L’anno è il 1943. La Germania nazista ha occupato la Danimarca.

Il paese è preoccupato, schiacciato e a tratti prono alle richieste del nemico. Le forme popolari di resistenza con sabotaggi e singoli attacchi, a causa delle circostanze poco significativi, vengono vivamente scoraggiate dalle autorità locali per paura di massicce ritorsioni. Il primo ministro danese Buhl fa addirittura la richiesta odiosa di denunciare i sabotatori alle autorità naziste.

Questa la situazione.

Ma quando avanza l’oscura ipotesi, che si trasforma giorno dopo giorno in una spaventosa certezza, di rastrellamenti sistematici di ebrei, la popolazione insorge. E la disobbedienza non avviene affrontando il nemico in uno scontro aperto (che certo la Danimarca non avrebbe potuto permettersi), né tramite gruppi di partigiani armati.

La ribellione, silenziosa e strategica quanto protettiva e corale, avviene tramite un passaparola che prepara la comunità ebraica, e in un secondo tempo a costo della vita la protegge, nascondendola all’invasore (bisogna anche tenere conto che le deportazioni danesi apparvero particolarmente violente essendo avvenute all’improvviso, in un certo senso non ‘preparate’ da leggi o stelle gialle).

Gli amici, i conoscenti, divengono da un giorno all’altro rifugiati da salvare e da aiutare in un viaggio per la salvezza verso la vicina Svezia, che grazie alla sua cooperazione economica e strategica con la Germania nazista (con un controllo sulla stampa per non diffondere notizie troppo critiche nei confronti delle persecuzioni naziste, con esportazioni di merci belliche e non, e con concessioni di transiti militari verso la Norvegia, anch’essa vittima di un’occupazione ancora più violenta) può permettersi di subire meno ingerenze sulla politica interna.

Grazie infatti alla sua così definita ‘neutralità’, che è piuttosto una collaborazione, la Svezia allarga a mano a mano gli spazi, e quando ritiene ragionevolmente improbabile un attacco da parte dei tedeschi apre le frontiere a un numero sempre maggiore di rifugiati.

Alla fine, su 7000 ebrei danesi, 6500 riusciranno a salvarsi dalla deportazione grazie all’approdo in terra svedese.

Questa corposa opera storica è un resoconto estremamente interessante e mai retorico su un’occupazione singolare, in un paese che, contrariamente a tutti gli altri, non permise mai una propaganda antisemita non solo prima dell’invasione, ma neppure durante l’occupazione vera e propria; un’occupazione che, citando Lidegaard, “dietro la cortesia formale tra la potenza occupante e la nazione occupata [vede] il re e il popolo [mostrare] il loro disprezzo con un pacato rifiuto, una freddezza che non lasciava dubbi sul fatto che gli intrusi non erano considerati come ospiti”.

Il carattere particolare dell’occupazione danese, forse ancora più strano della scelta politica della Svezia, che come abbiamo visto coopera con il regime senza però mai entrare in guerra, è quello di un gioco diplomatico all’ultimo sangue, un braccio di ferro continuo, che vede re e governo accettare, chiedere, battersi, soprassedere, affrontare situazioni e richieste ogni giorno diverse e sempre più pressanti: la Danimarca accetta l’occupazione tedesca a patto di non entrare in guerra e non subire interferenze negli affari interni. Il governo quindi, formalmente indipendente, in questo modo può respingere ogni disposizione in materia di ebrei danesi.

Ovviamente la Germania vedeva tutti i possibili guadagni in questo governo di ‘collaborazione’, nondimeno questa atipica situazione lasciò alla Danimarca molte libertà e un ampio spazio di manovra per la sua resistenza silenziosa, formale, “pragmatica” e “per nulla eroica” seppure molto efficace (anche se bisogna comunque tenere presente che i comunisti non furono certo una priorità per il governo danese, dato che per favorire la loro deportazione le autorità danesi si rivelarono particolarmente solerti).

Bo Lidegaard inizia offrendo una panoramica su come veniva politicamente affrontata la cosiddetta “questione ebraica” in Danimarca e dopo averci fornito le basi per l’analisi prosegue dipingendo l’ambientazione storica dell’occupazione tedesca tramite il primo attacco combinato via terra e mare della storia.

La storia a questo punto prende forma in questo interessante resoconto corredato di immagini e fotografie preziose, che dà un volto a personaggi e vicende.

Bo Lidegaard nasce a Nuuk, capitale groenlandese, nel 1958. Dopo un dottorato in storia inizia una lunga carriera diplomatica per poi, a partire dal 2011, dedicarsi completamente al giornalismo come direttore di uno dei più importanti quotidiani danesi, il Politiken. Questa recentissima opera è in corso di pubblicazione in nove paesi.

 

Autore
Bo Lidegaard
Titolo
Il popolo che disse no
Traduzione
Giuseppe Maugeri
Editore
Collezione storica Garzanti
Info
pp. 452, € 28,00

 

Di Inkroci

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