A metà Ottocento la moda femminile diventa assurdamente scomoda a causa della crinolina. Inventata dai sarti francesi nel 1850, la crinolina è un’intelaiatura di cerchi in giunco, in fanoni di balena o in filo di ferro, che indossata sotto il vestito tiene la gonna enormemente allargata.
Il risultato è che le aristocratiche e le ricche borghesi somigliano a delle mongolfiere, e per loro diventa difficile salire o scendere dalle carrozze, passare per le normali porte di casa o anche semplicemente sedersi.

Per reazione, già nel 1851 un’americana dello stato di New York, Elizabeth Miller (1822–1911), lancia una contromoda. La gonna rimane senza sostegni, molto accorciata, e sotto vengono indossati i pantaloni lunghi alla caviglia, della stessa stoffa del vestito. La proposta fa scalpore. In tutta la storia mai una donna europea (le asiatiche sì) aveva osato mettere l’indumento maschile per eccellenza, le brache!

L’ambito è quello delle progressiste: non ancora chiamate femministe e solo verso la fine del secolo “suffragiste”, perché chiedono il diritto di voto per le donne. Il nuovo vestito viene propagandato dall’attrice Fanny Kemble (1809-1893), progressista e antischiavista, ma trova la migliore diffusione grazie a un organo di stampa, “The Lily” (il Giglio) scritto e diretto da Amelia Bloomer (1818-1894), paladina della “temperanza”, ossia di ciò che diventerà il futuro proibizionismo: il divieto di bere gli alcolici. Questo giornale pubblica le illustrazioni della moda sperimentale e per tale motivo l’abbinamento gonna-pantalone prenderà il nome di Bloomer.

Si grida allo scandalo, le poche donne che osano seguire la nuova moda vengono additate al pubblico disprezzo, chiamate “ermafroditi” e considerate pericolose per la morale della società. Insomma, la crinolina l’avrà vinta e non tramonterà che dopo una ventina di anni.

Eppure il vestito Bloomer ha una evidente praticità, rende molto più spedito il camminare e facilita tantissimo salire in sella e cavalcare. Sarà per questo che troverà una certa diffusione tra le pioniere sulla frontiera del West negli Stati Uniti. Alcune foto dell’epoca mostrano il Bloomer indossato da rispettabili signore accompagnate dai serissimi mariti con la barba alla Abramo Lincoln. Questi uomini non sono impressionati dalla novità o dall’apparente bizzarria dell’uso dei calzoni femminili.

 

Il “Bloomer” delle pioniere sulla frontiera americana deriva dall’uniforme delle vivandiere

 

In realtà il modello stilistico che anticipa l’emancipazione della donna è già in uso da diversi anni in ambito militare. Lo portano le vivandiere dell’esercito francese, e nella storia in questo caso bisogna andare a ritroso.

 

Esercito francese, 1850-70. Caporale e vivandiera del genio zappatori. (Parigi, Bibliotheque nationale)

 

Gli eserciti già dall’inizio del Novecento possono contare sui servizi e i corpi di Sanità e di Commissariato, e all’interno di ogni singolo reparto funzionano le cucine, le lavanderie e le sartorie, gestite completamente da militari uomini. Nei secoli precedenti tutto ciò non esiste ancora, e questi servizi sono assunti da donne che per mestiere seguono le armate, impegnandosi a essere contemporaneamente sarte, lavandaie, dispensiere, cuoche, infermiere.

Nell’esercito francese, un regolamento del 1793 stabilisce che non siano più di quattro per ciascun battaglione, e il loro servizio nell’armata come ausiliarie deve essere palesato da un distintivo o un medaglione contenente dei numeri, quelli del battaglione e del reggimento.
Malgrado l’indispensabile servizio svolto nei suoi eserciti in tante campagne, Napoleone decide di regolarizzare la posizione di queste donne solo nel 1810. Vestite modestamente sul campo, vengono dotate di un’uniforme da parata e già in quel tempo è in uso la gonna corta e i pantaloni con le ghette, simili a quelli dei soldati.

 

Esercito francese, 1850-70. Cavalleria. (Parigi, Biblioteca nazionale)


La vita delle vivandiere non si svolge solo negli accampamenti: queste donne sanno rischiare andando in prima linea a incoraggiare i soldati, distribuendo liquore a bicchierini sotto il fuoco nemico. L’oggetto che distingueva la vivandiera era proprio il barilotto di acquavite portato sul fianco sinistro, attaccato con una cinghia a bandoliera che appoggia sulla spalla destra. Il recipiente aveva uno spinotto a rubinetto dal quale si spillava l’acquavite. La botticella poteva essere di legno a doghe fasciate con cerchi di ferro, o tutta di metallo zincato; sempre veniva pitturata a vivaci colori, con gli emblemi del reggimento o il tricolore bianco-rosso-blu.
Alle donne dell’esercito non manca tuttavia il calore della famiglia, poiché spesso sono sposate con sottufficiali e lasciano i figli a casa affidati ai parenti. Non è da poco neppure il guadagno: durante la campagna di Russia una vivandiera scrive in una lettera da Mosca di aver accumulato 1200 franchi, per i tempi una grande somma. Non si sa però se nella successiva disastrosa ritirata abbia potuto salvare il gruzzolo e la vita.

Facendo un salto di 40-50 anni, le vivandiere del secondo impero di Napoleone III sono figurini di eleganza, e il loro costume ricalca la foggia ed il colore dei corpi ai quali sono aggregate. Sono le prime donne che possono portare i pantaloni senza nessuna contestazione, non solo quelli lunghi, ma anche quelli alla zuava, come Perrine Lohard maritata Gros, vivandiera del 24°reggimento chasseurs a pied, due volte decorata per aver soccorso i feriti durante la battaglia di Solferino e aver perduto la falange dell’indice destro, portata via da una pallottola nemica.

È noto che durante quella stessa battaglia lo svizzero Henri Dunant organizzerà i primi servizi di assistenza ai feriti, che in seguito diventeranno la Croce Rossa, e la sconfitta delle armate francesi nella successiva guerra del 1870 porterà, negli anni seguenti, al radicale rinnovamento strutturale di quell’esercito. Dal 1880, infatti, i battaglioni iniziano a pensionare le vivandiere e non assumerne delle nuove. Ufficialmente la loro presenza viene abolita dal ministero della guerra nel 1906, ma è ridotta ormai a poche unità.

Anche l’esercito italiano ha nei primi anni le proprie vivandiere, ne parla Edmondo De Amicis in un paio di racconti del suo primo libro La vita militare (1868), ma le riforme del 1872 e 1878 le lasciano poi a casa. Una leggenda narra che la “Bella Gigogin”, quella che ispirerà un celebre canto del Risorgimento, sarebbe la vivandiera del 6° battaglione bersaglieri. Non è certo però che portasse un’uniforme alla francese con i pantaloni. Un’immagine pubblicata nel 1961, centenario dell’unità d’Italia, la raffigura così, ma malgrado i calzoni come poteva questa vivandiera distribuire il liquore correndo in prima linea dietro ai fanti piumati?

 

È dubbio che le vivandiere dei bersaglieri indossassero questo costume. Errata anche la posizione del barilotto, che veniva portato sulla sinistra

 

In realtà, l’uso puramente utilitario per le donne di indumenti maschili potrebbe risalire al XVI secolo. Nelle compagnie mercenarie, come gli svizzeri e i lanzichenecchi tedeschi, le donne impegnate con loro venivano chiamate trossfrau, cioè donne delle salmerie. Da disegni dell’epoca risultano indossare già i pantaloni aderenti, una specie degli attuali leggins, allora usati dai picchieri e alabardieri, sotto una gonna accorciata per non inciampare durante le lunghe marce.

 

Nel XVI secolo le “trossfrau” seguivano le compagnie mercenarie e avevano un loro costume da campo

 

Non erano poche le trossfrau, nel 1567 l’esercito cattolico del duca d’Alba, dislocato nelle Fiandre (Belgio e Olanda) contava 1200 donne al seguito di 10.000 soldati. Di queste, 800 seguivano l’armata a piedi, e 400 a cavallo.

 

La vivandiera degli zuavi offre da bere a un ufficiale. Notare il copricapo ancora oggi portato dai bersaglieri e chiamato familiarmente “pomodoro”

 

Ma ritornando alla moda, oltre al Bloomer di metà Ottocento il costume delle vivandiere diventa a fine secolo il primo completo sportivo femminile, infatti i pantaloni alla zuava e il corpetto sono una comodità per pedalare in bicicletta e giocare a tennis. Il costume militare segna insomma le due tendenze che si svilupperanno durante tutto il Novecento: accorciare la gonna e adottare i pantaloni.
L’arruolamento delle ragazze a fianco degli uomini negli eserciti è sembrato recentemente un gradino superato a favore della parità dei sessi, ma l’emancipazione femminile, nei ruoli e nel costume, ci porta a date più antiche di quanto si possa pensare.

 

 

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