebra un solo grado di giudizio senza appello, il giudice non se la sente di istruire un processo contro di lui. Ramos potrebbe essere semplicemente un mitomane, uno di quelli che spuntano fuori dopo ogni delitto clamoroso. In ogni caso, sarebbe un errore processarlo per poi farlo assolvere dalla giuria, perché a quel punto non potrebbe essere più processato per lo stesso delitto, anche se dovessero arrivare prove certe della sua colpevolezza.

Nel 2001 i genitori di Etan chiedono che il loro figlio venga dichiarato legalmente morto, per poter fare una causa civile contro Ramos. A differenza della causa penale, quella civile non comporta una condanna detentiva, ma solo una sanzione economica. Per gli strani meccanismi che regolano la giustizia americana, in questo tipo di processo le prove non sono determinanti: basta, come in Italia, la concordanza degli indizi.

Così, nel 2004, la giudice Barbara Kapnick dichiara José Antonio Ramos colpevole di omicidio e lo condanna a risarcire la famiglia con 2 milioni di dollari. Il condannato non sgancerà mai i soldi perché nullatenente. Ramos, rimasto in prigione per gli stupri precedenti, ogni anno riceve da Stan la foto del figlio con la scritta: “Cosa ne hai fatto del mio ragazzino?”. Fino al novembre del 2012, quando tornerà libero per aver scontato la pena.

Nel 2010, una soffiata induce il nuovo procuratore di Manhattan a far perquisire il seminterrato della casa di Othniell Miller, un carpentiere di 75 anni che ai tempi lavorava nella via della famiglia Patz e ogni tanto regalava degli spiccioli a Etan. I radar portatili della scientifica, gli stessi usati dagli archeologi per cercare le cavità delle tombe antiche, non segnalano niente di anomalo dietro le pareti e sotto il pavimento della cantina.

Il clamore suscitato da questa ricerca, però, un successo l’ottiene comunque. Si fa avanti un parente di Pedro Hernandez, il quale era impiegato in un negozio di generi alimentari sulla via che porta alla fermata dello scuolabus. Secondo l’informatore, Hernandez gli avrebbe confessato di aver ucciso un bambino in un’epoca non ben specificata. La polizia aveva dei sospetti su Hernandez fin dal 1979, ma contro di lui non aveva trovato nulla. Ora però, con questa testimonianza in mano, nel maggio 2012, esattamente 33 anni dopo la scomparsa del piccolo, gli agenti possono arrestarlo.

L’uomo confessa tra le lacrime, come per liberarsi di un peso che grava da troppo tempo su di lui. Ammette di aver attirato il bambino all’interno del negozio offrendogli una caramella e poi di averlo strangolato. Avrebbe nascosto il corpo in una cella frigorifera del negozio e, una notte, dopo averlo fatto a pezzi, l’avrebbe messo in un sacco della spazzatura portato via dal camion della nettezza urbana. Ha detto la verità o anche il 51enne Pedro Hernandez, all’epoca appena maggiorenne, è un mitomane?

La polizia crede nella sua sincerità, dato che l’accusa formalmente di omicidio. Non basta che l’avvocato di Hernandez affermi che il suo cliente ha alle spalle una lunga storia di malattie mentali e soffra di allucinazioni. Inoltre l’imputato ha ritrattato e afferma che le sue prime dichiarazioni gli erano state estorte senza la presenza di un difensore.

Pedro Hernandez viene processato e giudicato colpevole nel 2015, ma siccome non tutti i giurati sono concordi il processo viene annullato. L’uomo viene nuovamente processato nel 2017 e condannato a 25 anni di prigione.
Quindi anche senza prove concrete si può rischiare una condanna anche in America.

I Patz continuano ad abitare nel loro vecchio appartamento al 113 di Prince Street. Nonostante tutto, nel fondo dei loro cuori si aspettano ancora che loro figlio torni a casa. Che torni dopo essere uscito quel giorno del lontano 1979, magari ricordando solo confusamente che una volta abitava proprio lì…



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Di Sauro Pennacchioli

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