DA CIAO PUSSYCAT AI FILM DI DIABOLIK

Quando cinema e fumetti si ispiravano l’un l’altro: agli albori della cultura Pop.

Sauro Pennacchioli mi fornisce uno spunto, mostrando una foto del cast di Ciao Pussycat (film americano ma anche inglese del 1965), celebre, ai suoi tempi, anche per le canzoni di Tom Jones e Dionne Warwick che vennero canticchiate ovunque.
Da quest’immagine ho ricavato qualche pensiero che ispira anche un rapido confronto con i film tratti dai fumetti di Diabolik usciti ultimamente.

Ciao Pussycat (1965), di Clive Donner, è un film “seminale”. Nato da un’idea del produttore Charles Feldman per Warren Beatty, che ne doveva essere il protagonista, cercando di cavalcare intelligentemente il successo della cultura popolare britannica del momento negli Stati Uniti.

Prima, fin dalla metà degli anni Cinquanta c’era stata la notorietà degli Angry Young Men che rivoluzionarono il teatro e il cinema (Free Cinema) con il loro amaro realismo, ma anche con una nuova visione ironicamente ruvida trasmessa a tutte le altre arti.

Da questo collegamento c’è stata l’evoluzione dell’arte pop che ha influenzato dalla tv (anche quella italiana, statale e in bianco e nero ancora ispirata alla Bbc) alla moda, dalla musica alla pittura, dal fumetto a tutte le arti visive antiche e nuove.

Una storia complessa, che non si può riassumere in poche righe, ma che Ciao Pussycat contribuì in diversi modi, pur delimitati, a far arrivare dovunque. Anche in Italia, dove i germi del Pop avrebbero germogliato come altrove con innesti della letteratura hippy e della controcultura urlante a livello giovanile, studentesco e quindi sociale e politico.

Insomma, Ciao Pussycat è la dimostrazione di come un’opera concepita in un contesto industriale organizzato come il cinema di allora, sia in realtà sgorgata soprattutto dall’ingegno dei singoli e ne abbia generato di altrettanto vivo e parallelo, quasi mai concertato.

Affidato a Clive Donner, regista inglese, allora trentottenne, tra i fondatori del Free Cinema (già autore di Il Guardiano, dal testo di Harold Pinter, e Il cadavere in cantina, commedia nera di gusto acido e irriverente), il copione passò subito nelle mani di Woody Allen (allora noto quasi esclusivamente sulla scena newyorkese ma di cui Feldman e Beatty conoscevano il talento), che scrisse così la sua prima sceneggiatura completa per il cinema.

Warren Beatty non ne fu contento e tentò di cambiare totalmente la sceneggiatura cercando di assoldare i veterani Blake Edwards e Frank Tashlin, litigando con Charles Feldman al quale il testo di Allen piaceva.
Va precisato che l’attore ammetterà, anni dopo, di non aver capito la genialità comica di Woody Allen, allora non ancora internazionalmente in auge, al confronto con quella di Sellers, sulla cresta dell’onda al momento della preparazione del film, e di essere soddisfatto delle decisioni “non prese”.

Beatty ebbe anche discussioni con Feldman sulla scelta degli attori.

Infatti, molti nomi pensati da Woody Allen si persero nella produzione finale. Tra questi Groucho Marx, pensato proprio per il ruolo che sarà di Peter Sellers.

Ma va appunto riconosciuto a Beatty, alla fine, di non aver insistito troppo, riservandosi il ruolo di produttore e soggettista non accreditato e affidando il suo stesso personaggio a Peter O’Toole, che lo interpretò comunque benissimo.

Woody Allen in seguito dichiarò di non esserne mai rimasto contento anche perché, a sua volta, aveva descritto il protagonista su Beatty e non su O’Toole, e perché sul set Sellers cambiò continuamente il testo lì per lì, intervenendo sulla sua comicità tipicamente newyorkese iniettando quella della frizzante London Comedy del periodo, ma salvando tutti e due gli aspetti.

Proprio questo è il pregio del film, la ragione della sua riuscita e del suo richiamo.
Essere la fusione, per quanto inconsapevole, dello stile pop statunitense e di quello britannico, influenzando altri film, opere teatrali, serie tv, e attraendo perciò l’attenzione del fumetto e delle arti visive allora innovative e di rottura.

Questo stile spurio ma ricco è rispecchiato anche nella canzone What’s news Pussycat? di Burt Bacharach, cantata da Tom Jones, che entrò all’apice delle hit parade e fu candidata all’Oscar del 1966.

Il disco italiano, sulla cui copertina era scritto inizialmente “dalla colonna originale del film Che c’è di nuovo Gattina? con Peter O’Toole e Ursula Andress”, comprendeva altri pezzi presenti, sempre musicati da Bacharach e su testi di Hal David, come My little Red Room cantata da Manfred Mann e Here I am con la voce già inconfondibile di Dionne Warwick.

Il cast, volgente alla proposta sensibilmente sessuale delle attrici, fu composto da Ursula Andress, appena uscita dal mare delle Antille nel primo film con James Bond – Licenza di uccidere, un’apparizione che aveva fatto epoca e generato un contratto con la Warner Bros; Romy Scheidner, in un ruolo finalmente internazionale; Paula Prentiss (allora notissima in Usa e voluta da Sellers che aveva girato con lei La vita privata di Henry Orient) e Capucine, ex modella dal fatuo destino di cui oggi è effettivamente difficoltoso capire la fama pur breve.

Peter O’Toole e Peter Sellers si rubano la scena a vicenda mentre Allen appare in un ruolo minore.

In camei compaiono Richard Burton (grande amico del regista) e, aggiungendo un po’ di sensibilità francese, la cantante Francoise Hardy la cui canzone Tous les garçons et les filles aveva sfondato in tutte le discografie facendo il giro del mondo, diffusa come da originale o tradotta dovunque compreso il Giappone.

All’uscita stroncato e apprezzato, inteso come “commedia sexy e buffonesca”, Ciao Pussycat divenne, con il tempo, uno dei primi e notevoli manifesti cinematografici della cultura pop, un decalogo e un’iniziale ispirazione (senza nulla togliere a lavori coevi) per il futuro.

In Italia, pur senza essere un flop, ebbe ancora meno successo di pubblico che negli altri paesi europei.

Il successo planetario (la colonna sonora vendette in Usa milioni di copie proposta insieme ad alcune canzoni di Francoise Hardy) comunque portò a condizionare film come Candy (1968); Barbarella (1968); Diabolik (1967) di Mario Bava, concepito quando Ciao Pussycat era in fase di ultimazione; La morte ha fatto l’uovo (1968) e Arcana (1973) di Giulio Questi; Baba Yaga (1973) di Corrado Farina da Valentina di Guido Crepax.

Ma anche i film del periodo anglopop, realizzati tra il 1966 e il 1970, di Tinto Brass non ancora conosciuto come regista “erotomane”: lo strano popwestern Yankee; il nero londinese Col cuore in gola; i difficilmente definibili L’Urlo; Nerosubianco; La Vacanza e Dropout, con Franco Nero e Vanessa Redgrave, allora meravigliosa vestale del Free Cinema.

E pure le scelte tormentate di un cineasta maturo e “impegnato” come Elio Petri che, già avvicinatisi con La decima vittima (1965), definito “fantacommedia pop”, realizzò (guarda caso con Nero e Redgrave protagonisti) la crisi dell’autore di fronte (non solo) a un nuovo modo di pensare l’arte con Un tranquillo posto di campagna (1968).

Non può mancare un accenno a Michelangelo Antonioni, il quale, nel 1965, era andato in Inghilterra a dirigere Blow Up, un film sulla distrazione dell’immagine e la sua “sparizione” nel vortice di una proposta compulsiva di riproduzioni della realtà ormai virtualizzata.
Aldilà dei significati, in parte attualissimi e in parti bloccati in quel periodo storico, il cineasta ferrarese abbandona qui le sue tematiche italiane e si incontra con il più vivido mondo culturale britannico.

Tra gli sceneggiatori di Blow Up c’è il drammaturgo Edward Bond; le musiche sono di Herbie Hancock contaminate dai Velvet Underground, i Tomorrow e gli Yarbirds; compaiono vivaci innesti di Michael Palin dei Monthy Phiton; la modella Veruschka, gli attori del Royal Court Theatre; Jane Street-Porter, la grande giornalista che stava documentando l’epoca indimenticabile della “Swinging London” anche assunta come consulente durante le riprese.

Blow Up, i cui protagonisti erano David Hemmings e ancora simbolicamente Vanessa Redgrave, fu il primo autentico successo internazionale di Antonioni da cui la leggendaria zuffa (davanti a Rosati in Piazza del Popolo) con Monicelli che, non presagendone l’ira, lo aveva apostrofato con “Ma allora hai cominciato a fare i soldi anche tu!”.
Era l’aria del tempo. Anche Monicelli, la captò e l’anno dopo mandò Monica Vitti, ex musa dello stesso Antonioni, a Londra in La ragazza con la pistola, dove, in contraddizione con la sua figura di donna borghese e incomunicante, arrivava lì dove il suo pigmalione aveva trovato una realtà comunicantissima.

Non a caso, qualche anno prima, cantava Francesco Guccini in L’Antisociale: “… Quindi non curo la mia intelligenza / La gente bene con questo non lega / Ma alle canaste di beneficenza / So sempre tutto sull’ultimo Strega / L’intelligenza c’è sol coi milioni / E ammiro i film di Monica e Antonioni”.

Tralasciando Antonioni e tornando a Candy, Barbarella (dal fumetto di Jean-Claude Forest), Diabolik (escursione molto pop dagli albi delle sorelle Giussani), Baba Yaga e i film di Questi e Brass, ispirati a Crepax ma anche a tutto il fiorire del fumetto “intelligente” (Linus, suo organo antologico incontestabile, esce nell’aprile 1965) si può dire che in Italia il fumetto e il cinema ebbero, anche grazie alle suggestioni innestate da Ciao Pussycat, una inconsapevole ma irripetuta e fervida coesione che, per un attimo, come più compiutamente nel Regno Unito, vide una concitazione degli istinti artistici e quelli produttivi, della creatività del fumetto e del cinema insieme all’aggiornamento delle altre arti.

Poi, per evidente acquiescenza nei confronti di Woody Allen, con buoni incassi ai nostri botteghini negli anni Settanta e divenuto cocco della critica dagli anni Ottanta, l’apporto di Ciao Pussycat (di cui una copia continuava a girare nelle ultime riedizioni estive) fu sminuito per puro conformismo che lo stesso Allen ebbe modo, in una sua apparizione alla Mostra di Venezia, di riportare al suo valore sulla cultura pop(olare) di un tempo creativo irripetibile.

A questo punto se dovessi continuare a raccontare annoierei i miei già pochi lettori.
Questa, come ho detto all’inizio, non vuol essere che una sintesi possibilmente stimolante a vedere e leggere il materiale citato.

In coda, proprio in coda, prevenendo il quesito, se qualcuno mi chiedesse cosa penso dei due film di Diabolik usciti nel 2021 e nel 2022 in corrispondenza a quanto esposto sopra, dico preliminarmente che non essendo mai stato un lettore regolare degli albi di Diabolik non posso esercitarmi sulle migliaia di proporzioni, che pur sono state fatte, tra il fumetto e queste opere telecinematografiche.

Ma posso pur aggiungere, di tutti e due i film, quanto segue.
Sceneggiati con eccessiva disinvoltura, diretti senza una reale coscienza di cosa sia il passaggio da un fumetto seriale a una macina di prototipi come il cinema, interpretato all’italiota, con questa presa diretta ormai incontrollata sulle voci di attori che non sanno recitare se non in vernacolo fuori tempo, si tratta, alla fin fine, una parodia della parodia, in parte inconsapevole e perciò ancor più respingente.


Certo, è difficile che gli autori e tutte le persone coinvolte in questi film si siano mai resi conto che già il fumetto Diabolik è di per se, agevolato in questo dal disegno pur mutato nei decenni, una “parodia seria” della letteratura nera e d’appendice dei primi del Novecento, adattata poi ai tempi cangianti fino ad arrivare miracolosamente, non so con quale risultato,  al di là delle fratture generazionali del tempo attuale.

Capisco però che ai più giovani e anche ai grandi, ormai abituati a questo linguaggio spurio (sia di immagine sia di voci) dalla pubblicità e dalla fiction italiana sulle varie piattaforme generaliste o meno, queste mie parole non siano comprensibili.

Che il primo film sia poi andato bene come incassi è da discutere.
Oggi, per fare botteghino, basta arrivare ai costi del prodotto.

E poi, in realtà, i due film con Diabolik diventano già infinita materia televisiva dove il gradimento si può strillare ai quattro venti (considerando che c’è la Rai che finanzia), ma i veri guadagni si faranno con i prefissati spot della pubblicità.

Se poi dovesse piacere davvero non mi stupirei, perché faccio parte di coloro che vivono al di là del profondissimo interstizio scavato in quarant’anni di anticultura dove il fumetto Diabolik, con la sua longevità, è capitato per caso, un po’ da una parte e un po’ dall’altra del burrone, a seconda della formazione, del gusto e dell’età dei lettori che si trasformano, oppure no, in spettatori.

So che, in effetti, ad alcuni è piaciuto perché oggi mancano le storie non racchiuse in un universo languido e sospiroso, specchio infelice di un’Italia in crisi deflagatoria.
Ma allora, se cercate roba buona, andate a quando il mondo fu migliore e influenzò le opere, non alle opere che, in un modo o nell’altro, nascono da questo deflagrare.



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