Ho trovato un racconto d’antan della vita di Eleonora Duse, soprattutto dei suoi primi anni, scritto dal drammaturgo francese Andé De Lorde (1871-1942) — che era più giovane di lei, la vide recitare e la conobbe.
L’articolo ha un gustoso sapore arcaico e riporta alcuni aneddoti probabilmente mitologici, ma irresistibili.
Tratto dal Journal de la Femme, fu pubblicato sul numero del 1° febbraio 1937 nella rinomata rivista di teatro Il Dramma.
Ecco il testo di André De Lorde.

Eleonora Duse discendeva da una stirpe di marinai poveri e avventurosi che erano partiti da Chioggia per cercar fortuna sui mari lontani.
Luigi Duse, suo nonno, fu il primo a cal­care le scene.
Egli riuscì anche ad acquistare una certa notorietà; ma fu una di quelle voghe effimere che fanno morire poveri e dimenticati.
Uno dei suoi figliuoli, Ales­sandro, ereditò la malattia paterna e volle dedicarsi al teatro entrando in una compagnia di attori ambulanti come interprete del Capitan Fracassa.
Aveva sposato una bella ragazza di campagna, Angelica Cappelletto, e fu durante un viaggio della Compagnia che nacque — in treno — la piccola Eleonora.
Si era nel 1859, in pieno Risorgimento, all’epoca in cui Milano accoglieva con grandi trasporti di gioia i Francesi liberatori.
Più tardi, quando la piccola si mostrava indocile e ribelle, i genitori dicevano, ridendo: «Non c’è da stupirsi che sia così agitata. È del 1859 ed ha la guerra in corpo!».
Eleonora fu battezzata a Vigevano: secondo il costume lombardo, venne portata alla chiesa in una piccola cuna di vetro, infiorata di carta d’oro. Poiché il corteo si trovò a passare davanti ad un distaccamento di truppe austriache, i soldati credettero che il cofano di vetro contenesse delle reliquie e presentarono le armi.
Il padre della neonata vide in questo gesto un presagio e dichiarò: «Nostra figlia farà grandi cose!».

Eleonora Duse (Library of Congress, pubblico dominio)

 

Nell’attesa, Eleonora cominciò il suo tirocinio teatrale.
A quattro anni, essa fu Cosetta in un adattamento de I Miserabili.
L’attrice che faceva la parte della perfida Thé­nardier doveva malmenare la piccola Eleonora a cui la madre, nascosta dietro le quinte, non cessava di ripetere: «Non aver paura, piccina. È per ischerzo…».
Intanto, Eleonora ingrandisce.
È una strana creatura selvaggia e tenera al tempo stesso.
La fortuna continua a sfuggire ai suoi genitori che conducono un’esistenza sempre più precaria.
Non è raro che Angelica debba restar digiuna per sfamare la figliola.
C’è quindi da stupirsi se, in tali condizioni, la Duse si rivela una bimba precoce? Nulla come il dolore e la miseria aiutano a crescere in fretta.
Ma invece d’indurirle il cuore, le prove della vita la rendono sensibilissima.
Reinhardt, uno dei suoi migliori biografi, racconta che durante una tournée, Alessandro Duse ed i suoi erano stati ospitati cordialmente da bravi campagnoli.
Mentre i nomadi stavano per ripartire, la padrona di casa, commossa dall’aspetto fragile di Eleonora, bimba dal visuccio magro e dai grand’occhi tristi, le regalò una bambola.
È il primo balocco che la piccola avesse mai avuto: e bisogna vederla stringersi la bam­bola al cuore. Fuori, nevica. La piccina batte i denti nei suoi vestiti consunti.
D’improvviso, eccola girar sui tac­chi e tornare, correndo, verso la casa da cui è appena uscita. Quando l’aprono, essa va a metter la bambola nel letto ancora tiepido: «Voglio — balbetta — che essa almeno non abbia freddo!».
Sa appena leggere, quella cosuccia, e recita digià parti importanti, dal meglio al peggio, dalle traduzioni di Shakespeare a Fualdès, dalle tragedie d’Alfieri a La grazia di Dio, dalla Francesca da Rimin  a Montecristo.
Spesso è in preda all’inquietudine.
Il suo senso innato del bello è frustrato dalla cornice derisoria in cui vive e dalla volgarità dei suoi compagni di recita.
Essa indovina confusamente che il teatro potrebbe essere altra cosa; un‘altra cosa cui aspira con tutte le forze della sua anima.
Eleonora ha quattordici anni.
I suoi genitori non si sono ancora imbattuti nella fortuna: al contrario, anzi!
Non sono mai stati tanto poveri e, specialmente Angelica, la madre, è stremata.
Una sera, durante la rappre­sentazione, s’informa la giovinetta che la madre è morta all’ospedale in cui la Compagnia ha dovuto lasciarla.
Eleonora non batte ciglio e trova persino la forza di re­citare sino alla fine; ma appena esce di palcoscenico, cade svenuta.
Era tanto povera da non potersi comprare neanche un vestito a lutto.
E mentre seguiva il funerale della cara scomparsa poté sentir bisbigliare da una delle compagne: «Questa ragazza è senza cuore: non porta neanche il lutto a sua madre!».
Poco tempo dopo, la Compagnia dà Giulietta e Romeo a Verona.
Eleonora ha veramente l’età di Giulietta, il suo cuore ardente e la stessa divina poesia.
Quando la rappresentazione è terminata, essa si mette a errare per le strade come una sonnambula, mentre il padre la segue, rispettando il suo silenzio.
Non si ferma finché è stremata e solo allora permette che la si ricon­duca all’albergo.

Eleonora Duse nei panni di Francesca da Rimini (Wikimedia Commons, p.d.)

 

Ma quella sera essa ha ricevuto la rivelazione dell’arte.

È una fanciulla di vent’anni: della vita ha conosciuto soltanto le tristezze e del teatro le servitù.
Ma la fede la riscalda tutta: dalla sera in cui ha potuto comunicare con l’anima immortale ed infinita di Shakespeare non ha più bisogno di cercarsi una ragione di vivere.
La sua personalità comincia a sciogliersi dai legami che la tenevano prigioniera.
A Napoli essa può recitare al lato della celebre attrice dell’epoca Gia­cinta Pezzana, la quale finisce con l’interessarsi tenera­mente a questa giovinetta taciturna e lontana che manca forse d’esperienza ma sa trovare, d’istinto, dei gesti e degli accenti che fanno rabbrividire.
Si rappresenta Te­resa Raquin, dove la Pezzana incarna la vecchia paralitica ed Eleonora l’ardente e sotterranea Teresa.
Durante le prove, il direttore di scena vuol obbligare la giovane Eleonora a fare asuo modo; ma la Pezzana lo inter­rompe violentemente: “Lasciatela fare! — grida. — Essa sa meglio di voi e di me cosa bisogna fare!”.
Prendendo coraggio, la Duse riesce a liberarsi dalla timidezza che sino allora l’aveva inceppata.
E la sera della rappresentazione riporta un successo eguale a quello della Pezzana.
Prima di lasciar Napoli, recita Amleto ed ha la gioia di leggere in un quotidiano, al posto delle solite lodi banali e stantie, queste semplici parole: «Essa fu veramente Ofelia…», che le fanno comprendere di aver realizzato il suo sogno…
L’anno seguente passa in compagnia di Cesare Rossi e recita al Carignano di Torino dove si annunzia che la grande Sarah Bernhardt verrà a dare alcune rappresentazioni.
Mentre la tragica francese recita La signora dalle camelie e La principessa di Bagdad, la Duse assiste allo spettacolo nascosta in un angolino della sala. E quando, partita Sarah, Cesare Rossi annunzia di voler riallestire qualche vecchiume del repertorio, Eleonora si ribella:
— Mai!… Io voglio recitare La principessa di Bagdad!
— Dopo Sarah! Ma sei pazza?
— Niente affatto. Voglio beneficiare della corrente di simpatia ch’essa ha stabilito fra la scena e il pubblico…
Ed ecco la Duse incarnare La principessa di Bagdad.
Essa vi si rivela ammirabile specialmente nella scena in cui l’eroina proclama la sua innocenza davanti al marito.
Bisognava ripetere tre volte «Te lo giuro!» e la Duse aveva avuto l’idea commovente e spontanea, dicendo il terzo «Te lo giuro», di stendere la mano sulla testa del figlio…
Ormai, è la celebrità.
L’eco del suo successo arriva sino a Dumas figlio, il quale scrive a Rossi una lettera di ringraziamento che vien riprodotta dai giornali italiani.
La giovane Duse è consacrata.
Poiché Dumas figlio le ha portato fortuna, essa recita altre commedie dello stesso autore: anzitutto La moglie di Claudio, che non aveva avuto alcun successo in Francia e che per merito suo viene entusiasticamente applaudita dal pub­blico italiano; poi, nel 1885, Denise che Luisa Bartet ha fatto trionfare a Parigi.
(Immagino che l’autore si riferisca piuttosto a Julia Bartet, 1854-1941, attrice francese quasi coetanea della Duse e interprete tra le altre cose di Denise di Dumas figlio. Ndr)
Eleonora fu un’ammirevole Denise.
Ma quando, più tardi, ebbe occasione di vedere l’altra Denise, dichiarò con la sua deliziosa franchezza: «Ora che ho visto la Bartet, capisco di essermi ingannata: piangevo troppo, piangevo dal principio della commedia. Essa, in­vece, non piange che nella scena centrale del quarto atto ed è lei che ha ragione!».
Negli anni che seguono, la fama di Eleonora non fa che aumentare.
Essa è acclamata non soltanto in Italia, ma in Europa ed anche in America, dove le sue rappresentazioni richiamano una folla smisurata come quelle di Sarah Bernhardt.
Ma le manca ancora la consacra­zione di Parigi.
Dumas figlio le ha consigliato di reci­tare in francese, ma essa ha un’idea altissima della patria e dell’orgoglio nazionale: così non acconsente mai a cambiar lingua.
Finalmente, dietro le istanze del conte Primoli e di Gabriele d’Annunzio, essa finisce per deci­dersi ad affrontare il pubblico della capitale francese. Sarah le offre ospitalità nel suo Teatro della Rinascenza; la Duse vi reciterà, in italiano, dal 1° al 30 giugno 1897.
Dal suo arrivo a Parigi, Eleonora Duse è oggetto di quella curiosità instancabile e morbosa che accompagna tutte le personalità in vista.
Ma essa si adopra in ogni modo a sottrarvisi come altri a soddisfarla.
Dichiarerà un reporter dell’epoca: “La Duse non può soppor­tare né i profumi, né i gioielli, né i giornalisti…”.
Durante il suo soggiorno a Copenaghen, i segugi della stampa avevano dovuto ricorrere a tutti i trucchi per poterla avvicinare: uno s’era improvvisato cocchiere per condurre la vettura della Grandissima dalla stazione all’albergo; un altro, vestito da cameriere, aveva potuto servirle la colazione: ed altri ancora, per rompere la rigorosa consegna che vieta l’ingresso al palcoscenico, avevano dovuto farsi assumere come macchinisti.
Al Rinascenza, la Duse recita La signora dalle camelie, Magda di Sudermann, La Locandiera di Goldoni, La moglie di Claudio, Cavalleria rusticana, ed un atto scritto per lei da D’Annunzio: Sogno d’una mattina di primavera.
E, di colpo, è l’apoteosi.

Il’ja Efimovič Repin, ritratto di Eleonora Duse (Wikimedia Commons, pubblico dominio)

 

Prima di lasciare Parigi, Eleonora volle offrire una matinée agli autori drammatici francesi, recitando Cavalleria rusticana, un atto de La moglie di Claudio e un atto de La signora dalle camelie.
Mi fu possibile assistere a questa rappresentazione.
Mio nonno, Mounet­-Sully, mi ci condusse dicendo: «Potrai conoscere una grandissima donna!». Io ero molto giovine allora; ma ricordo ogni minuto di quelle ore.
Quando la Duse apparve, non vidi più che lei.
Bella? No. Molto di più. Con la sua alta fronte piena di pen­siero, il suo naso diritto dalle narici palpitanti eil suo mento deciso, essa seduceva irresistibilmente.
Tutto in lei era contrasto: lo sguardo cupo, intenso, d’una bellezza dolorosa e la radiosa giovinezza del sorriso, potevano far pensare veramente ch’essa aveva «l’autunno ne­gli occhi e la primavera sulle labbra».
Recitava quasi senza trucco.
E come il suo viso, la sua arte era d’una verità inconfondibile e sorprendente.
Nessuna bizzarria, nessuno sforzo per stupire, nessuna esagerazione.
Qualunque fosse il personaggio che inter­pretava, essa vi si fondeva totalmente.
In Cavalleria rusticana era dalla testa ai piedi una creatura impulsiva e violenta, azionata da sentimenti primitivi: e i suoi gesti, i suoi sguardi, i suoi atteggiamenti erano tal­mente vivi ed espressivi che anche coloro i quali non conoscevano una parola d’italiano potevano «capire» ciò che essa diceva.
Ne La moglie di Claudio  essa incarnava la pericolosa seduttrice, l’Eva eterna che vive accanto all’uomo per essere la sua perdizione, il mostro voluto dall’autore.
Quando, vòlta di profilo verso Antonio ch’essa vuole indurre a tradire il suo benefattore la Duse diceva: «Vieni…», c’era una tale sensualità sul suo viso e nella sua voce, che mi è impossibile darne un’idea.
Era una cosa tanto vera ed intensa, da prendere il pubblico sino alle midolla: e il pubblico, infatti, di­menticava persino d’applaudire.

Eleonora Duse nei panni di Margherita Gauthier (Wikimedia Commons, pubblico dominio)

 

Ma fu ne La signora dalle camelie che Eleonora Duse toccò le più alte cime.
Non era più la Margherita di Sarah, d’un incanto e d’una poesia ineffabili, ma una innamorata che ardeva e si consumava davanti a noi.
Essa non recitava: viveva con dei gridi, dei brividi e delle lacrime che nessun’altra ci ridarà mai.
Chi può ridire l’eloquenza delle sue belle mani tese verso Armando, quel suo modo di ripetere a memoria la famosa lettera e di pronunciare — con un accento da fendere l’anima — il nome dell’amato?
Penso a queste parole di Verdi, a proposito della Traviata: «Se avessi sen­tito la Duse prima di comporre la mia opera, quale ma­gnifico finale avrei trovato con quel crescendo di “Armandi” in cui essa distruggeva il suo cuore…».
Quando cadde il sipario, tutta la sala piangeva. Ero entusiasmato. E fu con aria supplichevole che mi rivolsi a mio nonno: «Presentatemi!».
Mounet-Sully esitò. In fondo era un timido e l’idea di penetrare in un camerino che doveva essere invaso dal Tutto-Parigi, lo spaventava un poco. Ma poiché insistevo finì col cedere.
Dovemmo aspettare più di un’ora prima che la folla di visitatori si esaurisse davanti a noi.
Appena fummo soli con la Duse, il nonno la felicitò calorosamente. Che gli rispose la Grandissima? Non saprei dirlo. Ero troppo commosso per sentirne le parole.
Fu il suo brusco silenzio a strapparmi alla mia estasi per darmi la coscienza improvvisa ch’essa mi guardava. Allora, con delle goffe parole, cercai di esprimerle la mia ammirazione.
Ma essa tagliò corto: «Vi prego: non parliamo più di questo!». E subito dopo prese a interrogarmi sui miei progetti e sulle mie speranze di giovine drammaturgo: era squisita di vera semplicità e di ama­bile grazia.
Quando pronunciava certe parole, come bontà, anima, vita, una fiamma appassionata si accen­deva nei suoi occhi. Presi coraggio e finii per dirle che anche mia madre era d’origine italiana.
— Ma allora — fece lei, sorridendo, — siamo com­patriotti! Spero che veniate a trovarmi, quando sarò tor­nata laggiù! «Laggiù» era l’Italia.
Io non andai a trovarla, ma la rividi ogni qualvolta essa venne a Parigi.
E ritrovai sem­pre in lei l’adorabile semplicità dimostratami nel primo incontro e quel suo non voler ricordare l’attrice che la rendeva così alla mano, vicina e umana.
Essa ebbe a dire ad uno dei rari giornalisti che acconsentì a ricevere:  «Come si fa a non divenire stupidi? La vita di teatro è la meno intellettuale di tutte. Una volta che si è imparata la parte, il cervello non lavora più. I nervi soltanto e la ricerca d’emozioni: ecco ciò che occupa… È per questo che si hanno tanti attori inintelligenti…». E concludeva: «Bisogna soprattutto amare il verde, il cielo, il mare, il sole, la vita… Tutto il resto non è che letteratura!».
Un giorno mi confidò: «Non ho avuto altre amiche. in teatro, all’infuori di Luisa Bartet».
Essa l’aveva incontrata a Londra qualche anno prima e da allora l’amicizia della grande attrice francese le era stata di gran consolazione in molte vicende tristi e sconsolate della sua vita.
Nulla di più naturale, d’altronde, che questa simpatia.
Come scrisse in un bello studio sulla «Di­vina» uno di quelli che conoscono più profondamente il teatro, Albert Dubeux: «…esistevano fra la Duse e la Bartet delle affinità, più profonde che apparenti, del carattere e del talento. La creatrice di Francillon e la creatrice de LaGioconda sono meno diverse fra di loro di quanto non lo fossero da tutte le altre.
Questo perché i segni della loro somiglianza non apparteneva che ad esse.
La medesima sincerità in entrambe, lo stesso dubbio logorante, la stessa devozione appassionata per l’opera interpretata. E tutt’e due hanno spinto più lon­tano di ogni altra il disinteresse e il disprezzo per tutto ciò che abbassa l’arte al livello di mestiere.
Diverse per lo stile e la facoltà d’espressione, la Duse e la Bartet hanno saputo tradurre con eguale perfezione i sentimenti più opposti o raggiungere il parossismo dell’emozione senza abbandonare la misura o la verità…».
Quanto alla sua verità intima, la Duse ha sempre na­scosto gelosamente la sua vita privata: «A che scopo —diceva — mostrare i fili della marionetta?».
E di lei si sa soprattutto che essa ha meritato il saluto del poeta: «O grande Amatrice…».
Ecco ciò che fu veramente.
Se essa conobbe soprattutto delle grandi tristezze, se la sua personalità inquieta ed ardente non seppe realizzarsi pienamente che nel dolore, almeno il suo cuore batté veramente al ritmo delle grandi emozioni; ed al momento di chiudere gli occhi essa avrebbe potuto dire, come l’eroe mussettiano: «Si è spesso ingannati in amore, spesso feriti e spesso infelici; ma si ama…».

 

(QUI la fonte originale, sul sito di Rita Charbonnier).

 

Prima di dedicarsi alla scrittura, attività che oggi la anima più d’ogni altra, Rita Charbonnier ha svolto un’intensa attività come attrice di teatro.
È stata, dal 1992, in tv, in Avanzi e, nello stesso anno ha affiancato Franchi e Ingrassia in Avanspettacolo, l’ultimo e a tratti commovente varietà dei due comici i quali, stanchi e stremati dai loro dissidi, avevano bisogno d’avere accanto un volto delicato e fresco, dalla recitazione impeccabile quanto schietta.
Sempre negli anni novanta conduce il talk show Pandora di cui scrive i testi. La sua attività di scrittrice per la televisione prosegue con molte trasmissioni e serie.
Come attrice ha recitato in palcoscenico a fianco di Nino Manfredi, Lucia Poli e con registi come Aldo Trionfo, Tonino Conte, Antonio Calenda, Beppe Navelle e, come protagonista femminile, nelle commedie musicali Victor Victoria, con Sandro Massimini, Centocinquanta la gallina canta di Achille Campanile musicata da Germano Mazzocchetti.
Il suo primo romanzo – La sorella di Mozart (Corbaccio) – uscito nel 2006, è stato pubblicato in dodici Paesi.
Ha proseguito con le raccolte di saggi – Donne, romanzi, fantasie (Accademia filarmonica di Bologna, 2008) e, nello stesso anno, Un anno per tre filarmonici di rango (Patron Editore, Bologna) a testimonianza del suo amore per la musica e la vita degli artisti, nell’ultimo caso Perti, Martini e ancora Mozart.
Sono seguite, dal 2009 al 2017, altre quattro raccolte di racconti editi anche in lingua francese.
Nello stesso 2009 ha pubblicato il romanzo La strana giornata di Alexandre Dumas (Piemme) e Le due vite di Elsa (Piemme) nel 2011.
(Teresio Spalla)

 

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