Il dibattito sull’ecologia è datato: tracce di un interesse per l’ambiente tra personalità e movimenti di estrema destra le ritroviamo in Francia e in Germania tra l’Ottocento e il Novecento.

L’invocazione di leggi naturali (patrimonio del cattolicesimo), il ritorno alla natura contro la città che corrompe, sono un cavallo di battaglia della vecchia destra reazionaria, proposta dai tradizionalisti come Maurice Barrès e Charles Maurras (quest’ultimo leader dell’Action française e dei Camelots du roi, gruppo monarchico ultranazionalista francese), entrambi sostenitori di una forma di regionalismo neofeudale e ruralista che unisce delocalizzazione dell’economia e ritorno alle radici ataviche.

Maurras ha anche basato le sue teorie su una sintesi tra cattolicesimo e darwinismo applicato alla società, il cosiddetto darwinismo sociale: ci sarebbe una sorta di “selezione naturale” nel corpo sociale, tra individui e gruppi, che mette in evidenza la possibilità di gerarchizzazione naturale di chi è più debole. Questi due modi di difendere l’esistenza di leggi naturali destinate a governare la vita umana sono stati usati per giustificare il rifiuto e la necessaria difesa della società contro ciò che è estraneo.

Tutte suggestioni che in Francia ritroveremo durante l’occupazione tedesca e nella Repubblica di Vichy, quando le autorità di questo Stato fondato su concetti antitetici all’Illuminismo (il motto era Travail, Famille, Patrie in antitesi a Liberté, Egualité, Fraternité) valorizzeranno i contadini e il ritorno alla terra, considerati come i pilastri essenziali della rivoluzione nazionale, una politica ruralista tentata al fianco di una fondata sullo sviluppo industriale, basata sulla promozione del ritorno alle campagne, dato che la propaganda pétainista ha sempre messo avanti l’idea che “la terra non mente”.

L’ecologismo moderno francese, non casualmente, che si strutturerà alla fine degli anni sessanta, avrà tra i suoi padri l’intellettuale liberale Bertrand de Jouvenel, ex militante di estrema destra del 1930, legato al Parti populaire français dell’ex comunista Jacques Doriot, legato all’ambiente pétainista.

Ma è in Germania che l’ecologismo di destra ha una sua codificazione, dove nasce l’ecologia (termine coniato nel 1867 dallo zoologo Ernst Haeckel, istituito come disciplina scientifica dedicata allo studio delle interazioni fra organismo e ambiente), lì dove si affermano i Grüne, modello per i partiti “verdi” di tutta Europa. Questo per il suo esser sintesi fra naturalismo e nazionalismo germanico, un’unione nata sotto l’influenza dell’irrazionalismo anti-illuminista di tradizione romantica, con il contributo di intellettuali come Ernst Moritz Arndt, difensore della causa contadina che lo portò a interessarsi della salvaguardia dell’ambiente.

ecologismo e nazismo
Il ritorno alla natura secondo i nazisti

 

Gli storici dell’ambientalismo tedesco citano Arndt come il primissimo esempio di pensiero ecologista nel senso moderno del termine, fautore di una visione olistica fra uomo e ambiente. “Quando si considera la natura come connessione e interrelazione necessaria, tutto diviene egualmente importante. Un arbusto, un verme, una pianta, un uomo, una pietra: nulla viene prima o dopo, tutto è parte di una singola unità”, scrive Arndt nel 1815, ma inesorabilmente legata a una visione del mondo critica verso il meticciato e per la preservazione della ‘germanità’.

Concetti ripresi dal discepolo Wilhelm Heinrich Riehl, che nel 1853 sosterrà: “Dobbiamo preservare la foresta, non solo affinché i nostri forni non divengano freddi nell’inverno, ma affinché permanga calda e gioiosa anche la pulsione vitale del popolo, affinché la Germania rimanga tedesca”, criticando lo sviluppo industriale e urbanistico, glorificando i valori agricoli rurali condannando la modernità, qualificandolo come il “fondatore del romanticismo agrario e dell’anti-urbanismo”.

Saranno suggestioni che, come scrove G.L. Mosse, ritroveremo nel “movimento völkisch [che] aspirava a ricostruire una società determinata dalla storia, radicata nella natura e in comunione con lo spirito cosmico di vita”, e che “unì il populismo etnocentrico al misticismo della natura. Il cuore della tentazione völkisch era una risposta patologica alla modernità. Di fronte alle concrete dislocazioni conseguenti al trionfo del capitalismo industriale e dell’unificazione nazionale, i pensatori völkisch predicarono un ritorno alla terra, alla semplicità e all’integrità di una vita adattata alla purezza della natura […] rifiut[andosi] esplicitamente di individuare le cause dell’alienazione, dello sradicamento e della distruzione ambientale nelle strutture sociali, attribuendo invece la colpa al razionalismo, al cosmopolitismo e alla civilizzazione urbana”.

Tendenze neo-romantiche di quel magmatico humus culturale sviluppatosi fra le due guerre mondiali col nome di konservative Revolution o “rivoluzione conservatrice”, movimento culturale e politico che non solo costituirà l’humus da cui il nazionalsocialismo pescherà concretizzando molte sue suggestioni, ma che nasce dal senso di rifiuto del regime politico liberal-democratico e borghese creatosi in Germania dopo la sconfitta nella Grande guerra con la caduta del Kaiser. Esprimendo una critica sferzante al parlamentarismo e alla democrazia, definiti “la tirannia del denaro”, nonché la nostalgia per i valori tradizionali della vecchia Germania, facendo propria la dicotomia spengleriana fra esaltazione della Kultur germanica, tradizionale e creativa, contrapposta alla Zivilisation occidentale, decadente, priva d’anima, fondata su diritti astratti, un’area capace di rivisitare tutte le dicotomie ideologiche e tutte i luoghi della tradizionale topografia politica di allora, proponendone l’oltrepassamento con sintesi ardite di stampo socialista nazionale, dal nazionalbolscevismo.
Dove, secondo Ernst Niekisch, “l’ideale comunista sarebbe stato il mantello di cui si sarebbe ricoperto l’impulso vitale nazionale russo nel suo estremo bisogno di affermarsi”, scrive Ernst Nolte.

Altra componente rivoluzionario-conservatrice interessata al discorso ecologico è il movimento della gioventù, meglio noto con il nome di Wandervögel (Uccello vagabondo). La coscienza ambientalista del movimento verrà condizionato dal filosofo Ludwig Klages, autore del saggio Mensch und Erde, “uno dei più grandi manifesti del movimento radicale eco-pacifista in Germania”, spiega U. Linse, capace di criticare l’accelerazione delle estinzioni delle specie, la rottura dell’equilibrio dell’ecosistema globale, il disboscamento, la distruzione delle popolazioni autoctone e degli habitat selvaggi, l’espansione urbana e la crescente alienazione della gente dalla natura nel 1913.
Ma lo si fa utilizzando categorie neo-romantiche di critica anticristiana, anticapitalista (di tipo solidarista e neocorporativo), l’utilitarismo economico, il consumismo e l’ideologia del progresso, senza dimenticare non solo certe critiche al cosiddetto cosmopolitismo da leggersi in chiave antiebraica, ma anche l’elogio del Geist come reazione alla razionalità illuminista.

Una critica simile, di stampo antirazionale, è presente nel discorso del filosofo Martin Heidegger, che criticava ferocemente la tecnologia moderna e quindi viene spesso celebrato come un precursore del pensiero ecologista, una contestazione dell’umanesimo antropocentrico, l’invito rivolto all’umanità a imparare “a lasciar essere le cose”, la sua nozione che l’umanità sia coinvolta “in un gioco” o “in una danza” con la terra, il cielo e gli dei, la sua meditazione sulla possibilità di una maniera autentica di “dimorare” sulla terra. Il suo lamentare che la tecnologia industriale inquina la terra, la sua enfasi sull’importanza del “locale” e della “patria”, l’Heimat, la sua convinzione che l’umanità dovrebbe custodire e conservare le cose, anziché dominarle, tutti aspetti del pensiero heideggeriano che ritroveremo nell’ecologia profonda e in certe riflessioni rivoluzionario-conservatrici della nouvelle droite.

Un coacervo di elementi controculturali che univa in un solo movimento neo-romanticismo, filosofie orientali, misticismo della natura, ostilità alla ragione e un forte impulso comunalista, in una ricerca appassionata di relazioni sociali autentiche e non alienate, che in parte rifluì nel partito di Hitler, la Nsdap, in parte nel privato. Il riflusso era dettato dalla natura del movimento, molto forte tra i giovani, del tutto impolitico, che lo portò, vista la natura piccolo-borghese e reazionaria, al rendersi incapace di concretizzare una ribellione organizzata e focalizzata sul sociale, “convinto che i cambiamenti che desiderava avvenissero nella società non potessero essere ottenuti attraverso strumenti politici, ma soltanto attraverso il miglioramento degli individui”.
Questo si dimostrò un errore fatale. “In generale, erano possibili due tipi di rivolta: avrebbero potuto proseguire la loro critica radicale della società, che a tempo debito li avrebbe portati nel campo della rivolta sociale. [Ma] i Wandervögel scelsero un’altra forma di protesta contro la società: il romanticismo” (W. Laqueur).

Fedele alla propria ideologia, il partito nazista, al quale faranno parte molti esponenti dell’ambiente rivoluzionario-conservatore, specie il mondo völkisch, avviò una propaganda e una politica di rivalutazione della natura che sembrava sconfinare nel neopaganesimo. Essa si rifaceva al ben noto mito di origine romantica e idealistica dell’età dell’oro, ossia il felice Eden perduto, animato da uno ‘slancio vitale’ e caratterizzato da una primitiva ‘selvatichezza’ (Wildheit, oggi wilderness), una sorta di primigenia spontaneità (Ursprünglichkeit) che poneva l’uomo, la fauna e la flora in un tutt’uno organico.

Nel nazionalsocialismo l’ecologismo si concretizza nel culto dell’organicismo olistico, una religione della natura (più che dell’uomo) e dell’ordine naturale con non poche venature pagane e antisemite: “Attraverso i loro scritti, non soltanto quelli di Hitler, ma in quelli della maggior parte degli ideologi nazisti, si può discernere una fondamentale deprecazione degli esseri umani di fronte alla natura e, come corollario logico, un attacco ai tentativi umani di dominare la natura”. Citando un educatore nazista, la medesima fonte prosegue: “Le opinioni antropocentriste generalmente dovettero essere rifiutate. Sarebbero valide soltanto se il presupposto fosse che la natura è stata creata soltanto per l’uomo. Noi rifiutiamo decisamente questo atteggiamento. Secondo la nostra concezione della natura, l’uomo è un ingranaggio nella catena naturale della vita, esattamente come qualsiasi altro organismo” (R. Pois).

Tale anima verde del nazionalsocialismo si concretizzò nelle politiche ruraliste del ministro dell’Agricoltura Richard Walther Darré e nella sua ideologia Sangue e Suolo (Blut und Boden), espressa nel libro del 1930 Neuadel aus Blut und Boden (La nuova nobiltà di Sangue e Suolo, edito in italiano nel 1978 dalle Edizioni di Ar di Franco Freda), ideologia basilare nel regime nazista, e che non va assolutamente scissa dall’idea etnonazionalista: “Nulla potrebbe essere più sbagliato che supporre che la maggior parte dei principali ideologi nazisti avessero cinicamente finto un romanticismo agrario e un’ostilità verso la cultura urbana, senza una convinzione intima e per semplici scopi elettorali e propagandistici, allo scopo di ingannare il pubblico […]. In realtà, la maggioranza dei principali ideologi nazisti erano senza dubbio più o meno propensi al romanticismo agrario e l’anti-urbanesimo e convinti della necessità di un relativo ritorno all’agricoltura” (K. Bergmann).

Lo dimostrano la legislazione animalista del Terzo Reich elaborata da due esperti consulenti del ministero dell’Interno, i quali poi raccolsero il loro contributo in un loro saggio (Giese e Kahler, Il diritto tedesco sulla protezione degli animali, Duncker & Humblot, 1939), ispirata alle tesi del biologo nazista Walter Schönichen, docente di Protezione della Natura nell’Università di Berlino, il quale sintetizzò il suo pensiero in libri come La protezione della natura nel Terzo Reich (1934) e La protezione della natura come compito popolare e internazionale (1942).

Insomma, come riassume un noto studioso concludendo un paragone tra l’ecologismo nazista e quello contemporaneo, “l’uomo viene a essere visto non più come signore e padrone di una natura umanizzata e coltivata dal suo lavoro, ma come responsabile di uno stato selvaggio originario fornito di diritti intrinseci, di cui egli è tenuto a salvaguardare in permanenza la ricchezza e la diversità” (L. Ferry).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’ambientalismo rispunterà tra gli anni sessanta e settanta, in seguito alla pubblicazione del libro di Rachel Carson Silent Spring (1962), che criticava l’uso indiscriminato che si faceva all’epoca di pesticidi, destando notevoli polemiche ma anche molto interesse tra la gente comune, stimolando il nascere di una legislazione orientata alla tutela dell’ambiente, e dando il via alla nascita dei primi partiti propriamente detti ‘verdi’.

L’interesse dell’estrema destra per l’ecologismo, nonostante l’esistenza di altri interessi più contingenti, non svanì mai del tutto, ma a cui si darà sempre una connotazione differente da quella della sinistra. Dagli anni settanta-novanta settori della destra sociale europea, basandosi sulle suggestioni appena viste, fecero militanza ecologista in gruppi vari, in Italia con i Gruppi di ricerca ecologica e Fare verde, due emanazioni della corrente del Msi legata a Pino Rauti, in Germania con l’Okologisch Demokratische Partei, nato nel 1982 da una scissione dell’ala più moderata e conservatrice dei Grüne, e in Francia con il Mouvement écologiste indépendant, nato nel 1994 sempre con l’intento di differenziarsi da un ecologismo di sinistra.

Tutte forme di militanza che incrociano la strada del Grece, il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne, associazione che si fa promotrice delle riflessioni filosofiche della nouvelle droite di Alain de Benoist. Infatti, secondo Marco Tarchi, teorico del neodestrismo italiano e direttore di riviste come Diorama letterario e Trasgressioni, i cardini di una destra sensibile all’ambientalismo “sono la protezione della diversità dell’ecosistema, contro la monocultura omogeneizzante planetaria; la credenza nell’esistenza di leggi di natura invalicabili e la accettazione della nozione di limite (che ha portato, fra l’altro, all’opposizione agli organismi geneticamente modificati, o ogm); la valorizzazione del rapporto con i luoghi e il paesaggio, contro la riduzione della natura a strumento di profitto”.

Ma non sempre la corrente di pensiero di Alain de Benoist si è distinta in una forte sensibilità per l’ambiente. Negli anni settanta, nonostante le citate suggestioni negli ambienti della destra sociale, il Grece aveva posizioni nietzscheane, faustiane, prometeiche e molto inclini allo scientismo, cercando di giustificare uno dei capisaldi del suo pensiero, l’ineguaglianza dell’uomo (in seguito divenuta “differenza”) con ogni argomentazione scientifica, cooptando tra i suoi collaboratori studiosi e accademici.

In quel decennio le pubblicazioni del centro studi traboccavano di riflessioni come l’etologia umana, i rapporti tra razza e intelligenza, l’evoluzione, la sociobiologia, la demografia eccetera, polemizzando spesso “contro la repressione culturale e scientifica in essere su questi argomenti” (S. Vaj), come si evince sfogliando le sue pubblicazioni, con toni diversi da quelli antimoderni espressi oggi.

Questo tipo di scientismo spingerà de Benoist, in un articolo pubblicato su Éléments nel 1977, a contestare il movimento ecologista francese ed europeo come piccolo-borghese, una sorta di neo-gauchisme, o di pseudo-gauchisme che pretendeva di sostituire alla contraddizione “fatale” del capitalismo di marxiana memoria, la contraddizione “ambientale”, per cui il capitalismo sarebbe da superare perché andrebbe a confliggere con le condizioni ambientali necessarie al genere umano e a tutte le altre specie animali, presentando l’ecologismo come un’ideologia reazionaria e antimoderna che si basa sui fondamenti dottrinari della vecchia destra.

Teorie che vengono però modificate nel corso degli anni ottanta, quando c’è un graduale riposizionamento della corrente e dello stesso de Benoist: “Riguardo all’ecologismo, avevo espresso una decina di anni fa un certo numero di riserve legate alle aporie filosofiche suscitate dal concetto di ‘natura’. Da allora le mie opinioni hanno senza dubbio subito delle evoluzioni”, spingendolo a valorizzare l’ecologismo in quanto antagonista rispetto “a una società diventata incapace di capire che le cose che hanno veramente ragione sono quelle che sfuggono allo scambio commerciale, proprio perché non hanno prezzo” .

L’evoluzione ecologista del pensiero di Alain de Benoist, che mette in discussione la diade antinomica destra/sinistra, inizia dalla rilettura di certi intellettuali antimoderni come Julius Evola e altri della konservative Revolution, ma soprattutto dallo studio di Martin Heidegger, che, nel corso del tempo, finì per soppiantare Friedrich Nietzsche nel pensiero debenoistiano.

Durante quel periodo, si incentrò sempre più sulle tematiche dell’etnopluralismo, dell’europeismo, degli squilibri della modernità, dell’antindividualismo e dell’antiliberalismo. Queste ultime due tematiche lo portarono a confrontarsi con gli studiosi del Mauss (Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales), tra cui strinse buoni rapporti, in particolare, con Alain Caillé e Serge Latouche, teorici della decrescita. Un pensiero “capace di pensare simultaneamente ciò che, fino a oggi, è stato pensato contradditoriamente” e a vocazione egemonica, non può non interfacciarsi con l’ecologismo.

Questo perché l’ecologismo è una battaglia che per tali ambienti non è né di destra né di sinistra, ma che ha nel trasversalismo uno dei suoi elementi fondanti: “I verdi”, spiega il politico Alexander Langer nel 1984, in occasione dell’assemblea nazionale di Firenze per presentare le liste verdi che debutteranno alle amministrative dell’anno successivo, “dovranno costituirsi come terzo polo, come altro rispetto alla canalizzazione corrente della dialettica politica italiana”, il tutto in una fase non ancora dominata dal bipolarismo.
M. Tarchi, per esempio, dedicherà al fenomeno un fascicolo monografico di Diorama letterario, il n. 144 dell’aprile 1988, dal titolo “La sfida verde. Ecologia e crisi della modernità”, che prendeva spunti da suggestioni che l’area italiana (che a differenza degli omologhi francesi nasceva dal tradizionalismo evoliano) già aveva elaborato negli anni settanta.

Il minimo comune denominatore che favorirà a livello europeo un dialogo, e non un’infiltrazione, con l’ambientalismo verde è l’antiliberalismo, già all’epoca un’ideologia unilaterale, e la critica alla relativa mercantilizzazione dei rapporti sociali contro “l’impero della futilità e l’umiliazione della politica, ridotta a variante indipendente delle strategie dei più influenti operatori dei mercati finanziari” (M. Tarchi), per la difesa della qualità della vita, unico terreno possibile per il rilancio di un’alternativa.

Ci sono non poche similitudini fra la corrente animata da Alain de Benoist e l’ecologismo, perché quest’ultimo “segna la fine dell’ideologia del progresso; il futuro, ormai, è gravido più di inquietudini che di promesse. Nel contempo, rende evidente che i progetti sociali non possono più discendere da un’ottimistica attesa del ‘radioso indomani’, ma richiedono una mediazione sugli insegnamenti tanto del presente che del passato” perché l’ecologia “[…] richiamandosi al ‘conservatorismo dei valori’ e della difesa dell’ambiente naturale, rifiutando il liberalismo predatorio non meno che il ‘prometeismo’ marxista […] è nel contempo rivoluzionaria sia nella portata che nei valori. È in definitiva, tagliando deliberatamente i ponti con l’universo del pensiero meccanicistico, analitico e riduzionista che ha accompagnato l’emergere dell’individuo moderno, essa ricrea un rapporto tra l’uomo e la totalità del cosmo, che forse non è altro che un modo per protestare contro l’imbruttimento del mondo e per rispondere all’eterno enigma della bellezza”.

Questo non può che coniugarsi col comunitarismo solidarista e identitarista, con il localismo, per “opporre alla dittatura del mercato il modello di una società della sobrietà, legata ai valori autentici dell’uomo” (M. Tarchi), divenendo uno degli assi portanti delle ‘nuove sintesi’ proposte dal progetto neodestro. Il localismo, il regionalismo, l’identitarismo, non diventano solo un ponte di dialogo con gli ambienti nazional-populisti, ma il modo per sposare la nozione di decrescita sostenibile che “parte dalla semplicissima constatazione che non può esserci crescita infinita in uno spazio finito”, dato che il pianeta, le risorse naturali e la biosfera hanno dei limiti.

L’idea stessa della decrescita deve necessariamente condurre, secondo de Benoist, a un superamento delle vecchie scissioni politiche che porti come conseguenze a “inevitabili convergenze” tra una “sinistra socialista”, che sia in grado di abbandonare il “progressismo”, e una destra che abbia saputo rompere con “l’autoritarismo, la metafisica della soggettività e la logica del profitto”.

Nel discorso debenoistiano si mette però in discussione la filiera della produzione capitalista, da espletare a chilometro zero, ma non il capitalismo stesso, che nel campo neodestro non viene mai ridiscusso, eccetto per la sua tendenza a mondializzarsi.

 

 

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